Di cosa parliamo, quando parliamo di depressione nello sport

Perché le sofferenze e le malattie psichiche, pur frequenti, sono poco raccontate nello sport professionistico, e in particolare nel calcio?

«Dopo l’allenamento, torno a casa e sono solo. Qui ho cinque amici, la mia famiglia è in Canada e la mia ragazza non vive a Monaco. Mi sento un perdente di successo. Ammetto di essere preoccupato». La confessione che Alphonso Davies ha esternato su Twitch qualche giorno fa mi ha fatto pensare alle finestre del suo appartamento di Monaco di Baviera. Le ho immaginate ampie e senza tende, come d’abitudine dal centro dell’Europa a salire. Il sole che entra solo quando il clima continentale della Baviera non lo ingrigisce. Le piogge frequenti. Brevi e improvvise tra ottobre e aprile, temporali robusti d’estate. Fuori fa generalmente freddo, spesso più che in qualunque altra zona della Germania.

Dalle sue finestre Davies vede un panorama di periferia, forse residenziale, forse verdeggiante, e oltre al paesaggio vede che qualcosa non va anche se apparentemente tutto dovrebbe andare divinamente a un ragazzo di ventidue anni che è nato, ha imparato a camminare e parlare, dentro a un campo profughi in Ghana e che ora è uno sportivo professionista ai vertici mondiali nella sua disciplina. La vita dovrebbe solamente sorridere a chi come lui è riuscito ha costruire il proprio precoce successo sovvertendo le dinamiche più classiche del flusso di talento nel mondo del calcio, sbocciando dentro agli stadi nordamericani, del Canada soprattutto, sconosciuti e snobbati da questa parte dell’Atlantico, prima di essere portato in Europa. Settore giovanile in Alberta, esordio da professionista a Vancouver, arrivo al Bayern due mesi dopo aver compiuto diciotto anni. Un anno prima di vincere, da titolare, la Champions League. Davies è un ragazzino viziato? Non sa di che parla? Gli farebbe bene vivere un paio di mesi da operaio metalmeccanico con i turni di notte e poi ne parliamo? Tra i commenti alla diretta Twitch sul suo canale alcuni avevano il classico odore dell’invidiosa superficialità dietro al refrain che vuole soldi e fama medicina d’ogni male. Ma, per fortuna e sfortuna, la realtà e la psiche sono più sfumate e indecifrabili. La luce e il buio, la serenità e l’angoscia, non conoscono lo stipendio delle menti su cui decidono di calarsi.

Davies gioca in Bundesliga da gennaio del 2019 e da allora, per tre volte, assieme a compagni, avversari e pubblico sulle tribune ha vissuto già tre volte il rituale minuto di silenzio che lì viene osservato nel weekend più vicino al 10 di novembre. È il silenzio del gedEnke minute, del ricordo per Robert Enke, il portiere tedesco che il 10 novembre del 2009 aveva capito che la sola soluzione per sfuggire alla depressione per liberarsene sarebbe stata suicidarsi contro un treno in corsa vicino a un passaggio a livello a Neustadt am Rübenberge, non troppo distante da Hannover. Non c’è alcun dubbio che l’esternazione sia di tutt’altro genere rispetto alla condizione di Enke. Le affinità tra i due casi resistono invece nella percezione del pubblico. Che siano semplici debolezze psicologiche o che vengano evidenziate patologie, ai calciatori professionisti è come se non venisse riconosciuto il diritto di soffrirne. E, peggio, resta diffusa la deriva machista che impone una sfilza di mantra motivazionali da quattro soldi come l’uomo che deve mostrare gli attributi, di essere più forte, concezioni che automaticamente condannano allo status di sconfitti tutti coloro che non ci si allineano. Un approccio che contagia soprattutto chi manifesta difficoltà e sintomi. Non è un caso che lo stesso Davies si definisca un perdente per il solo fatto di provare solitudine.

Se al calcio professionistico si può dare la colpa di essere stato per molto tempo cieco di fronte al problema, non gli si può tuttavia dare quella di esserne la causa. La causa è lo sport di alto livello. Tutto quanto. Kerry Mummery insegna alla University of Alberta, non lontano da dove Davies ha iniziato a giocare a calcio, e studia le dinamiche culturali, sociali e psicologiche implicate nello sport. «Gli atleti rispetto ai non atleti sono più predisposti alla depressione», ha scritto. «Le loro richieste funzionali, fisiche e psicologiche sono un macigno appesantito dall’ambiente in cui essi si esibiscono e dal quale in un certo senso dipendono. Stress e depressione sono connaturati con l’attività sportiva professionistica». Fattori che non sempre sono semplici da cogliere. La carriera di Enke è punteggiata ovunque di episodi in cui era evidente la sofferenza di cui parla Mummery. La crisi di panico prima di prendere l’aereo che l’avrebbe portato a Lisbona per firmare col Benfica, lo smarrimento quando in piena trattativa per il suo trasferimento al Barcellona Van Gaal gli disse «non so nemmeno chi sei», la gogna pubblica contro di lui avviata dal capitano de Boer nella clamorosa sconfitta blaugrana contro il piccolo Novelda per 3 a 2 certificata da un errore banale del portiere sul terzo gol, e altri momenti ancora. In molti altri casi invece l’apparenza ha trasmesso all’esterno l’idea di personaggi tutt’altro che in difficoltà. Ilicić per esempio.

La notizia della sua depressione aveva sorpreso. Una carriera in squadre attorno alle metà della classifica nelle classiche vesti del talento puro incapace di esprimere tutto il suo potenziale e di farlo con costanza. La vecchia, lo chiamavano nello spogliatoio, per i continui lamenti di acciacchi ovunque. C’è chi dice sia stata la furia con cui il Covid si era riversato su Bergamo, nel marzo del 2020, ad abbatterlo. Chi raccontava che oltre alla violenza di quel lutto collettivo ne era riaffiorata altra legata a un vecchio lutto familiare. Come lui anche Ronaldo e Iniesta hanno altrettanto stupito nelle loro recenti confessioni di profonde crisi sofferte negli anni passati. Hanno raccontato il vuoto apatico provato («Il momento migliore della giornata era quando prendevo le pillole e andavo a dormire. Non provavo nulla. Abbracciavo mia moglie ed era come se stessi abbracciando un cuscino») e al tempo stesso hanno dato speranza. «Alla fine degli anni Novanta questo tema è stato assolutamente ignorato», ricorda il brasiliano. «Sono felice ogni volta che sento un professionista parlare di malattie mentali», ammette lo spagnolo, «perché ho capito che possono davvero colpire chiunque». Non più l’epica gladiatoria dello sportivo che da nulla deve lasciarsi scalfire pena il declassamento a fallito, ma l’apertura verso crisi e malattie. Una lezione nuova ed esportabile anche all’ipotetico operaio metalmeccanico dei turni di notte. O magari alla sorella oppure a un amico. Parlarne sempre più aiuterà a salvare sempre più vite, dentro e fuori dallo sport. A non considerarli capricci o segni di debolezza di cui vergognarsi per l’incapacità di superarli da soli.

Eppure disinnescare una certa tendenza non è così semplice nemmeno in coloro che ne vengono colpiti. «Inizialmente la scambi come stanchezza. Poi per un un virus. Finché un giorno alzandomi dal letto le gambe tremavano. Ero andato al campo e faticavo anche a guidare. Ne parlai subito col dottore e mi disse che erano i primi segni dello sviluppo di una depressione. Ero stanco prima di fare allenamento. Quando mi tuffavo per parare mi sentivo senza energie. Il dottore mi disse che c’erano farmaci, io risposi che no, assolutamente. Dovevo risolverla io. Se trovi sempre la situazione che risolve i tuoi problemi, non sarai mai in grado di risolverli veramente. Cercherai sempre aiuti esterni, alibi, scuse». Le parole sono di Gianluigi Buffon e il rischio di una narrazione come questa da combattente hollywoodiano è che illuda anche di fronte a stati avanzati della malattia, quando non è oggettivamente possibile fare da soli. Chiunque capisce che sarebbe una tremenda idiozia affrontare un cancro armandosi solamente della propria forza di volontà per dimostrare a se stessi che non si ha bisogno di dipendere da alcuna soluzione esterna. Non è così per le malattie della mente. Come se al cervello non venisse riconosciuto lo status di organo biologico, relegandolo a una fantomatica sfera dello spirito che sarebbe in pieno controllo dell’individuo.

L’autorevole Frontiers in Psycology aveva pubblicato uno studio su individui sottoposti per lavoro allo stress da agonismo. «Inutile nascondere che nello sport esiste anche il suicidio da depressione e che nel sistema sportivo americano di base nei college sono stati riscontrati il maggior numero di casi di mental disorder». Proprio negli States aveva fatto scalpore il caso di Kevin Love, nell’autunno del 2018 ai Cavaliers, in due episodi accaduti in diretta sui parquet della Nba prima contro Atlanta e poi contro Oklahoma. «È difficile da descrivere. Credevo che il cervello stesse cercando di uscirmi dalla testa. Ricordo di aver perso il controllo quando dalla panchina ci hanno comunicato un adeguamento difensivo. Mi si è spento tutto. Il panico è arrivato da non so dove. Era come se il mio corpo mi stesse dicendo: stai per morire». Allo stesso modo la sua connazionale Allison Schmitt, rivelazione del nuoto statunitense a Londra 2012, che al ritorno dalle Olimpiadi all’improvviso era crollata. «Ero depressa ma non capivo il motivo, cercavo aiuto ma non sapevo cosa potesse rendermi felice».

Il professor Mummery, quello dell’Alberta, attribuisce i rischi dei professionisti a un preciso elenco di fattori. «L’essere parte di un’élite, il collocamento della propria identità di persona in rapporto all’identità pubblica del personaggio, l’obbligo di mantenersi ad alto livello, il sovrallenamento, gli infortuni, il terrore del fallimento, lo spettro della conclusione dell’attività». Lo chiamano il fine carriera, con una locuzione che grazie all’ineleganza grammaticale diventa più dura. Prende l’odore dei momenti in cui ti chiedi chi sei, cosa sei. Un momento che al contrario può essere il sollievo liberatorio da una gabbia di pressioni insopportabili. Sollievo e gabbia lo erano stati di Per Mertesacker. «Sono consapevole di essere un privilegiato ma a un certo punto tutto è diventato solo un enorme peso». Solo nel corso della sua ultima stagione da calciatore professionista, all’Arsenal, aveva trovato il coraggio per raccontare al Der Spiegel cosa e quanto da anni lo schiacciasse mettendo a rischio la sua stessa salute. «Nel 2006, la sera in cui a Dortmund con la Mannschaft abbiamo perso la semifinale dei Mondiali contro l’Italia, ero davvero sollevato. Non che non fossi dispiaciuto, credimi. Però il mio pensiero era: finalmente è tutto finito. Basta pressioni, basta partite». Forse Open di Agassi è stato un altro degli snodi fondamentali per l’arricchimento del dibattito e della sensibilità sul tema della sofferenza emotiva e dell’odio per lo sport che si pratica. Mertesacker, allo Spiegel, aveva espresso concetti analoghi. «Giocare non mi diverte. Si viene valutati di prestazione in prestazione senza appello. Ogni volta, poco prima di entrare in campo, sento lo stomaco attorcigliarsi come se dovessi vomitare. Una sensazione violentissima. Soffocarla mi porta spesso a lacrimare. Non ce la faccio veramente più. In questo mio ultimo anno preferisco stare in panchina, ancor meglio in tribuna, aspettando che arrivi l’ultimo giorno. Poi finalmente sarò libero».

La lista è più lunga di quanto crediamo. A volte, più di quanto ricordiamo. Sono certo che molti di voi che state leggendo questo pezzo, davanti a quel nome e a quell’episodio vi sarete ricordati di averli già sentiti. Come potreste ricordarvi del tentativo di suicidio di Gianluca Pessotto a fine carriera, difeso attraverso un’omertosa ipocrisia e schernito con idiota ironia, della trasparente ingenuità con cui Ferran Torres poche settimane fa ha spiegato perché al suo arrivo al Barcellona faticasse («La gente pensa che siamo macchine e invece subiamo mentalmente il fatto che tutti abbiano un’opinione su di noi), di Graham Potter masticato e infine sputato dall’isterica gestione del Chelsea che aveva ammesso come nelle sue prime settimane ai Blues temesse rischi per la propria salute mentale, di Aaron Lennon che ai tempi dell’Everton era stato fermato dalla polizia mentre guidava in stato confusionale a causa di disturbi psichiatrici da stress, di André Gomes che dalle prime folgorazioni tra Benfica e Valencia si è arenato su una carriera più normale dopo un fase delicata vissuta, anche lui, al Barcellona. «Dopo i primi mesi positivi tutto si è trasformato un po’ in un inferno», aveva raccontato su Panenka. «In allenamento è tutto ok ma le sensazioni in partita non sono buone. Non parlo con nessuno perché non voglio arrecare fastidio. Mi vergogno a tal punto che a volte non voglio uscire di casa e non voler uscire di casa non è per niente una buona cosa».

Tra le tendenze su Tik Tok c’è n’è anche una che mette digitalmente in piazza la malattia mentale, con migliaia di contenuti catalizzati attorno ad hashtag come #psychward. Nello sport, e nel calcio soprattutto, sembra il contrario. L’ideale dell’uomo forte fa sì che quegli stati vengano più o meno direttamente, più o meno consapevolmente, ignorati, allontanati, forse stigmatizzati. Gli viene associata l’etichetta di bizzarre fragilità. Culturalmente siamo portati a giudicare quel genere di sintomi come stranezze e quelle patologie come mancanze, se non colpe. Bastava essere più forti, più lucidi, più aperti a farsi aiutare. Bastava aprire gli occhi e apprezzare tutto quello che hai. Bastava essere più felici. In realtà le cose che davvero basta fare sono in fondo solo due: la prima è riconoscere che le malattie mentali sono realmente malattie, da curare con medici e con farmaci; la seconda è parlarne invece che non farlo, parlarne invece che rischiare di dimenticarsene, parlarne per essere più preparati. Fino allo scorso anno Tom Dumoulin era un ciclista professionista. Ora non lo è più. Ha vinto un Giro d’Italia e due argenti olimpici, prima di smettere a 32 anni. «Ritirandomi mi sono liberato di uno zaino pesante cento chili», ha detto. Poi ha aggiunto che ancora non sa di cosa si occuperà ma che qualcosa farà. «Soprattutto vivrò».