Meravigliosamente Marianella

Intervista a uno dei telecronisti più amati in Italia, voce storica della Premier e della Champions League.

«Quando mi chiedono come sto, la mia risposta è sempre la stessa: meravigliosamente bene». Massimo Marianella si apre in un sorriso. «E sai perché? Perché è vero. Faccio un lavoro stupendo. Mi reputo molto fortunato». Chi di noi non ha ascoltato una delle sue telecronache: impeccabili, coinvolgenti, emozionanti. Scopro in fretta che quell’emozione non è costruita a tavolino né filtrata. È semplicemente genuina. «In ogni stadio dove vado, mi ricordo la mia passione da bambino», dice Marianella. «Per me è un motivo di grande orgoglio. Non solo sono lì, in quegli stadi che ai miei occhi da bambino rappresentavano dei sogni, ma sono io quello che racconta le partite. Ce ne sono alcune, certamente, che mi rendono più orgoglioso di altre: le quindici finali di Champions e le finali di Fa Cup. In tutto, ho commentato 78 partite in cui è stato assegnato un trofeo. Sono cose che ho sognato, oggi le vivo. Ci ho lavorato tutta la mia vita. Il giorno in cui non proverò l’emozione di commentare una partita, anche da tubo, sarà un segnale».

Tutto è cominciato molto tempo fa. A Roma, dove è nato e cresciuto, a inizio anni Ottanta Marianella prese a lavorare per una società che deteneva i diritti del calcio inglese: «Uscivo dal liceo, attraversavo tutta la città e arrivavo in sede, dove lavoravo dal primo pomeriggio alle dieci di sera. Tornavo a casa, mangiavo, facevo i compiti, e il giorno dopo ricominciavo». Un giorno, a quella società, bussa un altro giovane interessato a entrare nel mondo del giornalismo sportivo: Sandro Piccinini. «Diventammo molto amici: Sandro è per me il fratello che non ho mai avuto. Lo reputo il mio grande maestro, è lui che devo ringraziare per aver scelto questa professione e perché, ascoltando i suoi consigli, ho avuto la possibilità di migliorarmi sempre». Oggi Marianella è la voce del calcio internazionale, e soprattutto inglese, su Sky Sport («un’azienda straordinaria», dice), ma nella sua lunga carriera ha raccontato anche la Serie A e i principali tornei di tennis. «Mi emoziono sempre per le partite, mi piacciono tutte. Dopo le telecronache, non ricordo mai di essere andato a dormire prima delle tre, per la tanta adrenalina».

Ⓤ: Quante partite hai commentato?

Tremiladuecentodue (al momento in cui scriviamo, nda). E le ho risentite tutte, perché credo sia fondamentale. Fin dalla prima telecronaca mi sono risentito in un modo critico, per prendere nota di quello che stonava – che fosse la ripetizione di un termine, un’enfasi eccessiva, troppe parole, e così via. Segnavo in un taccuino tutte le cose che non funzionavano della mia telecronaca. La prima volta, ne avrò segnate dieci. Cominciavo dalla prima: una volta risolto quel problema, passavo alla seconda.

Ⓤ: La cosa su cui hai lavorato di più?

Il tono della telecronaca. Il ritmo. Sono le pause che ti danno il ritmo. Ho scoperto che dire in telecronaca una parola in meno è meglio che dire una parola in più. Per esempio, se c’è un giro palla in difesa, non ripeto sei volte il nome del difensore. Rimango in silenzio e lascio parlare il pubblico, l’enfasi che c’è di contorno. Quello è fondamentale. Se penso al periodo della pandemia, con gli stadi vuoti, lì giocoforza dovevo fare telecronache diverse. Dovevo parlare molto di più, perché se rimanevo zitto non c’era nulla in sottofondo, se non le voci di giocatori e allenatori. Perciò ho parlato di più, ho tolto qualche pausa. Mi piaceva di meno, ma era inevitabile.

Ⓤ: C’è un modo unico, o migliore, di fare una telecronaca?

Non credo. Però c’è il mio modo di fare la telecronaca. Negli anni ho scoperto che è quello di parlare un filo di meno. Di dare più importanza alle immagini.

Ⓤ: Ci sono dei modi di commentare che invece ritieni sbagliati?

Negli ultimi anni è passata l’idea che più urli, più la telecronaca è fatta bene. Non è così. Non devi terrorizzare lo spettatore sul divano. Purtroppo in epoca recente una generazione di telecronisti ha preso quest’abitudine – secondo me il male più grande. Un’altra cosa sbagliata è l’uso eccessivo di superlativi. Quante volte ho sentito “Un gol pazzesco, un gol incredibile!” per dei semplici palloni appoggiati in fondo alla rete. C’è una linea giornalistica che va sempre tenuta presente. Come telecronista devi attirare il pubblico, ma non devi raccontargli fandonie. Quando entro in telecronaca devo interessare chi c’è dall’altra parte, devo invogliarlo, ma non posso dire che ci sono Messi e Neymar, se non ci sono. Devo essere credibile.

Nato a Roma il 6 aprile 1966. È un enfant prodige: a 22 anni, su Telecapodistria, commenta già la fase finale di Euro 1988.

Ⓤ: Questo lavoro di “rilettura” delle telecronache lo fai anche su telecronache che non sono tue?

Certamente. Soprattutto perché sono appassionato di sport. Quando fai questo mestiere per tanto tempo ti rendi conto che dopo un po’ diventi un pochino più critico sugli altri, ma è un errore. Di certo una cosa che mi infastidisce, tra virgolette, è la ripetizione di certi termini. Per esempio, “sostanzialmente” è un termine che ho voluto abolire dalle mie telecronache, lo dicevo troppe volte. Ho un orecchio tarato per questo, se un telecronista dice troppe volte una parola mi squilla un campanellino.

Ⓤ: All’estero, soprattutto nei Paesi anglofoni, le telecronache sono molto diverse. 

Vero, parlano molto di meno. Io guardo un sacco di sport diversi, e quindi un sacco di telecronache diverse. Per esempio negli Stati Uniti cerco di capire la filosofia, di captare delle cose, di prendere nota dell’uso delle pause o delle notizie. È qualcosa su cui rifletto molto. Ricordo che a inizio carriera dovevo commentare una partita a Old Trafford. Avevo una quantità immane di foglietti con cui avevo tappezzato la postazione, li avevo legati ovunque, perché non c’era molto spazio. Ed ero molto concitato nella telecronaca. A fianco a me c’era il commentatore norvegese, che diceva un nome su sei. Per il mio stupore, a un certo punto, ha acceso un sigaro. L’ho sentito dalla mia cuffia! “Beckham… dopo due o tre boccate… Scholes…”. Nel frattempo io avevo dato tre notizie e citato venti nomi. Se rivedo quell’immagine, mi dico: meno male che mi sono calmato.

Ⓤ: A proposito di inizio carriera: la prima telecronaca della tua vita.

Sei aprile 1988, giorno del mio ventiduesimo compleanno. Bayer Leverkusen-Werder Brema, semifinale di Coppa Uefa dalla sede di Tele Capodistria, con Fabio Capello.

Ⓤ: Hai sempre voluto fare il telecronista?

No! Io volevo fare il giornalista, l’inviato… il corrispondente per la Gazzetta, per dire. Anni fa mi occupavo del segmento di calcio internazionale per una trasmissione di Mediaset, Record. All’epoca parlavo con due giovani producer di Canale 5 che si ricordarono di me quando venne aperta Tele Capodistria. Organizzavano provini per giovani telecronisti che avrebbero commentato il calcio internazionale. Mi chiamarono, mi chiesero se fossi interessato. Io risposi di no. Però Sandro Piccinini mi disse: prova. Così andai a Milano, in una stanza con trenta persone che si conoscevano tutte perché già facevano quel tipo di lavoro, andavano in giro per gli stadi. Io non ero veramente nessuno, pensavo già di tornare a Roma: vabbè, ho fatto questa esperienza, pazienza. Il provino era così strutturato: telecronache di sette-otto minuti di due partite, un Milan-Napoli in cui succedeva di tutto e un Pescara-Juventus in cui non capitava davvero niente. Qualche giorno dopo, mi dissero che ero nella lista dei sei finalisti: ne avrebbero presi tre. Volevano un altro provino: lo feci a TeleRoma 56 con Sandro Piccinini come mio talent. Mi presero. La partita del provino finale? Arsenal-Luton Town. Pensa…

Dopo un passaggio in Fininvest, Marianella diventa la voce principale del calcio su Telepiù, la prima pay tv italiana.

Ⓤ: Eheh: l’Arsenal, per te, non è una squdra qualunque. (Sulla sua scrivania ha un tappetino per il mouse con il logo del club e il calendario ufficiale).  Come è nata questa infatuazione per l’Arsenal e il calcio inglese in generale?

Con la televisione svizzera, che trasmetteva la finale di Fa Cup. Mi aprì un mondo nuovo, completamente diverso dal calcio italiano. Era il 1978, e c’era l’Arsenal in campo (che ovviamente perse). E ancora, in un viaggio a Londra con i miei genitori finimmo casualmente in un vagone della metropolitana pieno di tifosi dell’Arsenal. Fu subito una grande passione. Cominciai a comprare i settimanali di calcio inglese che arrivavano in via Veneto a Roma, come Match e Shoot. Non conoscevo ancora l’inglese, ma mi aiutavo con il vocabolario per tradurre. Involontariamente, cominciai il mio grande archivio.

Ⓤ: L’archivio! Qui sfociamo nel mito.

È una cosa su cui lavoro da 35 anni. Con Sandro Piccinini avevamo questo clamoroso archivio di cartelline che arricchivamo ogni volta che trovavamo una notizia. Esisteva per qualsiasi squadra: la cartellina del Wigan magari aveva un ritaglio piccolissimo, ma esisteva la cartellina del Wigan. Prendevamo le notizie dai giornali d’Europa, quelli di cui conoscevamo la lingua, inglesi, francesi, spagnoli, portoghesi… Era un grande orgoglio riuscire a dare una notizia. Oggi il problema è diverso: non tanto l’accessibilità alle notizie, ma saper discernere quelle vere da quelle false. È fondamentale saper scegliere le fonti. Per questo faccio riferimento ai siti delle squadre, ai giornali affidabili, ai programmi delle partite. Cerco di arricchire l’archivio ogni volta: se prendo un aereo, leggo un giornale, prendo un programma di una partita, vedo qualcosa che può essere utile, me l’annoto su un foglietto e poi la riporto sul mio computer. Per questo non so quantificare quanto tempo ci voglia per preparare una partita. Posso dire che ogni momento della mia vita sto preparando una partita. Per esempio, una volta mi ero preso dei programmi degli Hearts of Midlothian, pensando che non li avrei utilizzati mai. Ma avevo trovato notizie curiose, e così le ho messe nel mio archivio. Un anno e mezzo dopo, ho commentato Hearts-Fiorentina. Mi son tornate utili.

Ⓤ: Ritorniamo al passato: cosa succede dopo la tua prima telecronaca?

Il mio primo colpo di fortuna avvenne subito dopo: Tele Capodistria prende i diritti per Euro 88. Così partono due coppie: Capello-Piccinini e Bettega più un altro telecronista. Ettore Rognoni, capo della produzione di Mediaset, voleva me. Perciò venni scelto per questa prova con Bettega prima dell’Europeo: andammo in Svizzera per Svizzera-Inghilterra, una telecronaca meravigliosa, peccato che… in Italia non arrivò un minuto. Non era arrivato il segnale! Allora andammo a Salamanca, per Spagna-Svezia. Ricordo che chiesi al producer: dov’è la nostra postazione?, indicando con il dito i tre box che, pensai, erano riservati ai broadcaster delle squadre in campo. Lui mi prese il dito e me lo spostò da tutt’altra parte: c’era un tavolo di legno in gradinata in mezzo ai tifosi. Per tutta la partita non sentivo niente, ho tenuto la cuffia con due mani, urlando come un matto sperando che qualcuno dall’altra parte della cuffia mi desse il via libera per cominciare. La mattina dopo, ricevo una telefonata: ero io il prescelto per l’Europeo. Così, con Bettega, partii per la Germania, commentando tutte le partite dell’Italia.

Ⓤ: Le “disavventure” fanno parte della tua professione.

All’epoca la prima difficoltà era avere le formazioni. Io e Sandro avevamo due metodi. Il primo era meno affidabile: chiamavamo direttamente lo stadio. Poteva rispondere chiunque. “Siamo la televisione italiana, vorremmo le formazioni di, per esempio, Real Sociedad-Valencia”. A volte si mettevano a ridere e ci attaccavano il telefono in faccia. Altre volte capivano, se le procuravano e li richiamavamo cinque minuti dopo. L’altro metodo era alzare a tutta il volume dello stadio, quando lo speaker annunciava le formazioni. Più o meno capivamo gli undici in base ai giornali, alle previsioni della vigilia. Sempre in quest’ottica, c’era il viaggio annuale a Modena: studiavamo tutte le facce sugli album Panini.

Ⓤ: Non sempre la riconoscibilità dei giocatori va data per scontata.

Ogni tanto mi dicono: eh, ma anche se sbagli, chi se ne accorge. Me ne accorgo io! Ricordo un torneo nel 1989, andammo al Coliseum di Los Angeles con Fabio Capello: era un torneo amichevole tra le Nazionali di Messico, Corea del Sud, Stati Uniti e Juventus. Si chiamava Marlboro Cup. Centomila e passa spettatori come potenzialità in uno stadio in cui la nostra postazione era praticamente in cielo, con un monitor di quattro pollici. Pensa commentare coreani e messicani in questo modo, una roba assurda. Però ci sono riuscito, mi pregio di non aver sbagliato un nome. In genere, se vado a commentare una partita in uno stadio che non conosco, la prima cosa che guardo è se c’è la pista di atletica. La pista ti allontana: per esempio, all’Olimpico la postazione non è delle migliori. In Inghilterra, tra le peggiori c’è Etihad. Le migliori postazioni in Premier sono all’Emirates e a Old Trafford.

Da quando è nata Sky, nel 2003, Marianella è telecronista delle partite più importanti: Premier League, Bundesliga e soprattutto Champions League.

Ⓤ: Ancora una volta, facciamo un passo indietro. Hai commentato Euro 88. Poi cosa succede?

Arriva il mio secondo colpo di fortuna. Mediaset doveva dismettere Telepiù. Marino Bartoletti, all’epoca direttore della redazione sportiva di Mediaset, mi disse: tu sei giovane, devi fare più telecronache possibili. A Mediaset avevamo trenta telecronache l’anno, oltre a me c’erano già Bruno Longhi e Sandro Piccinini. Bartoletti mi disse: resta a Telepiù e vedi come va, al limite ritorni. Invece non sono più tornato. Nel 1992 Telepiù comprò i diritti di Scozia-Italia a Ibrox. Una partita orribile, ma la svolta della mia vita. Qualcuno si rese conto che diventai il quarto telecronista nella storia della televisione italiana dopo Carosio, Martellini a Pizzul a commentare una partita ufficiale della Nazionale per un canale italiano. Sui giornali uscirono tanti articoli in proposito. E poco dopo Telepiù comprò il posticipo della Serie A.

Ⓤ: Una tappa rivoluzionaria nella storia del nostro campionato.

Fu un grande cambiamento della televisione, che diventava parte di quella crescita del calcio italiano, anche dal punto di vista economico. Il primo posticipo fu un Lazio-Foggia nell’agosto 1993: partita orribile, 0-0. Per anni i posticipi li ho fatti sempre io. Perciò ho commentato a lungo le partite più importanti di Serie A, tutti i Milan-Juve, gli Juve-Inter, i Lazio-Roma, e così via.

Ⓤ: Trent’anni più tardi, il calcio in televisione si è aperto alle modalità più svariate. Come sarà il futuro del calcio? Ancora legato alla televisione o transiterà definitivamente su altre piattaforme?

Non ho una risposta certa. È chiaro che qualcosa sta cambiando, ma fatico a pensare che un ragazzo appassionato di calcio voglia guardare gli highlights e non la partita. La telecronaca può aiutare molto: ti dà quello che non sai, l’approfondimento. A volte dicono: eh, ma la televisione passerà. Io non ne sono così convinto. Per esempio a Sky si lavora molto sulla tecnologia, sulla modalità di servirla nel modo migliore possibile. Probabilmente le esigenze future delle televisioni saranno quelle di essere all’altezza della crescita tecnologica dell’utente. Fornire più informazioni possibili, che possono essere tramite me, che commento la partita, o un servizio interattivo. Sempre con l’idea di coinvolgere il telespettatore.

Da Undici n° 49
Foto di Mattia Parodi