Da un anno a questa parte, la Fifa ha cambiato i regolamenti relativi ai giocatori in prestito. Ha imposto dei paletti, delle restrizioni sempre più nette e stringenti, per evitare che i grandi club accumulino giocatori – comprandoli sul mercato, e quindi sottraendoli tutti a società con possibilità economiche più limitate – senza dargli la possibilità di scendere in campo, se non con un trasferimento temporaneo in un’altra squadra. Negli ultimi quindici o anche vent’anni, infatti, il concetto stesso di prestito calcistico è molto cambiato, arrivando a rivoluzionare completamente il calciomercato: se inizialmente era stato pensato e istituito come uno strumento per permettere ai giovani di fare esperienza – magari in divisioni inferiori – senza che il club proprietario perdesse il controllo diretto del cartellino, oggi è una formula utilizzata in modo diverso e diversificato, per ritardare o dilazionare i pagamenti degli affari a titolo definitivo, per liberarsi degli esuberi e quindi per fare spazio nel monte ingaggi. Per dirla sinteticamente: i prestiti sono diventati un’arma per esercitare un’egemonia economica sulle altre società. È per questo che, tornando alla Fifa, è stato creato questo nuovo regolamento. Che prevede, nell’ordine: la durata massima di un anno per il trasferimento a titolo temporaneo; un limite per cui un club professionistico può avere al massimo otto calciatori over-21 tesserati acquisiti in prestito e altrettanti ceduti in prestito; questo limite scenderà a sette per la stagione 23/24 e infine a sei a partire dalla stagione 24/25; ogni società può dare e/o ricevere soltanto tre giocatori in prestito da un’altra società.
Per il calcio italiano, tutto questo rappresentava, rappresenta e rappresenterà un problema. Un grosso problema. Per un motivo facilmente intuibile, se conoscete bene il nostro modo di fare calciomercato: nessun’altra piramide calcistica al mondo, ma proprio nessuna, utilizza i prestiti come si fa qui da noi. Lo ha dimostrato uno degli ultimi rapporti CIES sul mercato globale, su un campione di 1254 squadre di 75 campionati di 57 Federazioni: la Serie B (22,8%) e la Serie A (19%) sono, rispettivamente, prima e seconda per percentuale di calciatori in regime di trasferimento temporaneo – a prescindere che siano in prestito cosiddetto secco oppure esista un diritto/obbligo di riscatto. Tra le prime cinque leghe, inoltre, solo la Serie A è un campionato di primo livello: il podio viene infatti completato dalla Segunda División spagnola (19%), poi al quarto e quinto posto ci sono League Two (17,8%) e League One inglese (17,3%).
Nei commenti del rapporto CIES c’è scritto chiaramente che «in Italia il ricorso al prestito, talvolta con obbligo di acquisto subordinato ai risultati della squadra o alle prestazioni dei giocatori, è una vera e propria istituzione». Ne fanno una questione culturale, anche se poi attuare questa strategia diventa un modo per far respirare bilanci, per continuare a fare mercato pur in assenza di grandi disponibilità economiche. Il problema, in fondo, è proprio questo: le squadre italiane attraversano un momento storico in cui non hanno la stessa disponibilità economica di quelle di Premier League, e allora devono inventarsi dei modi “creativi” per portare avanti il player trading. Lo dicono altri numeri, per esempio quelli di Transfermarkt: se escludiamo il Tottenham, infatti, le prime quattro squadre al mondo per valore dei giocatori acquisiti a titolo temporaneo sono tutte di Serie A. Si tratta di Napoli, Inter, Monza e Juventus – che hanno in prestito, tra gli altri, Raspadori, Ndombélé, Simeone, Paredes, Locatelli, Kean, Milik, Lukaku, Gosens, Asllani, Pessina, Rovella, Petagna, Caprari. Come detto, solo il Tottenham agisce allo stesso modo, se guardiamo agli altri campionati europei top. E forse non è un caso che l’uomo-mercato degli Spurs sia Fabio Paratici. Un italiano.
Insomma, è davvero una questione culturale. E infatti Atalanta (50), Inter (31) e Sassuolo (30) sono i tre club che prestano più calciatori al mondo. Ovviamente sfruttano il fatto che i limiti Fifa, quelli di cui abbiamo già detto in apertura, non riguardano i calciatori Under 21, e anche che la Figc non ha ancora recepito il regolamento Fifa anche per i prestiti nazionali – ma è nel suo diritto, visto che ha tre anni per adeguarsi alla normativa globale. In questo senso, e con certi numeri, si fa fatica a separare i due concetti: l’Atalanta, per esempio, riuscirà a valorizzare e a inserire in prima squadra tutti i 50 ragazzi che ha dato in prestito in giro per l’Italia e per l’Europa? Difficile crederlo, difficile anche solo pensarlo. E allora il problema diventa di sistema, quindi di cultura e di regolamenti, esattamente come segnalato dal CIES. Che avvalora la sua tesi con un altro dato significativo: cinque delle prime dieci squadre al mondo per numero di calciatori acquisiti in prestito sono italiane. Si tratta di Frosinone capolista in Serie B (48,3%, praticamente uno su due), Empoli (40%), Cosenza (37,9%), Monza (36,7%) e Sampdoria (34,6%). Le altre sono Barracas Centrál (Argentina), Mirandés (Spagna), Deportivo Pereira (Colombia), Arsenal de Sarandí (Argentina) e FK Nizhny Novgorod (Russia). Tutte squadre di basso livello. Anche questo aspetto dovrebbe far riflettere i nostri direttori sportivi. Anzi, soprattutto questo aspetto.