Chi allena la testa dei calciatori?

La figura del mental coach è sempre più centrale per gli sportivi d'élite. Anche perché, dopo anni di silenzio come se fosse un tabù, il benessere mentale degli atleti è diventato un argomento ricorrente. Per fortuna.

Ricordate Livio Sgarbi? Era quello che tutti prendevano in giro al Cervia di Ciccio Graziani. Lui parlava di focalizzazione, comandi all’inconscio e percorsi mentali, e intanto Moschino, Giuffrida, Alfieri e tutti gli altri ridevano, sbadigliavano, dormivano, poi in sua assenza lo sfottevano. Lo stesso Graziani lo trattava male e lo insultava nei suoi soliloqui a bordo campo; la Gialappa’s band faceva quello che doveva fare, e lo friggeva ogni volta. Livio Sgarbi è la terapia d’urto del calcio italiano con la figura del mental coach. Del resto Campioni, il sogno era un reality, era un prodotto televisivo e con il calcio c’entrava relativamente poco: i protagonisti di quel programma sono usciti dal giro, quasi tutti, ma non Livio Sgarbi, che dopo quell’esperienza troppo pop – che forse è già trash – ha lavorato con Carlo Ancelotti, Sebastian Frey, Vincenzo Iaquinta e la pallavolista Francesca Piccinini.

I mental coach sono ancora corpi estranei al calcio, figure suppletive più che parte della squadra, chiamati a risolvere problemi temporanei, come un pronto intervento, anziché seguire un percorso di sviluppo di lungo periodo con i giocatori. Il calcio, soprattutto in Italia, non riesce a separarsi dalla dimensione materiale delle sue componenti, non riesce a venire a capo di problemi che non si possono vedere, non ha mai imparato a parlare di razzismo o di omofobia, fa fatica ad ammettere che la politica è già dentro lo sport professionistico: non possiamo aspettarci che sia in grado di trattare la dimensione psicologica con la stessa attenzione con cui si monitora un menisco, un legamento e tutto ciò che si può vedere da una lastra e toccare con mano.

Negli ultimi anni la ricerca scientifica ha dimostrato i benefici del mental coaching e centinaia di atleti e squadre di alto livello – in molti sport – lavorano con figure specializzate su certe pratiche. Lo ha fatto anche il Chelsea: a inizio febbraio ha ingaggiato per una consulenza nel breve periodo il mental coach della Nazionale neozelandese di rugby, Gilbert Enoka, uno che lavora da vent’anni nello staff di una delle squadre più famose del pianeta, considerato uno dei custodi della cultura degli All Blacks. In Europa però se n’è parlato soprattutto perché professionisti come Enoka non se ne vedono molti, e quando ci sono restano più spesso sullo sfondo. È una di quelle cose che differenzia il calcio da molti altri sport. «C’è ancora l’idea che se uno si rivolge a un mental coach è perché ha un problema o è debole e quindi non è in grado di risolvere le cose da solo», dice a Undici Nicoletta Romanazzi, mental coach di Marcell Jacobs, Luigi Busà (medaglia d’oro nel Karate Kumite a Tokyo 2020) e alcuni calciatori in Serie A. «Un atleta va dal mental coach perché la mente va allenata esattamente come il corpo, ci può andare anche se ottiene già ottimi risultati e vuole migliorare le performance».

Dopo aver vinto l’oro sulla pista di Tokyo nei 100 metri, Marcell Jacobs ha ringraziato tutti come da copione, ma nei suoi saluti d’ordinanza c’era anche la sua mental coach: «È un sogno. È davvero fantastico. Forse domani realizzerò cosa è successo, ma oggi è incredibile. Ringrazio la mia famiglia, la mia mental coach Nicoletta Romanazzi e tutti coloro che mi hanno trasmesso energia positiva». L’endorsement di Jacobs riconosce un ruolo di primo piano all’aspetto mentale nello sport, riconosce soprattutto l’importanza della dottoressa Romanazzi nella quotidianità dei suoi allenamenti, che non sono solo partenze, scatti, palestra, buona alimentazione.

Dopo aver vinto una storica medaglia d’oro nei 100 metri all’Olimpiade di Tokyo, Marcell Jacobs ci ha tenuto a ringraziare la sua mental coach Nicoletta Romanazzi. In molte interviste l’atleta romano ha ricordato quanto è importante il lavoro psicologico in una specialità come la su (Ryan Pierse/Getty Images)

Negli sport individuali la dimensione psicologica viene raccontata più spesso, da più tempo, rispetto a quanto non accada per gli sport di squadra. Ma anche un calciatore, prima di essere un undicesimo di un gruppo, è un individuo. È per questo che, negli ultimi anni, alcuni giocatori di Serie A si sono rivolti a Romanazzi. È il caso di Perin, Vecino, Zappacosta, Castrovilli, Sensi. E ognuno di loro può aver bisogno di un confronto diverso con il mental coach: «Io ho un non metodo fisso, a seconda della persona che ho di fronte uso una strategia diversa», spiega Romanazzi. «Spesso è un problema di pressione esterna o di aspettative di altri. Altre volte sono aspettative proprie, quindi pressione interna. Altre volte i ragazzi hanno solo bisogno di imparare come entrare nello stato di massima concentrazione, che hanno già raggiunto più volte ma non sanno come controllarlo, come gestirlo, e possono imparare con esercizi e tecniche ormai affermate».

Lo stigma sulla salute mentale, sul mental coaching e sull’importanza della dimensione psicologica del calciatore non è retorica né una moda di quest’epoca. Colpa probabilmente anche di una fama non proprio luccicante di molti mental coach. In una conferenza stampa di fine gennaio Maurizio Sarri aveva detto: «Ritengo che l’80% dei mental coach siano fasulli». Lasciamo stare le percentuali, la parte importante è nell’altra metà della frase. «Non essendo ancora molto regolamentata, ci sono ancora molte figure professionali non preparate per affrontare questi atleti», dice Nicoletta Romanazzi. Sarri, ad esempio, suggeriva di poter assumere «al massimo uno psicologo dello sport», quindi uno psicologo con una laurea e una specializzazione ben definita, una figura che non lavora direttamente sul miglioramento della prestazione ma applica tecniche e strumenti delle scienze psicologiche al profilo dell’atleta. A fine febbraio Ferrán Torres ha raccontato di essere in terapia e di aver superato un periodo di grave crisi grazie a uno psicologo: «Quando sono arrivato al Barça mi sentivo come se fossi caduto in un pozzo senza fondo. Sono arrivato quando la squadra era nona in campionato, c’era grande pressione. Ero ossessionato dal gol, volevo fare la differenza da solo e tutto è diventato più pesante. Al Barcellona c’è sempre grande pressione, e io la sentivo tutta su di me». Ci sono passati in molti, soprattutto ai massimi livelli. Lo aveva ammesso Morata dopo la parentesi al Chelsea, ci è passato Bonucci a inizio carriera, quando si è affidato ad Alberto Ferrarini, Candreva ha lavorato con Sandro Corapi, Saponara e De Silvestri si sono fatti aiutare da Roberto Civitarese.

I progressi in questo campo – in termini di conoscenza e di consapevolezza – sono lenti, ma ci sono. Probabilmente siamo all’inizio di un processo di adattamento, stiamo vivendo l’apertura di una prima crepa su un muro, per tutto il mondo del calcio. Negli ultimi anni stanno emergendo le prime società di esperti del settore che si mettono al servizio dei giocatori. Un esempio è Nest Football (Nest è acronimo di New Elite Soccer Talent), che segue singolarmente più di 40 giocatori di Serie A, Serie B, Lega Pro, Serie D e Primavera, tra cui Mazzocchi, Colombo, Okoli, Gatti, Lovato. Il fondatore, Nicolò Ferrari, risponde al telefono all’intervista mentre è in viaggio, di ritorno da Reggio Emilia, dove ha incontrato Nadir Zortea, appena passato dall’Atalanta al Sassuolo: «Il nostro lavoro è anche nella costruzione di un rapporto di fiducia con il giocatore, perché è importante riuscire a condividere tutte le situazioni, di campo ed extra campo. Il cambio di squadra può essere un momento di grande trasformazione: con Zortea stiamo facendo un lavoro di programmazione per le sue prime sei settimane di campionato, che corrispondono al periodo più difficile dell’adattamento».

Come con Zortea, il lavoro di Nest con molti giovani del calcio professionistico è globale, cioè mentale ma anche fisico, calcistico in senso stretto, grazie al coordinamento di un piccolo entourage al servizio del giocatore. «La nostra convinzione», spiega Ferrarini, «è che in uno sport randomico e fluido come il calcio, in cui nessuno è immune a cali di performance, vada creato un metodo grazie al quale l’atleta riesce a diventare mentalmente forte, che vuol dire ad esempio capire le emozioni, conoscere la propria identità, le debolezze, i limiti caratteriali e tutti i punti di forza, oltre al lavoro strettamente calcistico».

Anche Buffon ha parlato della depressione che ha attraversato quando aveva 24 anni. Aveva perso l’energia, ha raccontato, e aveva problemi non solo in campo, ma anche nella vita di tutti i giorni, tanto da non riuscire più a guidare l’auto. Ha ricordato che una svolta nella guarigione è venuta da una visita casuale a una mostra di Marc Chagall (Photo by Phil Cole/Getty Images)

Nella seconda stagione della serie tv Ted Lasso, che pur parlando di calcio in chiave comica sa affrontare insospettabilmente bene certi argomenti, viene introdotta la psicologa dello sport Sharon Fieldstone – interpretata da Sarah Niles. Fieldstone viene portata all’AFC Richmond dal manager Lasso per aiutare l’attaccante Dani Rojas nel momento più delicato della sua stagione, o forse della sua vita. Se Livio Sgarbi al Cervia era stato una terapia d’urto per un mondo disabituato a parlare di benessere mentale, la presenza di certe tematiche in un’opera come Ted Lasso, un vero e proprio riferimento culturale su scala globale, allora forse si tratta di un segnale chiaro e convincente: stiamo vivendo la prima era in cui il calcio sta iniziando ad affrontare l’argomento con tutte le attenzioni che merita. Quello che hanno scelto di mettere sullo schermo gli autori di Ted Lasso, insomma, si affianca al racconto di quel che accade al Chelsea con l’ingaggio di Enoka, alle dichiarazioni di Ferrán Torres, Morata e di altri giocatori di livello internazionale.

Magari anche di ex calciatori: il miglior ambassador è forse uno che è stato tra i migliori attaccanti e tra i giocatori più decisivi degli ultimi quindici anni, uno accusato di non reggere la pressione e di non rendere al meglio quando più conta. Gonzalo Higuaín è stato raccontato, nell’ordine, come una vittima della concorrenza di Cristiano Ronaldo e Benzema, poi è diventato un centravanti non decisivo che ha sbagliato un gol già fatto nella finale dei Mondiali, un traditore che si è venduto alla squadra rivale sul più bello. Ora che ha concluso una carriera fatta di gol, vittorie, numeri impressionanti che parlerebbero da soli, Higuaín dice di volersi impegnare per aiutare mentalmente i calciatori più giovani. Perché l’aiuto, in un mondo vorace e cinico come quello del calcio, non è mai abbastanza: «Mi piacerebbe molto studiare e diventare mental coach. Stare bene mentalmente credo sia un aspetto molto importante in ogni lavoro. Poi ci puoi mettere talento, sacrificio, forza, ma se non stai bene con la testa difficilmente otterrai qualcosa. Nel calcio è fondamentale e se ne parla ancora troppo poco». Forse non è più così, per fortuna.

Da Undici n° 49