Pierre Kalulu, storia di una rivelazione

Intervista al difensore del Milan: l'esplosione e lo scudetto al primo anno in rossonero, la passione per la moda, le prospettive e le ambizioni del futuro.

Se non avesse fatto il calciatore, Pierre Kalulu avrebbe voluto lavorare nella musica, nella fotografia o nella moda. In effetti, mentre risponde alle domande di questa intervista in uno studio fotografico in un quartiere a nord-est di Milano, è completamente a suo agio davanti ai flash, agli «ora sorridi che facciamo un primo piano», agli «ok, adesso cambiamo outfit». Mentre passa con disinvoltura da un abito all’altro, tra cui la quarta maglia del Milan 2022/23 in collaborazione con Koché, videochiama il suo stylist, chiede di farsi inquadrare, accetta consigli, è interessato ai capi che gli vengono proposti. La sua passione per la moda, mi racconta, nasce dai suoi genitori e dal loro Paese d’origine, la Repubblica Democratica del Congo. «I miei genitori si sono conosciuti e sposati in Congo. Mio papà ha studiato storia e là faceva il professore. Poi dal Congo sono andati in Marocco e non so quanto ci siano rimasti, mi hanno detto tanto, penso qualche anno, perché hanno anche imparato l’arabo. Il primo ad arrivare in Francia è stato papà, poi mamma l’ha raggiunto dal Marocco. Erano gli anni Novanta. Io e i miei fratelli siamo tutti nati in Francia. Oggi i miei genitori lavorano in un ospedale e aiutano le persone anziane».

Negli anni Venti del secolo scorso, tra Brazzaville (la capitale della Repubblica del Congo, l’ex Congo francese) e Kinshasa (la capitale della Repubblica Democratica del Congo, l’ex Congo belga), si è affermato un movimento chiamato Sape, Société des ambianceurs et des personnes élégantes, tradotto Società dei festaioli e delle persone eleganti. I giovani imitavano il modo di vestire raffinato e il portamento glamour dei francesi. Parigi era la capitale della moda, le persone si trasferivano in Francia e tornavano in patria sfoggiando cravatte colorate, cappelli da dandy e scarpe stringate. Era un modello a cui tendere, ma non fu solo un affare di vestiti. Quando negli anni Settanta il generale Mobutu salì al governo della Repubblica Democratica del Congo, instaurando una dittatura e cambiando il nome del paese in Zaire (come si sarebbe chiamato fino al 1997, anno della sua morte), avviò un processo di “zairizzazione” che vietava le influenze europee per ricreare una nuova autenticità culturale. Gli uomini dovevano indossare l’abacost, una tunica ispirata a quella di Mao Tse-tung. La Sape divenne allora un movimento di protesta pacifica, di affermazione della propria libera identità, di resistenza all’omologazione imposta dal regime.

Maglia AC Milan × Koché, colllana Nove2

Chiedo a Kalulu se sia stato influenzato dalla Sape. «Sicuramente la mia passione per la moda discende dalla Sape», risponde. «Anche se io sono meno stravagante dei sapeurs, loro fanno tante cose belle che però alcune volte sono un po’ strane. Quando ero piccolo i miei genitori mi dicevano sempre che è importante vestirsi bene, essere belli da vedere, sia che uno ha i soldi sia che non li ha. È sempre stato così. E adesso mi piace molto la moda». Che cosa, in particolare? «La semplicità, l’originalità, ultimamente vesto cose un po’ larghe ma non troppo, tipo da skate. Poi certo, ci sono i grandi marchi che piacciono a tutti. È anche per questo che adoro Milano, è un po’ come Parigi: puoi avere quello che vuoi senza bisogno di andare su Internet, mi piace entrare nei negozi e provare i vestiti dal vivo».

Pierre Kalulu sembra un essere umano molto sicuro di sé. Una volta l’ha detto anche Stefano Pioli: «Kalulu ha dentro di sé una convinzione nei suoi mezzi e una serenità incredibili. Affronta ogni partita con concentrazione, mai con ansia». Il giorno in cui lo incontro per questa intervista sembra scontata la sua prima convocazione con la Nazionale maggiore francese, ma ancora una volta il commissario tecnico Didier Deschamps prende una decisione diversa. Kalulu, che andrà in Under 21, dove si farà pure male a un polpaccio, non lascia trasparire la delusione: sa semplicemente che prima o poi il suo momento arriverà. Come è accaduto al Milan. Quando i rossoneri l’hanno acquistato dalle giovanili del Lione per poche centinaia di migliaia di euro a giugno del 2020, un sito specializzato nel calciomercato ha cerchiato di rosso la sua faccia per permettere ai lettori di distinguerlo in mezzo ad altri tre compagni. Eccolo, lo sconosciuto Kalulu è lui.

In due anni Kalulu è passato dal non aver mai disputato una partita da professionista nella sua vita alla vittoria dello scudetto da titolare. Tra marzo e maggio della scorsa stagione, quando è stato schierato al centro della difesa con Fikayo Tomori, il Milan ha vinto nove partite di campionato su undici e ha subìto solo due gol. «Quando sono arrivato al Milan non solo non avevo mai giocato come professionista, ma non giocavo a calcio da tanto tempo in assoluto, perché c’era stata la pandemia. Non scendevo in campo da marzo. Non ho pensato alla pressione o al fatto di essere stato pagato poco. Ho solo detto: finalmente posso tornare a giocare a calcio!». In che cosa sei cresciuto in tre anni al Milan? «In tutto. Sono più forte, più veloce, più libero di testa, le cose mi vengono più naturali». E in che cosa puoi crescere ancora? «In tutto! (ride, nda) Posso essere ancora più deciso, soprattutto nei duelli aerei, e posso sempre leggere meglio le partite. Questo fa la differenza ad alto livello». Oltre al difensore centrale, Kalulu ha fatto anche il terzino destro e il braccetto nella difesa a tre. «Per me per essere perfetto devi saper giocare ovunque. Ti aiuta tantissimo: se vuoi essere titolare in un grande club, devi poter aiutare la squadra dove ne ha bisogno».

Maglione (sotto) Diesel, maglione (sopra) Marni, bracciale Dior, occhiali Gentle Monster

Mi domando spesso se sia possibile misurare o quantificare l’importanza, per un calciatore, di avere avuto Paolo Maldini tutti i giorni a Milanello. Di averci potuto parlare, banalmente di ascoltarlo. Tra i molti modi in cui lo si può definire, Paolo Maldini detiene il record, insieme a Francisco Gento, di finali di Champions League disputate: otto. Cinque le ha vinte. Penso quindi a un giovane difensore come Kalulu, a una giovane squadra come il Milan dell’anno scorso prima della partita scudetto contro il Sassuolo, alla possibilità di confrontarsi ed essere tranquillizzati da Paolo Maldini, e di riflesso mi tranquillizzo un po’ anch’io tifoso. Invece con la risposta a questa mia supposizione Kalulu mi sorprende ancora una volta per la maturità che dimostra. «A essere sincero non avevamo paura prima di Sassuolo-Milan. C’era un po’ quell’adrenalina di sempre, quella che hai prima di ogni partita, ma sapevamo di aver lavorato bene durante la settimana e durante tutta la stagione ed eravamo tranquilli. Non c’era più tensione del solito. E se Maldini venisse a parlare con noi prima di una partita importante, senza averlo mai fatto prima, allora ci metterebbe addirittura più pressione. È vero che siamo una squadra giovane, ma sappiamo quali sono le partite importanti. Maldini mi ha aiutato di più a capire quanto conta il calcio in Italia. Il tifo è pazzesco, la gente ti ama davvero. Quando andiamo in trasferta lui è sempre il più acclamato, anche se ha smesso di giocare più di dieci anni fa».

Kalulu ha studiato il passato ma è proiettato nel futuro. Con lui e Tomori titolari, soprattutto nella scorsa stagione, il Milan ha proposto un calcio che molti definirebbero “moderno”: difesa alta, aggressiva, pressing a tutto campo e velocità per coprire decine di metri di campo correndo all’indietro. È stata una delle chiavi dell’ultimo scudetto, resa possibile proprio dal cambio delle gerarchie tra Kalulu e l’ex capitano Alessio Romagnoli, che in estate è poi passato alla Lazio. Sono curioso di sapere se Kalulu si sia dovuto adattare alle idee di Pioli o se gli venga naturale questo modo di interpretare il calcio, una vocazione, uso proprio questa parola qui, la dico anche in francese per evitare fraintendimenti. «È così che vedo il calcio», mi dice impassibile, quasi offeso dal mio scetticismo, dal mio fare come San Tommaso, per rimanere in tema. «Devi essere aggressivo sia in fase offensiva sia in fase difensiva, devi avere la volontà di comandare il gioco e non di subirlo. Questo tipo di calcio mi piace tantissimo». Però quest’anno, in un momento di difficoltà, il Milan non si è vergognato di passare alla difesa a tre per bloccare un’emorragia di gol subìti che durava ormai da un mese. «La difesa a tre ti aiuta sicuramente a stare più coperto, a difenderti meglio». E in questo periodo è stato fondamentale il contributo di Malick Thiaw, un giovane con una parabola simile a quella di Kalulu: dopo un lungo apprendistato, quando Pioli ha avuto bisogno di lui si è fatto trovare pronto.

Completo Off-White × AC Milan, camicia Acne Studios, cravatta Valenti

Il primo ricordo di Pierre Kalulu è naturalmente legato al pallone. Quando lo racconta si infervora, va a braccio ma sembra quasi un pezzo di stand-up comedy per l’effetto comico che c’è in coda. «Avevo tre o quattro anni, facevo un torneo con i miei fratelli maggiori in una piccola squadra vicino a casa mia che si chiama Saint-Fons. Era una partita di calcio a cinque con una tribuna soltanto, ma il campo mi sembrava enorme. Ho sempre in mente questo flash che dura trenta secondi, non me lo dimenticherò mai. Entro, ero piccolissimo, prendo la palla, faccio un uno-due, arrivo davanti alla porta, tiro… fuori!». Il pathos della storia si scioglie sulla sua imbarazzata risata finale. Forse non a caso è diventato un difensore. «Ma le luci, il rumore e tutto me li ricordo ancora. Uno dimentica tante cose nella sua vita, ma questo proprio no».

Pierre Kalulu è nato il 5 giugno 2000. Quando aveva sei anni, un mese e pochi giorni, l’Italia ha battuto la Francia nella finale mondiale di Berlino. Te la ricordi quella partita? «Ricordo che siamo andati a casa dei miei cugini, eravamo tanti bambini, c’erano tre o quattro famiglie tutte insieme, un ambiente bellissimo. La finale era alla sera, ma siamo andati là già alle tre del pomeriggio. È stata l’unica partita di quel Mondiale che ho visto veramente, dal primo all’ultimo minuto, ero piccolo, avevo solo sei anni. Non capivo tutto, ma ricordo la sensazione di vedere tutti i miei parenti con un po’ di paura, tensione, eccetera… Lì ho capito che il calcio è una cosa che ti fa sentire vivo. Forse è per questo che sono diventato un calciatore».

Foto di Pietro Bucciarelli
Moda di Allison Fullin
Assistente moda: Virginia Bettoni
Nella foto in apertura: pantalone Magliano, giacche Acne Studios, collana Dior