Alla ricerca del vero Lukaku, tra il fenomeno e l’imbranato

A cosa si deve l'involuzione dell'attaccante travolgente e implacabile che aveva trascinato l'Inter allo scudetto?

Ho saputo dell’errore di Lukaku contro la Fiorentina in diretta pur non vedendo la partita, perché un mio amico, ogni volta che Lukaku sbaglia qualcosa, mi manda un messaggio con scritto #paracarro. Non lo fa proprio ogni volta, ma solo quando Lukaku sbaglia qualcosa nel-modo-in-cui-sbaglia-Lukaku, ed è una consuetudine così consolidata che, se il messaggio arriva mentre sono fuori a cena, mi basta dire alla mia ragazza: «Niente, paracarro», e lei capisce.

Guardando poi il video dell’errore sul telefonino, la prima cosa che ho pensato è stata che la palla fosse saponata. E invece non lo è, basta vedere come costruiscono l’azione i suoi compagni. La catena di sinistra dell’Inter è perfetta; Gosens la fa scorrere lungo la linea del fallo laterale, Correa la prolunga con la consueta flemma cerbiattesca nel mezzo spazio per l’accorrente Bastoni, che la mette in area piccola di prima. Con i centrali viola impegnati a marcare in area Acerbi e Brozovic, davanti a Lukaku si srotola un tappeto verde a cui mancano soltanto le margherite, tanto è invitante. Il belga lo percorre indisturbato e poi fa tutto quello che si fa in questi casi: tocco leggero, di piatto sinistro, quasi un clic sulla parola gol. La palla però scivola via verso la linea di fondo, per la disperazione dei compagni (Bastoni e Brozovic i più inconsolabili), ma soprattutto di Lukaku stesso. Dopo l’errore è come se il suo corpo si spegnesse, ciondolando in una postura che è una via di mezzo tra la statura eretta e l’inginocchiamento.

L’errore di Lukaku è così clamoroso che Dazn ha pubblicato un video dedicato solo a quel momento, camuffandolo con un titolo un po’ più pietoso e più democratico: “Tutti gli ERRORI dell’INTER in Inter-Fiorentina”

Questa reazione, questo svuotamento vitale, mi ha ricordato una scena del primo Space Jam. Charles Barkley, dopo che i piccoli alieni Nerdlucks gli hanno rubato il talento, viene stoppato in un campetto di periferia da una ragazzina, che poi gli dice: «Tu non sei Charles Barkley, sei uno che gli somiglia e che si vuole atteggiare. Non farti più vedere, buffone. Impara a giocare». Anche a noi, come a quella ragazzina, ogni tanto viene il dubbio che questo non sia il vero Lukaku. Di certo non è quello di due anni fa, che con 34 gol e sei assist trascinava l’Inter alla finale di Europa League e poi allo scudetto. Un giocatore in grado di inclinare il campo con la sua massa lanciata a velocità interstellari, di trascinarsi dietro intere difese come fossero galassie inghiottite da un buco nero. Un’inesorabilità che si traduceva in conclusioni altrettanto potenti e precise, come logica conseguenza della sua supremazia fisica.

La versione più recente di Lukaku, coi suoi soli sei gol in stagione, ci restituisce invece un’immagine decadente, malinconica. Goffa. Ed è questo il punto. Quando le cose gli vanno bene, Lukaku sembra un giocatore straripante e incontenibile, ma quando gli vanno male sembra che gli abbiano rubato il talento. Un golem di 1,91 m per 100 kg il cui rabbino invisibile gioca a togliere e rimettere il cartiglio. È questo ad aver riempito di #paracarro la chat col mio amico. Prendete gli errori contro la Croazia, che lo scorso Mondiale sono costati al Belgio la qualificazione agli ottavi di finale. Quello che salta subito all’occhio, in queste giocate scoordinate, appena accennate o subito abortite, è che Lukaku vorrebbe fare qualcosa, ma il corpo non lo segue. Proprio come accade ai giocatori NBA di Space Jam.

Una fiera campionaria dell’errore sotto porta

Nell’occasione sfumata all’87esimo, il movimento della sua gamba sinistra ha una pesantezza e un ritardo di coordinazione che solo in parte si possono spiegare con la visuale coperta dai difensori. In quella capitata al 90esimo, invece, pare addirittura dimenticarsi cosa doveva fare, perché manca proprio tutto il movimento successivo (di testa? di piede?) al controllo di petto. Un fenomeno apparentemente inspiegabile. E infatti è lui il primo a non capacitarsene. Come se il suo corpo fosse invecchiato di colpo un istante prima di impattare il pallone, proiettandolo in un amaro futuro da partita tra vecchie glorie appesantite. Nel replay ha l’aria sgomenta di chi pensa: “Cos’è successo? Questo una volta mi veniva”, mentre si piega sulle ginocchia, lo sguardo perso nel vuoto e una gocciolina di sudore che si stacca mollemente dalla punta del naso.

Una prima spiegazione di questo effetto Space Jam l’ha suggerita Daniele Adani: «Lukaku non nasce campione, non ha la naturalezza dell’attaccante talentuoso, come può essere Dzeko, nei movimenti e nelle giocate. Il suo calcio non può prescindere dalla forma fisica e dal lavoro settimanale. Quando Lukaku sta bene, cresce anche in autostima e quindi nella tecnica, persino nel dribbling. Ma quando sta male, diventa un giocatore normale, che fatica». Quest’anno gli infortuni lo hanno condizionato pesantemente, prima la caviglia poi il tendine del flessore, non permettendogli di raggiungere lo stato di forma ideale per esprimere il suo calcio, che si esalta soprattutto nei duelli fisici in campo aperto, come spiegava a suo tempo Antonio Conte. Ma anche nei momenti apparentemente più brillanti, per esempio la tripletta di qualche settimana fa contro la Svezia, è impossibile non notare un certo impaccio nel secondo gol, uno scarto tra il modo/momento in cui pensa di fare una cosa e quello in cui la realizza.

Se guardate con attenzione, ma neanche troppa, la palla gli sbatte sul piede sinistro ed entra in porta prima che lui faccia il movimento per segnare col piede destro

È in questi momenti che i detrattori di Lukaku si sbizzarriscono, tirando fuori le immagini più creative: dal paracarro del mio amico al panterone moscione di Di Canio, ripreso recentemente da Caressa. Durante l’ultimo Sampdoria-Inter, in un bar di Milano, ho sentito un vecchietto dire: «Chel lì l’è un marnùn de sàbia mòrta (quello lì è un carretto di sabbia inerte)». Rende l’idea. C’è però un’altra prospettiva che può aiutare a capire l’effetto Space Jam che sembra colpire Lukaku quest’anno: in realtà non è la prima volta che gli succede una cosa del genere. Anzi, possiamo dire che, al di là dell’esperienza all’Everton e della prima stagione con la maglia dell’Inter, Lukaku ha quasi sempre disatteso le aspettative. Soprattutto quando il livello si è alzato. È andata così al Manchester United, è andata così nella disastrosa doppia esperienza al Chelsea. Tornando all’immagine del panterone moscione, Caressa metteva in luce questo aspetto, difficile da smentire numeri alla mano: «Secondo me Conte ha tirato fuori il meglio possibile da Lukaku. Di Canio l’ha sempre chiamato “panterone moscione” perché l’aveva visto in Inghilterra per tanto tempo e vedeva che nei momenti decisivi non c’è mai stato. Questo, probabilmente, è un limite di Lukaku. Limite che con l’Inter aveva superato perché gli era stata data talmente tanta fiducia dall’allenatore…».

Dei 204 gol in carriera da professionista, a cui si aggiungono i 72 con la maglia del Belgio (primatista di sempre), in effetti pochi si sono rivelati decisivi. Quest’anno è arrivato solo quello agli ottavi di finale di Champions League contro il Porto. A colpire, più che il gol in sé, è il modo in cui si presenta ai microfoni di Sky a fine partita, esordendo con un «Mamma mia, minchia il petto. Guarda come sono in forma». Sta scherzando, è ovvio, lo si capisce da come guarda l’intervistatore e poi si mette la mano sul volto ridendo. Però questo modo civettuolo di gonfiare i muscoli davanti alla telecamera ci dice una cosa, oltre al solito richiamo al corpo quale condizione necessaria al suo rendimento. Ci dice che il duo Di Canio/Caressa potrebbe, almeno in parte, non essere così lontano dal vero: forse Lukaku è un giocatore che ha bisogno di sentirsi al centro dell’attenzione per dare il meglio di sé, di essere coccolato. All’Everton lo era, e pure con Conte, che lo inseguiva fin dai tempi in cui giocava al West Bromwich.

Simone Inzaghi questa fiducia incondizionata non è ancora riuscito a dargliela. Non solo per via degli infortuni, che hanno tolto brillantezza alla corsa di Lukaku, ma anche per ragioni tattiche. Il sistema iper-codificato di Conte, spesso frainteso per contropiedismo, cercava di attrarre il pressing avversario verso la propria aerea di rigore, per liberare praterie euroasiatiche dietro la linea difensiva. In queste distese di erba pianeggiante e verdissima, le combinazioni in velocità tra Lukaku e Lautaro avevano il coefficiente distruttivo di una scorribanda unna. Oggi invece, giocando spalle alla porta, Lukaku risulta un attaccante statico, pre-moderno, tristemente abbandonato in mezzo all’area come un vecchio macchinario bellico atto a fare sponde. La sua tecnica però non è sempre all’altezza di questo compito sporco, il suo modo di prendere contatto con il diretto marcatore è quasi anacronistico per un attaccante di oggi. E allora quel che resta del giocatore che era lo si vede solo sui calci di rigore, nei quali è ancora quasi infallibile.

Ma è proprio qui che potrebbe stare la svolta, la borraccia che Michael Jordan dà ai Looney Tunes facendogli credere che sia magica. Perché in qualche modo, dopo il rigore decisivo di mercoledì sera in Coppa Italia contro la Juventus e le polemiche per la sua esultanza sotto la curva bianconera, culminata poi con l’espulsione, Lukaku si ritrova di nuovo coi riflettori puntati addosso. Starà a lui cercare di sfruttare questa attenzione a suo vantaggio, per ritrovare l’autostima necessaria a dimostrare che forse il vero Lukaku è quello di due anni fa. O quantomeno limitare i messaggi con la parola #paracarro dentro le mie chat.