Bruce Lee è stato l’idolo di tutti

Una recensione di Bruce Lee, L'avventura del Piccolo Drago, il nuovo libro di Michele Martino edito da 66thand2nd.

Ci sono storie che più rapidamente ti portano all’adolescenza, a poco più avanti dell’infanzia. Basta niente: una parola, una fotografia, un frame, un minuto o poco più visto su YouTube, la copertina di un libro, una frase di un libro. Succede e di colpo ti ritrovi in una cameretta a rivivere una scena che hai vissuto per molti pomeriggi. Ci sei tu, forse un amico, forse un tuo cugino. In pochi metri a tentare di ripetere movimenti, colpi, battute, silenzi, sguardi, respiri, piccole urla d’accompagnamento. Le braccia messe davanti al viso come a proteggersi e – contemporaneamente – pronte a sferrare l’attacco, i pugni serrati, lo sguardo concentrato. Le ginocchia piegate, un movimento che ti preparava, come succede all’elastico, pronto allo scatto, al salto, al calcio, alla giravolta. Voi in una cameretta, gli altri in tutte le camerette del mondo, nella palestra di una scuola, in un parco, in un cortile, su una spiaggia. Tu, un tuo amico, tuo cugino o chi ti pare a volerti chiamare con un nome solo, a imitare qualcuno che hai visto dieci, venti, cento volte in un film. Qualcuno che ha reso avventurosi e affascinanti i tuoi pomeriggi. Un tizio invincibile, un tizio chiamato Bruce Lee.  

Ricordo sul serio molti pomeriggi in cui varie televisioni private, agli orari più disparati, trasmettevano e riproponevano i film con Bruce Lee e noi impazzivamo. Sarebbero arrivati venti, trenta espertissimi di arti marziali, invincibili, immortali, e lui Bruce Lee li avrebbe storditi, divelti, fatti secchi in pochi secondi. Sguardo concentrato e beffardo, colpi armonici, giravolte, salti altissimi, calci ripetuti, colpi al busto, al collo, dietro la testa. Lui agile come un ballerino, efficace come un killer, idolo romantico dei ragazzini. Lui senza che mai cadesse una goccia di sangue (col senno di poi, com’era possibile?) sconfiggeva uomini cattivi, c’era un solo buono ed era lui. Cose anche divertenti come vederlo combattere contro Kareem Abdul Jabbar, idolo di altri pomeriggi. Volevamo essere Bruce Lee, batterci a colpi di Kung Fu contro chiunque, imparare la disciplina e il controllo, volevamo essere eroi.

A luglio 2023 ricorreranno 50 anni dalla morte dell’attore di Hong-Kong; morte avvolta ancora da qualche mistero e avvenuta quando Lee aveva soli 33 anni, e il cortocircuito, il click lo ha generato il libro di Michele Martino appena uscito per 66thand2nd: Bruce Lee. L’avventura del piccolo drago. Martino già autore di un’altra bellissima biografia, quella del favoloso Doctor J, al secolo Julius Erving, traccia un ritratto splendido di Lee, ricco, molto accurato, con un apparato bibliografico preciso e ampio. Grazie alla solidità della scrittura ce lo riconsegna, scaraventandoci nelle nostre camerette, non chiediamo molto altro a un’estate giunta già a metà strada. 

Leggendo le pagine di questo libro si capisce con chiarezza come nel cinema e nelle arti marziali ci sia stato un prima e dopo Bruce Lee, tutto ciò che è venuto dopo in quel campo gli deve qualcosa, e qualcosa è andato a prendersi. Per Martino risulta evidente quanto gli debbano per esempio: il Neo di Matrix, Jason Bourne, o i più recenti James Bond. Ma non solo, ogni action-movie gli deve qualcosa, ed è incredibile se si pensa al poco tempo in cui Bruce Lee ha potuto darsi alle scene, diciamo così. Ma questo è il particolare talento dei grandi – in ogni campo – gli basta poco per essere mai più dimenticati. Le scene da combattimento di Lee tenevano insieme movimenti coreografici di alta spiritualità fusi al vero e proprio scontro fisico.

Questo si deve, e lo racconta bene, Michele Martino, al particolare genio di Lee, alla sua capacità di pensare al di fuori dagli schemi e di superare la rigidità della tradizione, comunque rispettandola. Lee è stato ballerino, coach di gente come Steve McQueen, James Coburn, Chuck Norris – che gli deve davvero tanto –, Sharon Tate, Lee Marvin, Kareem Abdul Jabbar. C’è molto anche di quella California, quella raccontata da Joan Didion, quella massacrata da Charles Manson. La sua è stata una vita sempre in bilico, piena di eccessi e di combattimenti, come quello contro le discriminazioni subite, una storia segnata poi da un successo rapido e irripetibile quasi per chiunque, una storia interrotta molto presto. 

Per raccontare le molte cose che è stato Bruce Lee, Michele Martino sceglie una strada che è quasi scientifica, sta molto attento a evitare agiografia, mistificazioni, esaltazione eccessiva del personaggio, si attiene ai fatti, operando una ricerca scrupolosa, attraverso le testimonianze, interviste, racconti di collaboratori, familiari, registi, attori e amici. Tutto questo però – ed è il segreto del libro – è retto da una prosa molto bella, che fa pensare ai grandi narratori di sport americani, come il Bissinger di Friday Night Lights. Il ritratto di Lee è intimo e nuovo, non era semplice, i libri su di lui potrebbero fare biblioteca a sé, e inoltre, l’autore, ci fornisce uno studio accurato sull’arte di questo personaggio mitico, perché la sua era arte, di questo si trattava. L’altro pregio di questo libro è fornirci un resoconto breve ma importante della storia delle immigrazioni tra Hong-Kong e gli Stati Uniti, in particolare la California. Questo libro bellissimo è illustrato in copertina da Guido Scarabottolo e, guardando l’immagine di Lee in tuta gialla, vediamo anche Uma Thurman in Kill Bill e ci ricordiamo che Quentin Tarantino, genio degli omaggi, è un altro fissato come noi, e non osiamo pensare alla sua cameretta.