Jokic ha vinto perché rende migliori tutti quelli che giocano con lui

Come la superstar serba ha condotto i Denver Nuggets al primo titolo della loro storia.

Per capire come e quanto Nikola Jokic si sia preso la NBA, non bisogna guardare alle statistiche, ai record, al numero di triple doppie realizzate in questi playoff (10, su 20 partite disputate), al fatto che stiamo parlando del primo e unico giocatore della storia ad aver chiuso la post-season in testa alle classifiche per punti, rimbalzi e assist. E non bisogna nemmeno partire da quella foto che lo ritrae quando era solo un bambino sovrappeso che beveva troppa Coca Cola, o dalle immagini della pubblicità del burrito che scorrono sui teleschermi mentre il commissioner Adam Silver sta annunciando che i Denver Nuggets lo hanno selezionato al Draft 2014 con la scelta numero 41, la più bassa di sempre per un giocatore che avrebbe poi vinto il titolo di MVP delle Finals. Entrambe le immagini sono ormai diventate stereotipate, storture ripetitive da universo memetico. 

Bisogna, invece, guardarlo giocare. Il che potrebbe sembrare un’ovvietà. In realtà, visto che l’NBA è una lega in cui la grandezza e l’impatto di una superstar si misurano non tanto su quello che fa, piuttosto su quello che gli altri – inteso come tutti gli altri, quindi i compagni, gli avversari, gli allenatori, per certi versi persino gli arbitri – pensano che possa fare, con guardar giocare Jokic ci riferiamo al suo modo di determinare il corso degli eventi di una partita, di una serie di playoff, di un’intera stagione, per il solo fatto di essere in campo. Jokic allora è l’espressione massima dell’evoluzione del ruolo di centro, che oggi è anche playmaker, realizzatore, specialista nel prendersi un tiro sugli scarichi o nel crearselo direttamente con il palleggio. Da questo punto di vista Jokic è probabilmente il giocatore più influente e decisivo degli ultimi cinque anni, ed è divertente osservare come in ogni partita il gioco scorra verso di lui anche nei momenti in cui non ha la palla o è seduto in panchina, come se fosse il fulcro di un microcosmo a sé stante in cui è lui a decidere chi può fare cosa, e in che misura.

La rappresentazione plastica di questo concetto è stata gara-2 della finale della Western Conference contro i Los Angeles Lakers, probabilmente la partita in cui Denver ha capito di essere una squadra da titolo a tutti gli effetti. In gara-1 i Lakers, dopo aver rimontato uno svantaggio che ha toccato anche i 20 punti, erano arrivati a passo dal completare una clamorosa rimonta. E questo era avvenuto anche grazie alla mossa di Darvin Ham che, dopo l’intervallo lungo, aveva deciso di spostare Rui Hachimura in single coverage su Jokic, e lasciando ad Anthony Davis – autore di una prestazione mostruosa da 40 punti e 10 rimbalzi – la possibilità di scegliere come e quando andare a raddoppiare in aiuto. E, al netto della sconfitta in volata, i conti erano comunque tornati: nell’ultimo quarto, Jokic aveva segnato appena 3 dei suoi 34 punti, tirando 0/2 dal campo e venendo limitato anche dal punto di vista dei rimbalzi (2) e degli assist (2).  

Questa circostanza, unita al fatto che i Lakers già contro i Golden State Warriors si erano dimostrati una squadra in grado di interpretare al meglio una serie contro avversari più forti proprio grazie agli adeguamenti in corso d’opera, aveva spostato il focus dell’attenzione sul quando – e non più sul se – questa interpretazione difensiva avrebbe spostato la contesa sui binari più congeniali ai Lakers. Tanto che Mike Malone, capo-allenatore di Denver, si era affrettato a dire che «i Lakers pensano di aver risolto tutto mettendo Hachimura su Jokic, come se non lo avessimo mai visto prima». Il coach dei Nuggets si stava riferendo a quanto era accaduto nella serie contro i Minnesota Timberwolves che, a un certo punto, avevano alternato in marcatura su Jokic giocatori più mobili di Gobert e Towns prima di essere spazzati via in cinque gare.

Nella partita giocata poco meno di 48 ore dopo, Jokic viene effettivamente tenuto “sotto controllo” – per quanto questa espressione possa essere adeguata a definire una prestazione da 23 punti, 17 rimbalzi e 12 assist in 42 minuti di impiego – eppure i Nuggets vincono lo stesso. E vincono nonostante la doppia cifra di svantaggio a metà terzo quart.o. Se i titoli se li è presi, giustamente, Jamal Murray, con i suoi 37 punti, la verità è che i Lakers si sono talmente preoccupati di trovare le contromisure per Jokic da dimenticarsi dei suoi compagni, che non si limitano a brillare di luce riflessa, piuttosto incidono perché messi nelle condizioni di farlo, perché c’è Jokic che lo rende possibile indipendentemente dal numero di possessi che può gestire o dal numero di palloni che tocca.  

Nikola Jokic è nato a Sombor, cittadina serba vicino al confine con Ungheria e Croazia, il 19 febbraio 1995; gioca a Denver dal 2015, e nelle ultime cinque stagioni è sempre stato convocato per l’All-Star Game (Harry How/Getty Images)

Jokic, quindi, rende migliori quelli che giocano con lui e non necessariamente per lui. Lo sweep ai Lakers, ma anche il 4-1 agli Heat in finale, non sono altro che la naturale conseguenza di una squadra che è cresciuta intorno al proprio giocatore simbolo fino a diventarne un’emanazione diretta. I Nuggets sono l’espressione di una superiorità che non si traduce in grandi prestazioni individuali, ma in grandi prestazione collettive. E questo lo si è notato soprattutto nei momenti di difficoltà, che sono stati più di quanto una playoff run da appena quattro sconfitte in 20 partite lascerebbe supporre.  

La già menzionata gara-1 contro i Lakers, ma anche le due partite contro i Phoenix Suns quando la serie era sul 2-2, o gli ultimi minuti di gara-5 contro Miami, quando la tripla dell’82-86 di Jimmy Butler a poco meno di quattro minuti dalla fine rischiava di cambiare l’inerzia della partita più importante della storia della franchigia: in nessun caso i Nuggets hanno dato l’impressione di non sapere cosa fare, di non essere reattivi, pronti a ciò che gli veniva opposto in quel singolo momento, con Jokic sempre in prima linea, leader tecnico, emotivo e anche vocale durante i timeout. Si tratta della vera grande differenza rispetto al recente passato, il motivo per cui Denver ha vinto solo adesso dopo anni in cui la sensazione era che mancasse sempre qualcosa e non per forza a livello di parco giocatori: anche quando ha vinto l’MVP, Jokic era lo strumento con cui i Nuggets cercavano di nascondere quei limiti che, però, si palesavano in tutta la loro mortificante evidenza ogni volta in cui il numero 15 non era in campo, per infortunio o semplicemente per qualche minuto di riposo in panchina. In questa stagione, e in quelle che verranno, Jokic è il mezzo con cui i Nuggets esaltano e si esaltano nell’interpretazione della loro pallacanestro, senza dare l’impressione di essere subordinati alla loro stella. 

Non a caso, uno dei temi delle Finals 2023 è stato la maniera opposta, per non dire contro-culturale, con cui Denver ha costruito il roster del titolo rispetto al momento storico della NBA: cioè senza imbottire la squadra di tiratori perimetrali, sacrificando qualche scelta futura al Draft per arrivare ai role player giusti al momento giusto, continuando a lavorare su chi c’era già senza farsi prendere dall’ansia di azzerare e ricostruire anche quando i risultati sembravano suggerire che fosse l’unica soluzione possibile.

«Non è solo il quintetto titolare, è tutta la squadra a essere stata fantastica», ha detto Jokic nella sua prima conferenza stampa da campione NBA. «Fin dal primo giorno ho sentito che c’era qualcosa di diverso, qualcosa di speciale, qualcosa che mi ha dato la speranza che avremmo potuto fare davvero bene, e io di solito non sono un tipo ottimista. Se vuoi avere successo devi essere una squadra che buona non lo è subito ma lo diventa e poi quando lo diventa devi fallire: a quel punto capisci cosa devi fare per arrivare a vincere. L’esperienza non è quello che ti succede ma il modo in cui reagisci a quello che ti succede: e per arrivare alla vittoria ci sono delle tappe, senza scorciatoie». Si riferiva a Jamal Murray, a Michael Porter Jr., a Kentavious Caldwell-Pope e Aaron Gordon, a Jeff Green, Bruce Brown e a tutti quelli che avevano messo il proprio mattoncino per edificare la cattedrale che in Colorado stavano faticosamente costruendo da quasi mezzo secolo. Ma si stava riferendo anche a sé stesso, al viaggio che lo ha portato a prendersi la lega in meno di dieci anni. Del burrito, del Draft e delle sue foto da bambino non interessa più a nessuno.