Per prima cosa dobbiamo intenderci, capirci: ma è impossibile, perché qualcuno intende una cosa e qualcuno un’altra e alla fine abbiamo tutti ragione. L’epica della Formula 1, da quando esiste il campionato ricominciato per la settantatreesima volta dal Bahrain, ha attraversato con i suoi eroi tanti atti, libri, momenti quante sono state le generazioni di appassionati del motorsport. E anche lì: non è solo così, perché ciascun eroe si è sublimato con la sua storia individuale nei nostri vissuti personali. Lo ha fatto con i suoi trionfi nelle nostre gioie, con le sue tragedie nella nostra disperazione, e in definitiva, come da qualche migliaio di anni accade con l’epica, attraverso vicende sportive semidivine ha modellato quelle nostre, ben più umane. Considerato infine che il campionato di Formula 1 è l’evento sportivo più seguito dall’umanità insieme a Mondiali di calcio e Olimpiadi, tirare delle conclusioni univoche, solide, delle certezze, è come girare un remake di Rashomon con qualche miliardo di punti di vista. Complicato, complicatissimo. Però.
La persistenza dell’incidente: dalle VHS a YouTube
Su un sito di annunci online trovo una madeleine: una cassetta VHS del 1990, “Carambole e brividi in Formula 1”. Ce l’avevo, da bambino l’avrò rivista meno di cento, ma sicuro più di cinquanta volte. Era un prodotto ufficiale, con tanto di logo FIA. Apro un’altra tab: cerco il canale YouTube ufficiale della Formula 1, applico due filtri per cercare i video con più view perché sono in cerca di conferme, che puntualmente trovo: i primi dieci video più visti sono tutti di incidenti, dei best of di «pit lane drama», oppure «dramatic moments» o ancora oltre «most dramatic moments». L’epica, l’eroismo, sono anche questo: lo scontro, l’imprevisto, forse più ancora che la battaglia in senso stretto, il duello cavalleresco o meno. Ne parlo con Giorgio Terruzzi, classe 1958, uno che da più di quarant’anni gira il mondo seguendo la Formula 1, conoscendo chiunque, scrivendone ovunque. «L’incidente resta un elemento da grandi ascolti», racconta, «da milioni di view, ma per fortuna negli ultimi trent’anni c’è stato un cambiamento epocale in termini di sicurezza delle auto. Ciononostante, il mito motoristico è fondato sulla velocità, sul rumore, sul sangue, non ci sono cazzi. È un discorso molto delicato, ma il mito di questo sport, della F1, è cresciuto con gli incidenti, le morti, le tragedie e compagnia cantante. Ovviamente meglio oggi rispetto agli anni ’70 o ’80, neanche da dirlo. Il fatto che oggi farsi male correndo sia molto più difficile, è una conquista».
Le macchine sono più sicure, ma per gli appassionati è difficile non ricordare cosa accadde con l’introduzione di Halo – la struttura in titanio che protegge la testa dei piloti e la cui forma ricorda un’infradito – nel 2018. «L’Halo distrugge il DNA delle monoposto di F1. La Fia ha già fatto tutto il possibile per rendere la F1 sicura, il rischio per i piloti ormai è minimo. Non se ne sentiva il bisogno», commentò Niki Lauda, commento da segnarsi come promemoria che anche le leggende, anche i miti, anche i campioni più immensi, non è che ci prendano proprio sempre.
Stacco: Gran Premio del Bahrein del 2020, Romain Grosjean su una Haas spezza la macchina in due, si incastra sotto un guardrail e diventa una palla di fuoco nel deserto: non muore carbonizzato grazie al sistema Halo. Sull’incredibilmente ricco sito ufficiale del merchandising della Formula 1 – un bazaar di memorabilia con prezzi da emiro – ci sono in vendita repliche di Halo. In caso siate appassionati di strutture in titanio e carbonio e tifosi Mercedes, la replica dell’Halo di Lewis Hamilton del 2020 – «Made from carbon fibre, just like the real things, you can now own a replica F1® halo from your favourite F1® Team – perfect for bringing F1® action home» – costa 2070,95 euro.
La concorrenza degli eroi
Giorgio, ma quindi ci sono ancora gli eroi in Formula Uno? «Sì, perché è un mestiere da fenomeni. Quello che fanno questi qui è cosa da pochi. Certo, lo fanno con strumenti diversi rispetto al passato, ma io non sono uno di quelli che pensano che per i piloti di oggi sia tutto facile. Penso che sia un po’ più standardizzato il processo di accesso». Rispetto alla gavetta di km e km e che doveva fare un pilota degli anni ’70, ’80 e ’90 e ‘00 per arrivare a correre nella massima espressione esistente del motorsport, ai soldi di famiglia per trovare un sedile o alla fatica sovrumana che c’era da fare, sempre e comunque, ricchi e poveri che si fosse e che sempre ci sarà, oggi «con i simulatori i piloti possono fare un’infinità di chilometri utili: una volta, poche storie, dovevi girare in pista». I piloti però, da Schumacher a Max Verstappen «restano un’élite, e in quanto élite sopra oggetti così raffinati, così unici – perché non c’è niente di paragonabile nel mondo motoristico – in qualche modo sono ancora una figura eroica. Certo, non sono più soli. Una volta erano soli, adesso hanno un sacco di concorrenti».
Flashback: pare incredibile, ma da quando, sponsorizzato da una bibita energetica dal simbolo taurino Felix Baumgartner si è lanciato dalla stratosfera sul pianeta Terra, sono già passati dieci anni. Certo, negli anni di quel salto, contemporaneamente, la Red Bull in F1 vinceva con Sebastian Vettel quattro Mondiali di fila tra il 2010 e il 2013. Lecito chiedersi: cosa è rimasto di più nella memoria collettiva? Quattro anni di dominio globale nel motorsport, o un salto dalla stratosfera durato qualche minuto? Eccola lì la concorrenza eroica, che già nel 2012 – nel 2012! – incollava 8 milioni di persone in diretta streaming su YouTube. Riprende Terruzzi: «La pratica degli sport estremi e la loro divulgazione oggi è molto più ampia. Una volta chi c’era? C’erano i motociclisti, i piloti e gli alpinisti. Adesso ci sono le tute alari, c’è la gente che si butta giù senza niente… ci sono molte più spettacolarizzazioni del gesto eroico. Certamente, non così supportate da un campionato mondiale, dai venti così complessi dal punto di vista finanziario della F1, della copertura mediatica». Una copertura che è pervasiva, ovunque, dai social media alla serie prodotta dalla F1 con Netflix Drive to Survive (già firmato l’accordo per la sesta stagione), una copertura di contenuto costruito su misura per dare una nuova epica della F1, a misura di nuovi pubblici e generazioni.
Tu chiamale, se vuoi, relazioni
Fuoriclasse ieri e oggi, eroi ieri e oggi, in maniera diversa. Con molte più certezze di tornare a casa la domenica sera – Terruzzi ricorda un aneddoto di Sir Jackie Stewart a riguardo: «Una sera, con la moglie, molti anni fa, aveva fatto un conteggio dei suoi colleghi morti: quando è arrivato a cinquantotto, si è fermato» – ma qualcosa è cambiato. Da Mansell a Sainz Jr, da Prost a Leclerc, da Senna a Hamilton. Confronti difficili, impossibili. «La questione va divisa in due», riprende Terruzzi, «ma innanzitutto quelli di oggi, paradossalmente, sono più lontani. Dico paradossalmente perché il web, i social media, e tutte queste comunicazioni che fanno, in realtà tolgono di mezzo il dialogo, la vicinanza autentica, e questo – parlo anche di chi fa il nostro mestiere – rende più difficile trovare un’intimità e raccontare una storia umana. Sono più protetti da apparati di sorveglianza, che poi diventano apparati di comunicazione, manager, uffici stampa, e comunicano senza dialogare. Io posso mandare mille tweet, ma comunico, non dialogo».
Il secondo tema è che «ciascuno è legato al proprio passato per affezione: perché in quegli anni lì eri più giovane, ed eri vicino a una generazione di piloti che ti accompagnava. È ovvio che uno che ha la mia età si senta più affezionato a Senna, Alesi o Berger, o Jim Clark, perché sono figure che hanno accompagnato un tempo più fresco. Io non sono uno che dice “ai miei tempi era meglio”, ma mi piacciono di più le cose che hanno formato la mia cultura, ma non solo nello sport. È un fatto di anagrafe, ognuno di noi è legato al tempo più spensierato, adrenalinico, della propria adolescenza, della post adolescenza e del primo tempo adulto, quando tutto era una sorpresa». Quando tutto era nuovo.
«Io ho cominciato a correre, volevo dire, a seguire le corse, col mito di Jim Clark, o di Niki Lauda. Lauda era più vecchio di me, ed è diventato poi un compagno di vita e di avventure quando ha smesso di correre. Insomma, prima sei più giovane e li guardi come la Madonna di Lourdes, poi sono tuoi coetanei, con cui puoi scambiare qualcosa che va oltre le corse, perché sei cresciuto in un mondo simile, e poi diventano come figli o nipoti, che hanno modalità di stare al mondo che inevitabilmente sono diverse dalla tua. Che non giudichi, ma qualcosa ti piace meno, perché la riconosci meno».
Fan mail, social mail
Nel 1993, trent’anni fa, ho avuto uno dei giorni più felici della mia vita da bambino; allo stesso tempo la Ferrari faceva una delle stagioni più deprimenti di sempre in F1. La F93A – rossa come sempre, ma con quella fascia bianca… – è un disastro, i due piloti dell’epoca, Berger e Alesi, disperati. Ho probabilmente dieci anni, e scrivo – scrivo una lettera, cartacea, col francobollo – a Jean Alesi. Passano mesi, e mi risponde. Mi manda delle foto, con l’autografo, di lui sulla F93A. Oggi, chissà, ci sarà da qualche parte un altro me di dieci anni, che gioisce per un un cuoricino in direct su una Instagram Story dove menziona Alexander Albon – Albon, uno dei pochi simpatici, e autentici sui social media, insieme a George Russell – ma non è proprio la stessa cosa.
Certo, c’è ancora la possibilità di scrivere ai piloti – scrivere ai piloti, un atto novecentesco – ma non capita spesso di vedere code dai tabaccai per prendere i francobolli. Giorgio, tu che dici? «Alesi è uno che ha restituito da matti in termini di affetto, di entusiasmo, di passione: sbagliando anche, ma era molto più caldo di tanti ragazzi di adesso. Tanto è vero che anche adesso se vai in un bar a Milano con Alesi, che ha vinto un gran premio, lo riconoscono tutti. Se vai con Vettel, quattro mondiali, per me non lo riconosce nessuno».