Se avete un amico che dopo ogni gara di ciclismo vi dice oh, non sai cosa ti sei perso, beh: credetegli. Non esiste, oggi, uno sport individuale come il ciclismo su strada maschile. Non lo è la Formula 1, fagocitata dalla tirannia di Max Verstappen e della Red Bull dopo gli anni dell’impero Hamilton-Mercedes, né la MotoGP, alla disperata ricerca di un personaggio e che in Francesco Bagnaia ha trovato la sua negazione, né il tennis, che comunque promette anni di rivalità epica tra Jannik Sinner e Carlos Alcaraz. Nossignori. L’unico termine di paragone possibile per quello che sta accadendo nel ciclismo è l’epopea dei Big Three Roger Federer-Rafael Nadal-Novak Djokovic: quattro (è andata ancora meglio) corridori generazionali – Tadej Pogacar, Wout van Aert, Mathieu van der Poel, Remco Evenepoel – che condividono allo stesso tempo la sfortuna e la fortuna di essere nati nello stesso periodo storico, di affrontarsi ogni settimana, di perdere e vincere, di migliorarsi a vicenda e meravigliare gli spettatori. Una volta Federer ha detto: «Se Nadal non fosse esistito, forse non avrei vinto così tanto».
Domenica scorsa lo sloveno Tadej Pogacar, a 24 anni, è diventato il terzo corridore nella storia del ciclismo a imporsi al Giro delle Fiandre dopo aver conquistato il Tour de France. Gli altri due sono Louison Bobet e Eddy Merckx. Pogacar era al secondo Fiandre della carriera, l’anno scorso era arrivato quarto, e quando durante l’ultimo passaggio sull’Oude Kwaremont ha raggiunto e saltato a velocità doppia Mads Pedersen, a Riccardo Magrini, il commentatore tecnico di Eurosport, è scappata quella parola lì: cannibale. Finora in questa stagione Pogacar ha partecipato a sedici gare e otto volte è arrivato primo, una su due. La prossima volta che sarà alla partenza tirate una monetina: testa vince uno a caso tra tutti quelli al via, croce vince lui. Solo tre ciclisti nella storia sono riusciti a vincere tutte e cinque le classiche monumento del ciclismo. Secondo Eddy Merckx, anche Pogacar ce la farà.
Wout van Aert e Mathieu van der Poel non si fermano mai. In primavera e d’estate corrono su strada, in autunno e d’inverno si danno battaglia nel ciclocross, disciplina in cui si sono spartiti otto degli ultimi nove Mondiali. Lo scorso 5 febbraio a Hoogerheide, nei Paesi Bassi, erano in 40mila ad assistere al quinto successo di Van der Poel, naturalmente in volata su Van Aert. Si dice che nessun atleta sia più grande dello sport che pratica, e tendenzialmente è vero, ma l’improvvisa popolarità del ciclocross negli ultimi anni è una solida argomentazione contraria. Quella tra Van der Poel e Van Aert è la rivalità nella rivalità, un dualismo perfetto: uno olandese e uno belga, quasi coetanei (Van der Poel è del gennaio 1995, Van Aert del settembre 1994), uno figlio e nipote di due grandi ciclisti del passato e l’altro che quando aveva otto anni gareggiava con una mountain bike che gli avevano regalato i suoi genitori alla prima comunione mentre osservava con invidia la bicicletta con le ruote in carbonio dell’avversario più giovane.
«Ha preferito vedermi perdere piuttosto che avere la possibilità di vincere», ha detto una volta Van Aert: comprensibile per chi si conosce, si stima e amichevolmente si odia fin da bambino. Al Giro delle Fiandre di tre anni fa, nel 2020, una delle corse che rimarrà per sempre nella memoria degli appassionati, sono arrivati al traguardo staccati di pochi centimetri dopo una fuga di oltre 35 chilometri. Se nel ciclismo esistesse il pareggio, quel giorno sarebbe stata una decisione corretta. Van der Poel e Van Aert sono stati i primi tra i nuovi Big Four a riportare il ciclismo alla sua dimensione ancestrale fatta di più attacchi da lontano e sempre meno attendismo, e in più ci hanno aggiunto una polivalenza straordinaria: se Mathieu van der Poel nel suo palmarès conta già tre classiche monumento, cosa si può dire a Wout van Aert, che a 28 anni ha vinto solo la Milano-Sanremo del 2020, ma che è stato provvidenziale per il trionfo del suo compagno di squadra Jonas Vingegaard all’ultimo Tour de France, che batte i velocisti in volata, gli scalatori in montagna e gli specialisti a cronometro?
Sembra assurdo, ma dopo oltre quattromila battute manca ancora quello che è considerato il vero predestinato del ciclismo contemporaneo: Remco Evenepoel. È anche lui belga ed è nato nel 2000. Fino a 16 anni giocava a calcio nell’Anderlecht e nelle Nazionali giovanili del Belgio. In una celebre foto che si recupera facilmente su internet lo vediamo andare a contrasto con un giovane Raoul Bellanova, e già si nota tutta la differenza di attitudine tra i due: del resto è difficile che un predestinato nasca a Rho. Nel 2017 Evenepoel sceglie la bicicletta. Un anno dopo, ai Mondiali juniores di Innsbruck, vince la medaglia d’oro con un minuto e mezzo di vantaggio su tutti i rivali nonostante una caduta a 70 chilometri dall’arrivo. Se non si è già preso tutto quello che gli spetta è solo perché nel 2020, durante il Giro di Lombardia, un volo da un ponte da cui è uscito vivo per miracolo ha solo rallentato la sua carriera, ma l’anno scorso si è imposto alla Liegi-Bastogne-Liegi, alla Vuelta a España e soprattutto al Mondiale dei grandi, diventando – a neanche 23 anni – il settimo più giovane della storia a indossare la maglietta arcobaleno. Anche qui, uno dei sei che lo anticipano in classifica si chiama Eddy Merckx. Nei prossimi due mesi lo vedremo sfidare Pogacar alla Liegi-Bastogne-Liegi e andare all’assalto della maglia rosa al Giro d’Italia.
È difficile dire chi sia più forte tra Tadej Pogacar, Wout van Aert, Mathieu van der Poel e Remco Evenepoel, ed è un esercizio ancora più stupido provare a scegliere un preferito tra questi quattro. Senza vincoli legati al patriottismo, il consiglio è quello di uscire dalle bieche logiche del tifo che già inquinano le domeniche calcistiche per un’operazione che eleva lo spirito: bisogna semplicemente godere dello spettacolo che il ciclismo, questo ciclismo, offre a ogni gara. Come ha scritto Giovanni Battistuzzi sul Foglio dopo il Giro delle Fiandre di domenica scorsa, «a questi corridori bisognerebbe voler bene in modo incondizionato. Tutti. E chissenefrega del tifo, delle preferenze personali, della nazionalità. Non conta nulla. Conta solo quello che fanno in corsa».
Questa domenica, il giorno di Pasqua, è in programma la Parigi-Roubaix, la terza classica monumento della stagione. Tra i favoriti c’è l’italiano Filippo Ganna, detentore del record dell’ora, due volte campione del mondo a cronometro, medaglia d’oro olimpica e mondiale nel ciclismo su pista, più giorni in maglia rosa al Giro d’Italia. Lui e tanti altri ciclisti che a breve citerò sono gli Andy Murray, i Juan Martín del Potro di questa storia: grandi campioni che a fine carriera avranno vinto meno di quanto avrebbero potuto solo perché sono nati nell’era dei Big Four. L’albo d’oro recente delle classiche monumento somiglia sempre di più all’albo d’oro degli Slam degli ultimi vent’anni: sette delle ultime nove vittorie sono andate a Pogacar, Van der Poel ed Evenepoel.
Allo sloveno Matej Mohorič (vincitore della Milano-Sanremo 2022), al britannico Thomas Pidcock (vincitore della Strade Bianche 2023), all’eritreo Biniam Girmay (il primo africano a vincere una classica del nord, la Gand-Wevelgem 2022), al danese Jonas Vingegaard (vincitore del Tour de France 2022 battendo Pogacar: potenzialmente il quinto big, anche se non sembra corridore da classiche), all’altro danese Mads Pedersen (campione del mondo nel 2019), al francese Julian Alaphilippe (campione del mondo nel 2020 e nel 2021), all’altro sloveno Primož Roglic (tre Vuelte e la Liegi-Bastogne-Liegi del 2020) e allo slovacco Peter Sagan (forse la parabola più indicativa di tutte: si ritirerà alla fine di questa stagione, a 33 anni, dopo aver vinto il Giro delle Fiandre 2016, la Parigi-Roubaix 2018 e tre Mondiali di fila tra il 2015 e il 2017, per dedicarsi alla mountain bike, come a dire: la strada non è più roba per me) rischiano di rimanere poco più che le briciole, oltre all’orgoglio di provare a giocarsela alla pari con chi alla pari non è.
A tutto questo il ciclismo è arrivato con una ricetta semplice. Non ha avuto bisogno di mettere mano al suo regolamento, non ha investito in un’operazione simpatia su Netflix per attirare le nuove generazioni (è stato girato, sì, un simil Drive to Survive sullo scorso Tour de France che vedrà la luce quest’anno, ma la sensazione è che ormai i prodotti così saranno sempre più simili a Break Point: non abbastanza per attirare nuovi appassionati, niente di nuovo per chi segue abitualmente), non si è piegato alla logica dei giovani che non guardano più un evento intero ma vogliono solo gli highlights. La Milano-Sanremo si corre sempre su quasi 300 chilometri e il percorso dell’ultimo Giro delle Fiandre, con i suoi 273,4 chilometri, è stato il più lungo degli ultimi 25 anni. Bastano tre cose: le gambe, la testa e il cuore di chi questo sport lo anima.