L’intervista di Dele Alli dovrebbe cambiare il calcio e i calciatori

Le parole a Gary Neville hanno aperto una strada: da oggi in poi, forse, i giocatori parleranno di se stessi in modo diverso.

Dele Alli ha scelto Gary Neville per raccontare la sua storia. Ha scelto The Overlap, il canale/programma YouTube in cui l’ex terzino del Manchester United ospita grandi nomi dello sport, soprattutto del calcio, per delle interviste informali. L’intero video dura 43 minuti, è uscito il 13 luglio e in meno di 24 ore aveva già raccolto tre milioni e mezzo di visualizzazioni. Perché Dele ha parlato di tutto ciò che gli è successo, senza filtri: la madre alcolizzata, gli abusi subiti da una sua amica, lo spaccio quando era solo un bambino, i viaggi andata e ritorno dall’Africa, un padre lontanissimo da lui e poi assente. Insomma, una famiglia completamente rotta fino alla salvezza di una affidataria, che lo ha condotto al calcio. Poi i problemi di benessere mentale, la dipendenza dai sonniferi, la caduta dopo aver raggiunto – prestissimo, per altro – l’apice della carriera, col Tottenham e con la Nazionale.

Mentre parlava di sé, mentre si lasciava intervistare, Dele Alli ci ha ricordato soprattutto una cosa: quante carriere sono inspiegabili quando le separiamo dalle biografie e da tutto quello che contengono. E tra la parabole inspiegabili dell’ultimo decennio, quella di Alli per un paio di anni è sembrata spiccare come un palazzo abbattuto e mai rimosso: il futuro e poi le macerie più ingombranti del calcio inglese. Un «modern day Bobby Robson» come ha detto lo stesso Neville nel presentare l’intervista, pilastro del Tottenham e della Nazionale, in un precocissimo declino, icona del calciatore «pigro», come da etichetta affibbiata da José Mourinho e rilanciata dal documentario uscito su Prime, e infine un fantasma, un ex ancora sotto contratto, buono per un campionato minore come quello turco. Delle Alli sembrava un giocattolo che avesse finito la carica troppo presto, un giovane uomo viziato e senza motivazioni. Questo, almeno, nella visione bidimensionale con cui consumiamo il gioco. Quella visione che Alli, come altri prima di lui, ha provato a spezzare, parlando apertamente di trauma, dolore, dipendenza, salute mentale, paura. La sua conversazione con Neville è uno degli eventi calcistici più importanti degli ultimi anni, Perché cambia la narrazione, apre una strada.

Le carriere come quella di Dele Alli ci sembrano inspiegabili perché seguiamo il calcio, e lo sport in generale, appassionandoci soprattutto alle vicende umane, le ascese, i trionfi, i crolli, i riscatti, ma poi di quelle vicende non sappiamo nulla. Nel silenzio dell’unico mese dell’anno senza partite, il centrocampista inglese ha spezzato quell’illusione vagamente predatoria secondo la quale contano solo il campo e al massimo l’allenamento, l’idea che possiamo capire, e giudicare, il percorso di un essere umano basandoci su quelle finestre ricorrenti di novanta minuti, allargate solo dall’autocelebrazione sui social, dalle iniziative promozionali, dagli obblighi di marketing, dalle occasionali interviste o dai documentari dietro le quinte.

Vista in tre dimensioni, la storia di Dele Alli è completamente diversa da quella che pensavamo di conoscere: giovane talento sorridente sempre in lotta con sé stesso, apparentemente integro ma probabilmente bisognoso di aiuto molto prima che decidesse effettivamente di farlo, quando ormai era sull’orlo del baratro e dipendente dai sonniferi. La faccia con cui ha raccontato di sé a Gary Neville è probabilmente quella di uno che l’ha sfangata, che ha ripreso la sua carriera e la sua testa in tempo prima del baratro, trovando all’Everton un ambiente in cui medicarsi e forse anche guarire. Ma di quante carriere inspiegabili alla fine ci siamo dimenticati e le abbiamo giudicate solo come sfortunate parabole di pallone, talenti che non lo erano, «fenomeni parastatali», quando probabilmente c’erano traumi e dolore quanto nella storia di Alli?

L’intervista di Neville è importante per i calciatori, e questa era la sua intenzione dichiarata, ma è importante anche per il calcio, e questo va probabilmente oltre lo scopo dell’intervista, ma è il punto di caduta più importante. Partiamo dal primo punto: i colleghi. Normalizzare la richiesta di aiuto, dalle dipendenze come da qualunque altro tipo di problema di salute mentale, salverà carriere, probabilmente salverà anche vite. I calciatori sono molto più ricchi di venti, trenta o quarant’anni fa, ma sono anche molto più schiacciati e sotto pressione. Sono rockstar che devono fare tre volte alla settimana performance da atleti, e atleti che devono reggere una esposizione da rockstar, in un contesto e in un mondo che non lascia nessuno spazio per nascondersi. Forse non ci rendiamo conto di quanto sia pericolosa un’esistenza di questo tipo, è giusto che Alli abbia preso la parola, in tanti ritiri qualcuno avrà assorbito il suo esempio e forse qualcuno nelle prossime settimane busserà alla porta di un team manager, di un capitano, di un allenatore e dirà: non mi sento bene.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Gary Neville (@gneville2)


Ma Alli ha fatto qualcosa di importante anche per il calcio e per quello che significa per noi. Il calcio professionistico è uno dei più grandi bacini di mascolinità al mondo. In un recente, lungo e appassionato ragionamento sul Washington Post, Christine Emba scrive di quanto la mascolinità patriarcale sia finalmente in crisi, è un pezzo di mondo vecchio che stiamo provando a lasciarci alle spalle, e tanti casi di cronaca delle ultime settimane (anche in Italia) dimostrano quanto il processo sia allo stesso tempo incompiuto e irreversibile. La domanda però è: cosa ci mettiamo al suo posto? Quali sono i modelli del futuro? Dove stanno, dove li prendiamo? Il ragionamento di Emba è che non ne abbiamo ancora idea. Il rischio è che lo spazio vuoto venga presidiato da messaggi e personaggi ancora più tossici di quelli che ci stiamo lasciando alle spalle: Jordan Peterson, Andrew Tate sono tra gli esempi anglosassoni, sono sicuro che ve ne vengono in mente parecchi anche in Italia.

In questo contesto il calcio ha inevitabilmente anche il compito di definire un modello di uomo moderno e non predatorio, non tossico, non violento, che sappia trovare uno spazio in sé anche per la fragilità, per la vulnerabilità, per la paura. E, magari non pensandoci, Dele Alli nel raccontare la sua storia di abusi e dipendenza con candore e apertura ha fatto esattamente questo, ci ha dato un pezzettino di modello. E questo al di là di chi è stato e di chi sarà Dele Alli nel resto della sua carriera e della sua vita, questo frammento di possibilità rimane, ormai è nostro quanto suo.

L’ultima notizia che si prende dall’intervista non è una notizia, ma vale la pena sottolinearla: quanto rapidamente sta cambiando l’ecosistema dell’informazione sportiva (e non). Alli avrebbe potuto aprirsi così solo con un ex calciatore, qualcuno a cui riconoscere la familiarità di averne viste, affrontate e vissute quante, e più, di lui, un uomo di calcio che gli ha creato intorno uno spazio sicuro per esprimersi. Avrebbe mai concesso la stessa intervista a un giornalista, in un media tradizionale? Probabilmente no, non nel 2023, non solo perché esistono le alternative come The Overlap, ma anche perché il mondo dell’informazione ha contribuito a creare questo contesto in cui esistono solo due cose per un calciatore, la performance e lo spiffero, la partita o il gossip. Non tutti, non sempre, ma abbastanza perché un calciatore tenga la sua verità alla larga da un’intervista come le conosciamo, e che poi la offra a un ex calciatore che ha il coraggio di fargli la domanda più importante di tutte: come stai, Dele?