Ripartire dal talento: come hanno fatto gli altri?

Tutte le grandi nazioni calcistiche d'Europa hanno iniziato a costruire i loro campioni partendo da progetti fondati sulla valorizzazione dei giovani. Proprio ciò che dovrebbe fare ora l'Italia, per ricostruirsi.

Chi vince, festeggia. Chi perde, studia. Almeno dovrebbe. I verbi sono due. Studiare e lavorare. Chi davvero lo fa, chiude il cerchio e scopre che dopo un po’ raccoglie. In genere una decina d’anni. L’attesa che il cielo mandi un campione non basta più. Occorre fabbricarne. La cultura digitale ha distribuito saperi e competenze. La mescolanza global delle esperienze ha fatto nascere nuovi movimenti e ha spinto le periferie dell’impero a crescere. All’ultimo Mondiale Under 20, l’Italia è arrivata quarta. Sul podio, davanti agli Azzurrini, tre Nazionali che non si erano mai viste a livello giovanile: Ucraina, Corea del Sud, Ecuador. Tutti corrono, nessuno aspetta. La costruzione di un talento spezza le vene delle mani. Se non tieni il passo, le delusioni ti aspettano.

Una delusione è spesso una maniera per cambiare strada. Guardiamo Phil Foden inventare un passaggio geniale per Kevin De Bruyne e commettiamo due errori: invidiare gli inglesi per Foden e invidiare i belgi per De Bruyne. Ma non li hanno trovati. Li hanno prodotti. Il laboratorio si trova a Tubize, un piccolo comune di 20mila abitanti a mezz’ora da Bruxelles. Qui si producono due beni primari: acciaio e calciatori. Hanno iniziato quando rimasero fuori da due Mondiali di fila, quello del 2006 e quello del 2010. La federazione investì nella costruzione del centro i 10 milioni degli utili di Euro 2000. Scoprirono da uno studio che i ragazzini toccavano la palla una volta ogni cinque minuti. Crearono otto scuole d’élite su tutto il territorio, si misero a lavorare sulla tecnica. Niente partite 11 contro 11 fino ai 12 anni. Si comincia tre contro tre, e il numero aumenta con l’età. I fondamentali e il dribbling devi impararli per forza. Il fisico viene dopo, prima la qualità, il gesto, la giocata. Il progetto Purple Talents ha tirato fuori Lukaku e tutta la generazione figlia dell’immigrazione, da Fellaini a Nainggolan, da Januzaj a Witsel e Origi.

La fabbrica degli inglesi è invece un’antica tenuta di caccia della famiglia Berkeley, un proprietà all’interno della foresta di Needwood, nello Staffordshire, dove scorrazzavano cinghiali e daini. Il St George’s Park National Football Centre è stato un progetto a lungo fermo, la Federazione aveva un’altra urgenza: tirar su il nuovo Wembley. Quando finalmente si sono decisi, hanno riempito il loro calcio dei Mount, i Grealish, i Sancho, la fantasia di cui a Londra sentivano la mancanza. Il merito è di Insigne, in un certo senso. Nel 2013 l’Italia Under 21 fece fuori l’Inghilterra nel girone degli Europei, a Gerusalemme. Il Telegraph scrisse: «Perché dalle nostre Academy non esce un numero 10 come lui?». L’Italia avrebbe perso 4-2 la finale contro la Spagna di Isco e Thiago, loro si sarebbero messi a produrre i Foden. In quell’estate la Premier era reduce da una Champions senza nemmeno un club ai quarti di finale. Avevano vinto l’anno prima con il Chelsea, grazie al catenaccio di Di Matteo, e si disperavano perché la Nazionale non raggiungeva una semifinale dai Mondiali dal 1990 e dagli Europei dal 1996. Nacque l’Elite Player Performance Plan (EPPP), una serie di misure che avevano per obiettivo una cosa chiamata enfaticamente DNA England. I club della Premier collaborarono organizzando 212 festival e tornei per ragazzi di tutte le età. La Football League delle serie inferiori iniziò a gestire i rapporti con le scuole. Il programma Bio-Banding abbinò i giocatori per parametri biologici, non più secondo le tradizionali fasce di età, quelle che penalizzano i ragazzi fisicamente meno pronti, quelli nati nell’ultimo trimestre dell’anno.

La cosa più curiosa è rileggere lo scetticismo dell’epoca, quando alla guida della FA venne nominato Greg Dyke, politicamente un blairiano, con una lunga carriera nella tv. Aveva rilanciato gli ascolti nella fascia mattutina grazie a Roland Rat, una specie di Topo Gigio, ma dalla direzione generale della BBC si era dovuto dimettere in seguito al Rapporto Hutton, l’inchiesta che svelava le bugie dei servizi segreti sulle armi di distruzione di massa in mano all’Iraq. Il calcio reagì irritato, eppure fu sotto la sua guida che la Federazione fece funzionare quella che oggi viene considerata un’eccellenza alla Oxford e Cambridge. Nel 2017 gli inglesi vinsero i Mondiali Under 17 e quelli Under 20. Quando Dyke si insediò disse che l’obiettivo della Nazionale maggiore era la semifinale a Euro 2020 e il titolo mondiale in Qatar nel 2022.

Willi Gnonto è stato il quarantesimo calciatore che Mancini ha fatto esordire in Nazionale da quando è stato nominato commissario tecnico, nel 2018; dopo di lui, hanno giocato la prima in maglia azzurra anche Pobega, Dimarco, Ricci, Cancellieri e Zerbin, portando così il computo totale a quota 45 (Claudio Villa/Getty Images)

Anche ai tedeschi mancavano giocatori di qualità. Lo scoprirono con l’eliminazione ai gironi in due Europei consecutivi (2000 e 2004). La legge Bosman del 2001 aveva cambiato la scena e stava riscrivendo le coordinate. La libera circolazione dentro il mercato comune europeo iniziava a far calare il numero di calciatori indigeni nei campionati. Gli Under 23 in Bundesliga erano scesi al 6%. Due cose si potevano fare. La prima: lamentarsi. La seconda: reagire. I tedeschi scartarono la prima. Anche loro si diedero dieci anni per misurare gli esiti della mutazione. Istituirono 366 Stützpunkte, nodi regionali di raccolta per piccoli calciatori dai dieci anni in su. Tutti i bambini dovevano averne uno entro 25 chilometri da casa. Era il modello in voga presso i vicini olandesi. Jörg Daniel, un ex preparatore dei portieri messo a capo del Programma di Sviluppo del Talento, al primo giorno di lavoro disse: «Se qualche ragazzo promettente dovesse nascere in un villaggio fra le montagne, noi lo troveremo».

Il sistema è collaudato. Mette al centro la libertà, la fantasia, il divertimento. I ragazzini provano tutti i ruoli, i lanci sono vietati, i colpi di testa scoraggiati. Non si guarda al fisico, alla tattica. Hanno scovato i Götze, i Reus e i Draxler. Dieci anni dopo, puntualissimi, hanno vinto i Mondiali. Da allora non hanno smesso di trovare nuove pepite. Proprio come a Clairefontaine, dove raffinano la purezza calcistica della gioventù di Francia. Selezionano tra migliaia di pretendenti una ventina di allievi per le tre classi (Under 13, 14 e 15) e li restituiscono ai club nel fine settimana. Un ritiro permanente, scuola la mattina, pallone al pomeriggio. È il metodo che ha trasformato in oro la creta di Mbappé. I 14 centri regionali di pre-formazione fanno da corona. Clairefontaine partì col suo programma nel 1988. Andate a guardare chi vinse i Mondiali un decennio dopo.

Da Undici n° 44