L’agonia di tifare una squadra che non segna mai

Il Taranto di Eziolino Capuano ha messo insieme due gol nelle ultime 14 partite.

Tifare il Taranto è un atto creativo, uno sforzo della mente, una prodezza dell’immaginazione. In questo momento – in realtà in tutti i momenti, anche se in modi e per ragioni sempre diverse – tifare Taranto significa trovare il calcio in quel che resta di esso una volta privato di tutto ciò che lo rende tale, un esercizio al limite della speculazione filosofica. In questo momento tifare il Taranto significa mettere in discussione le autoevidenze che compongono la vita di ogni tifoso, arrivare a dubitare delle certezze che tengono assieme l’universo calcistico. Può esistere un gioco privo di qualsivoglia componente ludica? Ha senso praticate uno sport (a livello professionistico, poi) senza il desiderio di primeggiare? Oltre quella che esprimiamo con il gesto pubblico, plateale, persino sguaiato dell’esultanza per il gol, quante e quali altre gioie può regalare il calcio? In questo momento tifare il Taranto significa vedere realizzato, scritto nei fili d’erba verde e nelle righe di gesso bianco di un campo di calcio, il romanzo su niente che Gustave Flaubert voleva lasciare alla letteratura. Perché niente è quello che succede ormai da mesi nelle partite del Taranto.  

Vi sarà capitato in questi giorni di leggere una delle più curiose e assurde statistiche della stagione 2022/2023 del calcio italiano. La notizia è stata ripresa anche dai quotidiani sportivi nazionali, tanto è incredibile. Siamo nel girone C di Lega Pro, quello che il Catanzaro ha appena vinto meritatissimamente: 27 vittorie, 5 pareggi, una sola sconfitta, 88 gol fatti, 13 subiti, 86 punti in 33 partite. Numeri che sono valsi al Catanzaro il ritorno in Serie B dopo 17 anni: a loro la gloria, ma la fama è toccata ad altri, è toccata al Taranto che vive la sua stagione saltellando di qua dalla zona playout e di là da quella playoff. La notizia di cui sopra: l’ultima volta che il Taranto ha segnato più di un gol in novanta minuti era ancora il 2022. Per la precisione il 18 dicembre 2022, giorno della vittoria contro il Messina, a Messina, per 2-1. Da quella partita in poi, la stagione del Taranto è diventata una brutale, radicale, fanatica applicazione della teoria del corto muso esposta da Massimiliano Allegri: 14 partite giocate, 14 punti raccolti, due gol segnati, cinque subiti, otto pareggi a reti bianche (contro Monopoli, Turris, Fidelis Andria, Gelbison, Juve Stabia, Audace Cerignola, Giugliano e Viterbese), quattro sconfitte senza gol segnati contro Catanzaro – «Abbiamo dimostrato come si ferma il Catanzaro», disse nella conferenza stampa post partita l’allenatore del Taranto Ezio “Eziolino” Capuano –  Foggia, Potenza e Picerno, due vittorie di corto muso, appunto, contro il Latina a febbraio e la Virtus Francavilla nella scorsa domenica. Una partita, quest’ultima, che Capuano ha definito «una liberazione».  

Ho tifato il Taranto per tutta la vita, una buona parte dei miei ricordi d’infanzia e di gioventù hanno la forma rettangolare dello stadio Erasmo Iacovone, io, mio padre e mio fratello minore siamo stati abbonati per buona parte della nostra vita adulta (mio padre lo è ancora, e il Taranto, assieme alle sorti della sinistra italiana, è l’unica cosa che gli interessi ancora). La mitologia tarantina è piena di personaggi, di momenti, di eventi troppo inverosimili e numerosi per essere ricordati tutti qui. Nella mia tutto sommato breve vita da tifoso rossoblu (ho 33 anni) ho visto passare da Taranto santi, banditi, farabutti, miracolati, benintenzionati. Ho assistito a depressioni e risorgimenti, a fallimenti e ripartenze, a trionfi (pochi) e a umiliazioni (tante). Sono stato testimone di momenti di euforia ingiustificata e di rabbia ingiustificabile. Ma mai, nella mia tutto sommato breve vita di tifoso tarantino, avevo attraversato un momento come questo: se il gol è il dio del calcio e la vittoria il momento di comunanza tra il dio e i suoi fedeli, questi ultimi mesi sono stati per me e per tutti i tifosi tarantini un’esperienza mistica, una traversata nel deserto, un’esplorazione del mistero della fede calcistica, uno studio degli arcana dei del pallone. Esiste un limite oltre il quale la mente di un tifoso supera il confine dello spazio e del tempo, ascende a una nuova dimensione, accede a un terzo punto di vista che gli permette di piegare il continuum dell’esistenza su se stesso a formare un cerchio che al suo interno contiene everything everywhere all at once. Cosa succede alla mente di un tifoso durante l’ennesimo 0-0 della sua squadra, cosa produce l’immaginazione di un fedele che attende il ritorno di un dio che potrebbe non tornare mai? Succedono le storie, si producono miti: mai come in questi mesi in cui le partite del Taranto sono state capitoli del romanzo su niente calcistico mi sono sentito di nuovo così immerso nel mito, drammatico ed epico, tragico e comico, della mia squadra. 

Come tutte le cose che esistono in natura, la mente del tifoso non ammette il vuoto. Di fronte a un campo diventato fossa, voragine, abisso, vuoto, la mente del tifoso tarantino è stata costretta a compensare. E si sa, ci sono tifoserie per le quali le uniche consolazioni stanno nel passato, al futuro è meglio non pensare perché nel futuro ci sono le aspettative e le aspettative sono delusioni travestite da speranze. Non che nel passato del Taranto ci siano gioie particolari, ma la distanza nello spazio e nel tempo addolcisce le amarezze e arrotonda gli spigoli: lo vedi, nonostante tutto siamo sopravvissuti a questo e a quello, è il pensiero che fa del passato sempre la terra del latte e del miele. Mai come in questi mesi di 0-0 in loop mi sono sentito di nuovo così immerso nella storia della mia squadra, dicevo. I video, i meme, i ricordi, gli archivi, le chat di Whatsapp e i gruppi Facebook (mio preferito: Better Call Eziolino). Mentre in campo succedeva il minimo indispensabile e le telecronache della partite del Taranto somigliavano sempre di più a quella gag dei Simpson in cui uno scoglionatissimo Kent Brockman commenta Portogallo vs Messico («il mediano passa al centravanti, di nuovo all’ala, di nuovo al centravanti, il centravanti la tiene, la tiene, la tiene…»), attorno alla partita e fuori dal campo sconosciuti aedi tarantini mettevano assieme i frammenti della nostra opera epica. Niente di nostalgico né romantico, nessun rimando all’amichevole con il Real Madrid negli anni Sessanta o alla serie B degli Ottanta, niente Franco Dellisanti che se solo non si fosse rotto sarebbe diventato grande all’Inter né Erasmo Iacovone morto prima di portare il Taranto in Serie A. I tempi sono quelli che sono, è meglio guardarsi attorno e non indietro: Taranto è, d’altronde, una città le cui ambizioni negli anni si sono ridotte di pari passo con l’agibilità e la capienza del suo stadio, costretto, metafora perfetta, dall’incuria e dalle ristrettezze a essere meno di metà di se stesso.

La rabbia nel tiro, nell’esultanza finale, è quella di chi non provava quest’emozione da un bel po’

Attorno al tifoso tarantino, in questi tempi, c’è il materiale della commedia all’italiana: situazioni da Risi, personaggi da Monicelli, dialoghi da fratelli Vanzina. Mentre in campo succedeva niente, per una volta i tarantini prendevano possesso della loro stessa narrazione e, costretti a riempire il vuoto, producevano una nuova mitologia ambientata negli spazi liminali del calcio, dove circolano le voci che nessuno potrà mai confermare: il noto ristorante in città che avrebbe ingenti somme da riscuotere da quel tesserato, la boutique in centro che non ne può più di essere pagata in biglietti dello stadio da quell’altro tesserato. E poi Eziolino Capuano, l’unico protagonista possibile di questa nuova mitologia, l’unico personaggio che poteva rendere verosimile questa storia. Se un’agenzia specializzata dovesse mai fare un’indagine sui contenuti audiovisivi circolati sull’internet tarantina in questi mesi, sono certo che scoprirebbe che a Taranto, in termini di visualizzazioni e interazioni, Capuano vale Blanco che disbosca il palco di Sanremo o Fedez che cazzia il governo Meloni dalla discoteca galleggiante di una Costa Concordia. Capuano, con i suoi abbinamenti giacca di pelle e cravatta, la sua retorica grassa («i miei giocatori sono delle scrofe assatanate, vogliose sempre di aggredire e fare la partita», disse una volta), la sua aneddotica surreale (indimenticabile quella volta in cui disse di aver sentito Mourinho per chiedergli «come stesse vivendo questo momento difficile con il Chelsea), le sue sgangherate previsioni («Dries Mertens non giocherà più di otto partite da titolare con il Napoli»), le sfuriate contro il consigliere del presidente Giove, Vittorio Galigani, definito all’epoca «apoteosi dell’immondizia illimitata» (tutto chiarito, tutto passato, ha assicurato poi Galigani) le playlist dedicate su YouTube.

Dopo il gol di Tommasini contro la Virtus Francavilla – all’88esimo, il minimo indispensabile e pure all’ultimo minuto disponibile – questo momento di sospensione creativa nella vita del tifoso tarantino si è purtroppo interrotto. Il gol, il dio del calcio, si è di nuovo manifestato davanti ai nostri occhi e anche noi abbiamo dovuto riprendere le pratiche quotidiane del culto e abbandonare l’eresia mitopoietica alla quale ci siamo lasciati andare negli ultimi mesi in cui in campo succedeva niente. Può sembrare assurdo a chi non ha avuto il privilegio di veder scrivere il romanzo sul nulla calcistico con l’erba verde e il gesso bianco del proprio campo, ma nella mia seppur breve vita di tifoso tarantino non sono mai stato sereno e felice come sono stato negli ultimi mesi in cui nulla di quello che succedeva in campo era neanche lontanamente interessante come quello che si raccontava attorno a esso, dove i tarantini si impegnavano a scrivere una storia del calcio tarantino che potesse fare a meno del pallone, così come il Taranto giocava la sue partite facendo a meno del gol, una nuova forma di arte dell’arrangiarsi. Dopo il gol di Tommasini contro la Virtus Francavilla, sapevo che saremmo tornati tutti al campo e alle preoccupazioni che dentro di questo prendono forma. La prima persona che ho sentito dopo la fine della partita è stata, come sempre, mio padre, che ha confermato i miei timori: «Quest’estate dobbiamo prendere un attaccante perché io così non ce la faccio più», mi ha detto. 

Foto di Paolo Margari, via Flickr