In quel ricordo scolpito su pietra che è il 5 maggio 2002, epitome di tutte le tragedie sportive della pazza Inter, tra i giocatori della Lazio che condannarono i nerazzurri alla perdita dello scudetto, seppur in calce, anche Simone Inzaghi appose la sua firma. Lo fece con il marchio di fabbrica di famiglia, un gol, nella fattispecie una rete segnata sul secondo palo, dopo essere sbucato da una zona d’ombra dell’Olimpico. Inzaghi esulta, anche se in maniera più decorosa rispetto agli standard dell’altro Inzaghi, Filippo, all’epoca alla sua prima stagione al Milan e già proiettato a oscurare la stella meno luminosa del fratello.
Ma a proposito di esultanze, ce n’è una del Simone Inzaghi calciatore che mi è rimasta impressa più del gol dal quale era scaturita: la gara era un Lazio-Parma del 2003 vinto 3 a 2 dagli emiliani. Inzaghi segna anche qui di testa, su calcio d’angolo, ma stavolta, anziché limitarsi a un saltello di contenuto orgoglio, corre verso la sua panchina, si toglie la maglia e, col volto deformato dal risentimento, la gira affinché il suo nome possa essere letto dai destinatari del suo rancore. Sembra dire: “Vi ricordate di me? Ci sono anche io”. Lo sta urlando al suo allenatore, Roberto Mancini, reo di farlo giocare pochissimo nonostante lui si faccia sempre trovare pronto. Ma forse lo sta anche urlando al mondo. Non c’è felicità, in quella particolare esultanza di Simone Inzaghi, ma rabbia. La rabbia di chi, sentendosi sottovalutato, riesce a strappare uno scampolo di quella luce che l’universo sembra non volergli concedere.
Ora, una vita dopo quell’esultanza così polemica, gli astri sembrano aver invertito il destino dei due fratelli, divenuti entrambi allenatori. Filippo, dopo la disastrosa stagione d’esordio sulla panchina del Milan, si è calato con umiltà in contesti più modesti, accumulando esperienze dissonanti tra serie maggiore e serie cadetta, dove quest’anno ha disputato i playoff con la Reggina. Simone, invece, è in finale di Champions alla guida dell’Inter. Forse basterebbe questo per sintetizzare la seconda carriera dei due, o per iscriverli come esempio alla casistica di quella misteriosa legge secondo la quale, al di là di rare eccezioni, i grandi giocatori si rivelano allenatori mediocri mentre i giocatori mediocri si scoprono essere grandi allenatori. Ma Simone Inzaghi può essere definito tale? Lui ritiene di aver già fatto cose importanti, come ha ribadito nella conferenza stampa post Porto-Inter. Quando, con stucchevole ingenuità, rivendicava il valore dei titoli vinti dalla sua squadra, e quindi il suo. Stucchevole perché ciò accadeva ben prima che raggiungesse la finale della più prestigiosa competizione calcistica per club, indubbiamente la sua più grande impresa finora, certamente più importante delle Coppe e Supercoppe Italiane che ha conquistato, sia a Roma che a Milano.
Certo, i trofei per essere sfoggiati vanno prima vinti, ed è umanamente comprensibile che Inzaghi, da seconda scelta quale deve essersi sempre sentito, e che come tale è stato accolto dalle tifoserie delle squadre che ha allenato, volesse valorizzare i propri successi, legittimare la bontà del suo lavoro di fronte alle costanti e aspre critiche ricevute. Ma la sua è stata un’uscita goffa, da inserire in quel filone di dichiarazioni che, tra meme e parodie varie, contribuiscono ad alimentare la narrativa di un allenatore che, per quanto preparato, presenta lacune che potrebbero precludergli – o comunque sporcargli a livello di percezione mediatica – il salto di qualità definitivo. Specie sul piano della comunicazione. La retorica utilizzata da Inzaghi per vendersi come underdog sembra venata da un complesso d’inferiorità atavico, che lo spinge a presentarsi quasi sempre sulla difensiva. Come la polemica, più improvvisata che studiata, sulla nazionalità dell’arbitro alla vigilia del match di ritorno contro il Milan. O i numerosi inviti a considerare sliding doors paradossali, «se avesse segnato X invece di Y staremmo parlando di un’altra partita», un classico sul quale l’Inzaghi-personaggio è stato appiattito dai suoi critici. Col rischio, poi, che ci si dimentichi di quanto l’Inzaghi-allenatore sia un professionista valido, che ha sempre saputo ottimizzare le risorse a propria disposizione.
All’Inter, infatti, Inzaghi ha dato ai propri principi di gioco una collocazione e un’applicazione sistemica ancora più organica rispetto a quando allenava la Lazio. Nonostante le crepe emerse in campionato, questa Inter, che non è solo l’Inter di Lautaro Martínez, Barella e Dzeko, ma è la sua Inter, ha raggiunto e giocherà la finale della Champions League a Istanbul, la prima dal 2010. Quella, ce lo ricordiamo tutti, era l’Inter che realizzò il Triplete. Era l’Inter di un Mourinho all’apice della sua parabola, considerando la totale corrispondenza tra i risultati in campo e la portata delle pressioni che egli aveva attirato su di sé. La sua naturale propensione a ergersi condottiero, a calarsi perfettamente nel ruolo di messianico parafulmine al fine di proteggere la squadra da tutta la fanfara mediatica generatasi attorno alla possibilità di fare un’impresa, nonché la sua soverchiante abilità di dettare ai media, come un diabolico ghost writer, la propria narrativa, ecco, queste sue capacità hanno settato uno standard poi rimasto ineguagliato da coloro che poi si sono seduti sulla panchina nerazzurra.
Al confronto Inzaghi, che oggi è chiamato a compiere un’impresa ancora più titanica contro quella macchina infernale che è il Manchester City, appare invece totalmente in balia del flusso esterno ora incarnato dai media, ora dai propri fantasmi. Considerato dagli haters più irriducibili inadatto all’Inter e al traguardo che l’Inter è chiamata a raggiungere, ha nella vittoria l’unica opzione possibile per operare un ribaltamento totale della narrativa attorno alla sua figura. La fierezza che si è permesso di manifestare per i risultati fin qui ottenuti, che è stata recepita e bollata come hybris, e che invece per lui era uno slancio d’amore verso sé stesso, potrebbe finalmente essere rivendicata e ribadita al mondo senza fraintendimenti o strumentalizzazioni altrui. Altrimenti resteranno sempre i meme, gli sfottò e i zorry for the boys a raccontare la parte più importante della sua storia, la fase finale di una cavalcata che ha comunque dell’incredibile.
A Istanbul, Simone Inzaghi avrà di fronte una squadra costruita non per vincere, ma per annichilire gli avversari. Avrà di fronte Kevin De Bruyne, che sembra uscito da un videogioco, ed Erling Haaland, il cyborg-killer venuto dallo spazio, che sarà pronto a divorarselo e a scoreggiarlo fuori dall’atmosfera alla prima palla gol. Avrà di fronte il miglior allenatore del mondo, Pep Guardiola, che sotto la sua patina di sorrisi e sviolinate è in realtà la persona meno empatica dell’universo, e che quella sera sarà chiamato a vincere per dare un senso alle spese folli degli sceicchi e per consacrare ai posteri la sua rivoluzione. Ma non solo. Da bordo campo, confinato nella sua area tecnica, mentre se ne starà ingobbito e con la mascella serrata, con lo sguardo che saltella da un punto all’altro del rettangolo di gioco, tra un’indicazione tattica urlata e un fischio lanciato con le dita in bocca, Simone Inzaghi si troverà di fronte anche al proprio passato. Rivedrà i fantasmi di Bielsa e di Conte, gli allenatori che ai tempi ha dovuto sostituire e dei quali non era considerato all’altezza.
Tra le tribune gli sembrerà di scorgere lo striscione “Filippo Inzaghi figlio unico” e allora penserà a suo fratello, che in quello stadio ci ha perso una finale. Pensando a Pippo, o vedendo la seconda maglia del City, penserà al Milan, che l’anno scorso ha scucito alla sua squadra lo scudetto che da allenatore lui non ha mai conquistato. Ma pensando ai rossoneri, ripenserà sicuramente anche ai derby vinti. E al più importante tra questi, quello dell’andata delle semifinali di quest’anno. Procederà allora ritroso, passando dal Benfica – quel Benfica che occhio al Benfica perché il Benfica non vede l’ora di strapparti il cuore, e che invece lui ha incartato con disarmante facilità – al Porto, e dal Porto la sua mente volerà ai gironi e a prima dei gironi, ai dubbi che c’erano sul suo conto, al suo passato, a una vita trascorsa ad abitare l’ombra dei Caino, dei Remo, dei Matt Hardy, l’ombra da cui io pensavo lui fosse sbucato quel 5 maggio 2002, quando fece calare il sipario sull’Inter, la squadra grazie alla quale ora potrebbe mettere il suo nome nella storia di questo sport.
Penserà a tutto questo, Simone Inzaghi, mentre osserverà i suoi giocatori dare battaglia a quelli del City. E allora forse gli verrà l’idea, l’intuizione che potrebbe mandare in tilt il calcio perfetto di Guardiola, e così rovinerà la festa a Pep. E se riuscisse a vincere, sarebbe poetico – o un pizzico cringe, fate voi – vederlo correre verso la tribuna dove siede la dirigenza interista, togliersi la giacca e mostrarla di spalle per ribadire al mondo che c’è anche lui, che c’è sempre stato – la bocca deformata in un grido che si libera del peso del mondo, gli occhi ridotti a due fessure oscure, e in fondo a essi qualcosa che è luce, finalmente – e che non ha più bisogno che il suo nome sia dietro una maglietta, per essere visto.