Perché il Napoli ha scelto Rudi Garcia?

Con il tecnico francese, De Laurentiis darà più libertà – e quindi la centralità assoluta – ai talenti in rosa.

A stare al centro dell’attenzione ci si abitua presto, e infatti il Napoli sembra già non poterne fare a meno. Dopo una stagione da protagonista assoluto, i festeggiamenti in città e l’addio di Luciano Spalletti, Aurelio De Laurentiis ha deciso di sorprendere tutti, ancora una volta, con la scelta del nuovo allenatore. Non era facile stupire, questa volta: il presidente del Napoli ha dovuto quasi smentire sé stesso e tutta la retorica pomposa sul casting per la panchina. Si pu ò dire, visto che alla fine ha scelto l’allenatore forse meno atteso tra quelli – erano 40, secondo il presidente – che si diceva facessero la fila per allenare Osimhen, Kvaratskhelia e soci.

La prima sensazione avuta dopo l’annuncio di Rudi Garcia è che la montagna abbia partorito un topolino (non è una citazione di Elly Schlein). Perché il Napoli è stato la miglior squadra dell’ultimo campionato, ha giocato il calcio più divertente d’Europa per lunghi tratti della stagione ed era anche l’unica squadra italiana con la panchina libera: era logico immaginarsi che De Laurentiis dovesse essere un kingmaker del mercato, e allora fosse in una condizione in cui, in buona sostanza, avrebbe potuto prendere più o meno chiunque. Invece, va detto in modo brutale, l’ex allenatore di Marsiglia, Lione e Al-Nassr è quello meno hype tra i nomi circolati, non è uno che emozionerà l’ambiente nel precampionato, ma non è una decisione avventata, non è un salto nel buio. Anzi, è la cosa più distante possibile da un azzardo. 

La prima considerazione da fare è che il Napoli avrebbe perso qualcosa in questa rotazione di panchine, e questo vale per tutti gli scenari possibili. Perché in fondo aveva già perso qualcosa con l’addio di Spalletti. Ovvero un allenatore che, per chimica con lo spogliatoio e intesa con tutto l’ambiente, aveva trovato un equilibrio probabilmente irripetibile. Allora la scelta del nuovo tecnico ha dovuto tener conto, da un lato, del fatto che questa squadra sarà – e sarebbe stata, in ogni caso, indipendentemente da tutto – una contender anche la prossima stagione; dall’altro, c’era e c’è la consapevolezza che il dominio esercitato nell’ultimo campionato non sarà ripetibile, almeno non con le stesse modalità del 2022/23. Forse nemmeno le superstar della panchina come Luis Enrique, Julian Nagelsmann, Antonio Conte e Zinédine Zidane – giusto per citare i più importanti tra quelli senza squadra – avrebbero potuto garantire un miglioramento certo, scientifico, definitivo rispetto alla scorsa stagione. Oltre al fatto che sembrano fuori portata per il Napoli e che, comprensibilmente, hanno preferito aspettare la chiamata di panchine più prestigiose. A costo di rimanere fermi. 

Le possibilità reali del Napoli erano e sono altre, i nomi sono quelli di allenatori che oggi hanno un contratto con squadre di metà classifica in Serie A. Si è parlato moltissimo di Vincenzo Italiano e Paulo Sousa, un po’ meno di Thiago Motta: erano queste le opzioni credibili, forse si può aggiungere Cristophe Galtier. Erano – e sono – tutti allenatori pronti per fare lo step al livello successivo. Soprattutto, sono allenatori con un’idea di gioco chiara, allenatori di campo, che impongono alle loro squadre un’identità, una visione, le fanno diventare un brand calcistico riconoscibile, pur senza una grande esperienza ad alti livelli. È qui che il Napoli ha fatto una scelta differente, conservativa in un certo senso: disponendo di una delle formazioni più forti del campionato, se non la più forte, De Laurentiis ha scelto un allenatore quasi sessantenne, non dogmatico e senza un credo tattico che reputa non negoziabile, uno che ha già allenato grandi giocatori e che è passato per Roma e ha saputo anche ammaestrarla – la città, l’irrequietezza dell’ambiente – per un certo periodo, in un luogo in cui gli umori dei tifosi sanno essere estremi e volatili. Proprio questa, non c’è alcun dubbio, è un’esperienza che gli tornerà utile a Napoli. 

L’allenatore francese «spiega il calcio senza inutile ostentazione, senza pensare di essere un deus ex machina, ma invece esaltando i giocatori». Queste parole sono di Walter Sabatini, quindi c’è da crederci. Garcia è un allenatore che non immagina le squadre per quello che potrebbero essere, ma le lascia giocare per quello che sono. È uno che sa adattarsi al materiale umano a disposizione. oscillando tra le sue idee e le intuizioni del talento. E lo farà alle condizioni, tattiche e non solo, volute dal Napoli: già si dice che abbia accettato la possibilità che uno tra Kim Min-jae e Victor Osimhen vada via, per esempio.

Nei suoi due anni e mezzo in Italia, sulla panchina della ROma, Rudi Garcia ha messo insieme 61 vittorie, 35 pareggi e 22 sconfitte in 118 partite di tutte le competizioni (Paolo Bruno/Getty Images)

La scelta razionale di De Laurentiis, quindi, è stravolgere il meno possibile, conservare il vantaggio competitivo e cavalcare l’onda su cui il Napoli viaggia da ormai un anno, garantendo continuità con il progetto che ha portato al terzo scudetto. Per Frédéric Bompard, vice di Garcia in tutte le avventure fino a Marsiglia, «Rudi a Napoli era inevitabile». Addirittura. Forse così è esagerato, però poi aggiunge altri elementi interessanti nella sua intervista all’Équipe: «A Garcia piace il possesso palla, preferisce difendere a quattro ma sa farlo anche con tre centrali, è così che ha portato il Lione alle semifinali di Champions League. La sua ossessione è la qualità dei giocatori a centrocampo, capaci di tenere palla». Nell’ultima frase c’è un riferimento alla Roma di De Rossi, Pjanic e Strootman, poi anche di Nainggolan – e quindi non dovrebbero esserci problemi con la squadra di Lobotka, Zielinski, Elmas, Anguissa.

Invece in attacco Garcia ha bisogno di far brillare giocatori in grado di portare elettricità: Salah, Hazard, Gervinho. Ed è qui forse che si nasconde la chiave di volta del prossimo Napoli. I giocatori dovranno essere in grado di rinunciare alle certezze trovate con Spalletti per sposare il caos, e forse la notizia più interessante è che alcuni sembrano poterci stare in un calcio più essenziale, più libero: «Lui è, contemporaneamente, l’azione che si svolge davanti ai nostri occhi e l’azione che stiamo immaginando». Lo ha scritto Gianni Montieri nel suo Il Napoli e la terza stagione (66thand2nd) parlando di Kvarastkhelia. Anche Raspadori, Elmas, Zielinski e lo stesso Anguissa – che ha già lavorato con Rudi Garcia a Marsiglia – potrebbero trovare nuovi spazi e nuove energie in una squadra che in molti momenti offensivi navigherà nell’entropia. 

Certo, l’incognita c’è e ci sarà ancora per un po’ di tempo: in fondo, non è detto che il Napoli, questo Napoli che giocherà con lo stemma dei campioni d’Italia sulla maglia, al netto del calciomercato dei prossimi due mesi, renda meglio con un po’ di libertà in più, in un calcio poco ricercato, meno sofisticato, più semplificato. E per un po’ resterà anche la delusione per aver spento subito gli entusiasmi post-scudetto, in una piazza che dopo la vittoria e i festeggiamenti voleva coltivare l’ambizione – e anche un po’ la presunzione – di presentarsi a inizio campionato con un allenatore diverso, uno di quelli che finora ha potuto solo sognare. In compenso, in questa nuova avventura anche Rudi Garcia mette parecchio in gioco, ha qualcosa da perdere: dopo l’esonero in Arabia Saudita e l’addio non proprio idilliaco con la dirigenza e l’ambiente del Lione, avrebbe bisogno di un’esperienza positiva, e arriva a Napoli con il marchio dell’allenatore a cui manca sempre l’ultimo step per vincere, uno bravo ma, insomma, uno che alla fine non ce la fa a portare a casa il bottino. Il riferimento al passato recente potrebbe essere meno esplicito di così. Solo che da qualche parte, nella campagna toscana, c’è un allenatore che alleva alpaca, arrivato sotto il Vesuvio con le stesse premesse, e che oggi ha tatuato sull’avambraccio due stemmi: quello del Napoli e quello dei campioni d’Italia.