Nei film horror c’è sempre un momento di ingenuità grossolana, quasi comica, da cui però scaturiscono successivamente conseguenze terribili. Un virus che viene gestito con troppa superficialità in un laboratorio segreto; il quarterback che si avventura di notte da solo sul molo per dimostrare che non c’è nulla da temere, era solo un rumore; la polizia che sottovaluta alcuni fatti strani avvenuti recentemente in città. Ripensando all’arrivo di Kim Min-jae a Napoli, nel luglio del 2022, verrebbe da dire che è successo qualcosa di simile. Come pensare che quel ragazzone un po’ timido, che al suo primo giorno a Castel Volturno non parlava nemmeno una parola d’inglese e si presentava cantando Gangnam Style con una bottiglietta Lete a mo’ di microfono, potesse rappresentare una reale minaccia non solo al ricordo agiografico di Koulibaly, ma addirittura agli equilibri dell’intera Serie A? Eppure è andata proprio così. Dopo meno di un anno, Kim Min-jae è campione d’Italia col Napoli, nessuno sente la mancanza del suo predecessore e YouTube è pieno di compilation di oltre otto minuti in cui bullizza gli attaccanti italiani. E allora la domanda sorge spontanea: come abbiamo fatto a non accorgerci di quello che stava per succedere?
Per carità, le attenuanti ci sono. Del resto quante volte esci sul molo di notte con una birra in mano e salta fuori il mostro della palude? Un’estate fa Kim Min-jae arrivava a Napoli dal Fenerbahçe per 20 milioni di euro con l’aria mite e trasognata del turista orientale. Il suo profilo Instagram, anche oggi, conferma questa nostra sensazione (stereotipo?): foto di gruppo con dita a V davanti a location anonime, scatto in monopattino o mountain bike con tanto di casco e mascherina, selfie con cane in braccio e filtro ironico post-millennial. Puoi avere paura di un difensore centrale che posta il video di un karaoke in camera con gli amici?
Inoltre, fino all’estate 2022 non è che il suo curriculum calcistico fosse esattamente da urlo. A 25 anni, un’età in cui la maggior parte dei top player ha già messo alla prova il proprio talento in uno dei massimi campionati europei, le sue uniche esperienze erano state quelle in Corea del Sud, Cina e Turchia. Ma soprattutto arrivava col compito tutt’altro che semplice di sostituire Kalidou Koulibaly, un difensore che in sei stagioni a Napoli era riuscito a costruirsi una caratura simbolica ed estetica paragonabile a quella del babà o del murales di San Gennaro a Forcella.
Però quel soprannome, «The Monster», avrebbe potuto e dovuto far suonare un campanello d’allarme. Se non altro perché associato a un fisico spaventoso, un metro e novanta per quasi novanta chili portati in giro con la quieta consapevolezza di chi sa di essere il risultato di un esperimento galvanico di inizio Ottocento. «Il soprannome è rimasto quando ho iniziato a giocare a livello professionale nella K-League», racconta Kim in un’intervista. «Credo sia arrivato perché sono forte fisicamente e sono anche abbastanza veloce. In più mi diverto tanto a lottare in campo». Ma, come dicevo, ai nostri occhi tutto questo non è bastato. Ci siamo fatti trarre in inganno. Perché il modo in cui Kim usa il suo corpo, in cui difende, è atipico. Non ha l’eleganza iper tecnica e ultra atletica di Koulibaly, o il culto per l’estetizzazione della violenza di Sergio Ramos (a cui però ha detto esplicitamente di ispirarsi). Per dire, i suoi interventi in tackle scivolato non sono quasi mai belli o acrobatici o rocamboleschi, hanno sempre una certa pesantezza, una flemma subacquea, come fosse fatto di un materiale nettamente più denso di quanto non lo siano ossa, tendini e muscoli umani. È questa mancanza di spettacolarità, soprattutto, ad averci portato fuori strada. Per noi che siamo cresciuti a pane e highlights – che nel caso dei difensori si traducono in salvataggi pirotecnici, al limite dello stunt – Kim Min-jae ha sempre tutto troppo sotto controllo per attirare la nostra attenzione.
Lo stesso vale per il restante repertorio difensivo. Tutti i suoi interventi sono diretti, ruvidi ed essenziali come il coro («Kim-Kim-Kim-Kim») che i tifosi del Napoli hanno preso a dedicargli poche settimane dopo aver scoperto che sì, il sostituto di Koulibaly era un difensore fortissimo. Non solo. Presi singolarmente, sono ammantati di un alone di inesorabilità che potrebbe essere scambiata per caso o fortuna. Kim è sempre al posto giusto nel momento giusto, al punto che non sembra nemmeno colpire la palla per respingerla, ma ritrovarsi semplicemente nelle condizioni affinché avvenga il contrario: è la palla a sbattergli addosso.
Qui Kim sembra davvero uscito da un film horror, come uno di quegli zombie che, una volta abbattuti a colpi di fucile, continuano ad avanzare minacciosi trascinandosi con le unghie sul pavimento
Però succede praticamente sempre. Come se il «carpe diem» che ha sul petto non fosse un tatuaggio, ma la messa per iscritto di una legge naturale che riguarda solo lui. E allora, a voler ragionare induttivamente e parafrasare Agatha Christie, potremmo dire che una giocata è una giocata. Due giocate sono una coincidenza. Tre giocate (o una stagione intera) sono una prova. Di cosa? Del fatto che Kim è un difensore speciale. La sua eccezionalità sta nel fatto che rappresenta l’anello di congiunzione tra il difensore moderno e quello passato. Preferisce difendere in avanti, combinando strapotere fisico e tempismo nell’anticipo. È anche per questo che non ha bisogno di fare recuperi spericolati: lui previene. Però allo stesso tempo, all’occorrenza, ha le qualità atletiche per coprire ampie porzioni di campo all’indietro, unite a una capacità di lettura molto raffinata. Non a caso il Napoli in questa stagione poteva permettersi, se voleva, di difendere a 30 o 40 metri dalla propria porta.
Dev’essere un incubo per un attaccante pensare di aver saltato l’ultimo uomo e poi trovarsi di fronte Kim-Kim-Kim-Kim
Come sottolineava Alfonso Fasano in un suo pezzo su Il Napolista, Kim «sa stare alto ma è anche attentissimo dentro l’area; sa rompere la linea per cercare l’anticipo ma sa pure aspettare l’avversario per farsi puntare e poi strappargli il pallone di forza, ma senza commettere fallo. Un centrale che è in grado di costruire gioco in maniera diversificata, che può e sa impostare sia sul breve che sul lungo». Questo grazie a una buona tecnica di base e a un fisico che combina in maniera anomala stazza, forza e velocità (soprattutto nel lungo), permettendogli di essere dominante sia a terra che in aria (in questo momento è il difensore con più duelli aerei vinti in Serie A). Insomma, il centrale perfetto per un campionato come il nostro, ma a maggior ragione per una competizione dall’elevato tasso fisico come la Premier League. E infatti si vocifera di un Manchester United pronto a pagare la sua clausola rescissoria per l’estero, che si aggira sui 50 milioni. E che, sempre secondo le indiscrezioni, dovrebbe valere solo fino a una certa data di luglio.
Ma cercare di spiegare Kim Min-jae solo attraverso il suo corpo vorrebbe dire sottovalutarlo di nuovo. Perché è vero, la fluidità delle sue caratteristiche fisiche e tecniche si sono sposate perfettamente con il sistema liquido di Spalletti, che imposta la partita in maniera diversa a seconda dell’avversario che ha di fronte. Ma poi c’è un altro aspetto, forse ancora più importante, che non viene mai sottolineato abbastanza quando si parla dei calciatori: la testa. Ce lo racconta Chang-sik, suo allenatore al Suwon Technical High School, la squadra in cui Kim ha iniziato a giocare: «Era ossessionato dall’allenamento, dal migliorarsi e dal successo, per questo venne in ufficio a parlarmi della squadra. Pretendeva molto dagli altri, ma soprattutto da se stesso. Andava a correre sulle colline vicino casa. Quando l’ho visto per la prima volta era alto e magro, con due spalle tutt’altro che larghe. In più non era un centrale veloce come oggi, sul lungo faceva fatica, così gli consigliai di lavorare su passi brevi e stretti, la cosa più importante».
Quanti difensori possono dire di aver vinto un duello in velocità con Salah?
E quindi sveglia alle 5 di mattina, allenamenti all’alba, esercizi non convenzionali: «La sfida era controllare il pallone quasi al buio, lanciarlo in area e stopparlo. Kim era sempre in prima linea, ogni volta che faceva un errore pretendeva che lo sgridassi. Il suo più grande talento è la motivazione. È sicuro di sé, ambizioso, va dritto per la sua strada. La testa fa la differenza. Mi ha sempre ricordato Sergio Ramos. Quando aveva 17 anni gli allenatori delle giovanili coreane lo snobbavano. Pensavano non fosse abbastanza bravo. Lo guardassero oggi, in Serie A».
A quanto pare non siamo stati gli unici, né i primi, a sottovalutare Kim Min-jae. Gli è successo più volte durante la carriera. Uno dei pochi a non averlo fatto è stato Luciano Spalletti. Ricordando il momento dell’arrivo del sudcoreano, con bottiglia Lete in mano e pantaloncini numero 26 del suo predecessore, dice: «Quando l’ho visto cantare Gangnam Style ai suoi compagni l’ho trovato una persona molto interessante». Inutile dire quanto il suo atteggiamento l’abbia ripagato. Fosse stato un film horror, e non il passaggio rituale di un giocatore di fronte alla sua nuova squadra, Spalletti sarebbe stato l’unico a salvarsi.