L’orgoglio di Lisa Boattin

Il boom del Mondiale 2019, la Juventus, il coming out: intervista a una delle più forti calciatrici italiane.

È cominciata con un pallone in piazza a San Stino, in provincia di Venezia, insieme al fratellino e a nessun altro, poi con infermerie trasformate in spogliatoi per permettere all’unica bambina, lei, di cambiarsi senza imbarazzi. Per anni Lisa Boattin è stata l’unica femmina in campo. La bambina che marcava i maschi, mentre da fuori i genitori sghignazzavano e lei sentiva tutto: “Attenti a non farle troppo male”. Senza modelli e senza compagne di squadra, la numero 17 della Nazionale azzurra per tutta l’infanzia ha pensato che non esistessero bambine come lei, con il suo stesso desiderio di diventare una calciatrice. A guardarla oggi che, a ventisei anni, cinquanta presenze in Nazionale, oltre duecento nelle squadre di club, sorride mentre palleggia sotto il sole di giugno e mostra il polso sinistro in cui è tatuata la parola “resilienza”, si direbbe che il passato, ovvero i torti, le risatine, le mancate docce a fine allenamento per mancanza di spazi a sua disposizione, le domande alle quali ha dovuto rispondere e le insinuazioni da cui si è dovuta difendere, insomma tutto ciò che si porta ancora dietro la scelta di diventare una giocatrice di pallone, le sia scivolato addosso, rendendola una donna forte, orgogliosa, ostinata con il diritto di esserlo.

Ⓤ: Quando hai cominciato a giocare a calcio?

Da quando ho memoria. Mi ricordo di avere sempre giocato a calcio, prima nella piazza del paese, poi in oratorio, infine a sei anni in una squadra vera e propria. Ero l’unica femmina, mi piaceva Pavel Nedved e pensavo di essere anche l’unica femmina al mondo con questa passione. Agli inizi del Duemila il calcio femminile era una questione privata, un movimento segreto, quasi proibito. Però quando ripenso a quegli anni non mi piace definirmi diversa, preferisco considerare la mia infanzia particolare. Io mi divertivo, a quell’età conta soltanto quello.

Ⓤ: Quando hai capito che il tuo divertimento poteva diventare il tuo lavoro?

A diciassette anni, quando ho dovuto lasciare la mia casa e la mia famiglia per trasferirmi in Lombardia. Al Brescia ho capito che il gioco stava diventando più serio, in squadra con me c’erano Barbara Bonansea, Martina Rosucci, Cristiana Girelli, l’anno dopo sarebbe arrivata Sara Gama, l’allenatrice era Milena Bertolini. Si giocava per vincere, le aspettative di tutte erano alte. Mi ricordo, durante una delle prime partite, di avere proprio pensato: voglio che questa sia la mia vita.

Lisa Boattin è nata a Portogruaro nel 1997. Le sue prime esperienze da calciatrice sono state con Venezia e Pordenone, mentre nel 2014 è arrivato il grande salto in Serie A, con la maglia del Brescia. Nel 2016 passa al Verona, prima di unirsi, nel 2017, alla Juventus: in bianconero, finora, ha raccolto ben 173 presenze, tra competizioni internazionali e Champions femminile.

Ⓤ: I tuoi genitori ti hanno sempre assecondata?

Sì e mi sento una privilegiata. All’inizio, quando ero ancora molto piccola, mia mamma aveva provato a farmi cambiare idea, dirottandomi sul nuoto e sulla danza. Ho provato entrambi una volta e ho subito capito che non sarei riuscita a resistere una seconda volta. Da allora non ha più insistito e mi ha lasciata libera di scegliere. Tutta la mia famiglia ha fatto il tifo per me, per vedermi un giorno indossare le maglie del mio cuore, quella bianconera e quella azzurra della Nazionale. So di essere fortunata, mi è capitato molte volte di vedere ragazzine con più talento di me abbandonare il calcio perché non avevano la famiglia ad accompagnarle nella loro scelta.

Ⓤ: Consiglieresti a una bambina di sei anni di giocare a calcio?

Non solo, glielo auguro. Forse quando ho cominciato io no, ma adesso glielo auguro proprio. Oggi ci vedono, io non sapevo dell’esistenza delle mie colleghe. Poi il movimento è cresciuto, non siamo più considerate quelle strane, abbiamo alle spalle centri sportivi all’avanguardia e team di persone che credono in noi, studiano per noi e lavorano ogni giorno per farci migliorare. Mi ricordo che un anno, giocavo già in Serie A, hanno interrotto un allenamento perché nel nostro campo dovevano organizzare la sagra del paese, oggi un episodio del genere spero che non possa più capitare. Anche quello però fa parte del processo di crescita, perché aiuta a capire da dove siamo partite e fino a dove siamo arrivate.

Ⓤ: Dall’oratorio al Mondiale in Francia, da dilettanti costrette ad esserlo a professioniste, è stato il 2019 l’anno della svolta?

Sicuramente sì. Arrivavamo da anni pesanti, anni in cui il presidente della Lega Dilettanti si era permesso frasi inaccettabili rivolte a noi (“Basta dare soldi a quelle quattro lesbiche”, nda). I Mondiali e ancora prima la partita tra Juve e Fiorentina all’Allianz Stadium tutto esaurito per vedere giocare le donne è stata una boccata d’aria fresca, e di futuro finalmente. Ai Mondiali di Francia abbiamo proprio percepito il sostegno delle persone, forse anche di chi prima ci prendeva in giro.

Ⓤ: Oltre all’entusiasmo, gli investimenti. E battaglie politiche grazie alle quali dal luglio del 2022 siete considerate professioniste. Sono stati fatti molti passi in avanti, che cosa manca al calcio femminile oggi?

Io faccio parte di una società da quando avevo quattordici anni. Devo dire che dal 2017, quando sono arrivata alla Juventus, mi sono subito sentita una professionista, perché a parte lo status legale avevo tutto ciò che serviva per sentirmi tale: un centro sportivo all’avanguardia e uno staff tecnico concentrato solo su di noi. Queste disponibilità hanno cambiato la mia prospettiva e le mie ambizioni, è chiaro che in ambienti del genere giochi e fai del tuo meglio per vincere. Se guardo a ciò che succede fuori dall’Italia, penso che forse le società dovrebbero avere a disposizione più stadi di proprietà, come succede al Chelsea, al Barcellona. Oltre ai fattori esterni, l’evoluzione del movimento dipende molto anche da noi. Siamo cresciute a livello tecnico e atletico, ma quando giochi all’estero ti rendi conto che si può migliorare ancora. Incontrare le migliori aiuta a migliorare e noi dobbiamo cercare di farlo il più possibile.

Dopo aver fatto parte delle selezioni giovanili sin dal 2012, Boattin ha debuttato nella Nazionale maggiore nel 2014: da allora, ha raccolto cinquanta presenze, con i Mondiali del 2019 e gli Europei del 2022 come principali appuntamenti a cui ha preso parte. A livello giovanile, ha vinto il bronzo due volte con l’Under 17: nel 2013 agli Europei e nel 2014 ai Mondiali.

Ⓤ: Cosa ti aspetti dai Mondiali?

Sarà un’edizione molto difficile. L’esperienza all’Europeo ci ha fatto capire che è dura giocare in campo internazionale. Le aspettative erano alte e non è andata come speravamo. I Mondiali sono un gradino ancora più alto, in cui si affrontano squadre davvero forti. In più rispetto al 2019 il calcio si è evoluto, il livello tecnico è aumentato. Dovremo essere brave noi con le nostre partite a far ritrovare ai tifosi azzurri lo stesso entusiasmo del 2019. In sei anni di Juventus hai ottenuto tanti successi, di squadra e personali. Cinque scudetti, tre Coppe Italia e tre Supercoppe.

Ⓤ: Quanto sei cresciuta dalla prima volta che hai messo piede a Vinovo?

È cambiato il mondo. Avevo già vinto lo scudetto con il Brescia, squadra che mi ha fatto capire che il mio sogno era quello giusto. A Torino ho cominciato a pensare come le professioniste, a guardare da vicino i miei idoli di sempre. Da poco mi è capitato di vedere Alex Del Piero. Io volevo il suo autografo ma avevo paura anche a rivolgergli la parola. Per fortuna si è avvicinato lui, e mi ha detto che siamo tutti della stessa famiglia. Faccio ancora un po’ fatica a crederci, ma effettivamente forse ha ragione lui. E questo è un altro privilegio che devo al calcio.

Ⓤ: La crescita del movimento ha portato a sponsorizzazioni e aziende che vi hanno scelte come testimonial. Anche questo fa parte del processo di crescita. Quanto è importante per voi avere un supporto come Adidas?

È fondamentale, fa la differenza. È anche grazie a loro che abbiamo la possibilità di dare visibilità al calcio e ai valori che il calcio femminile trasmette. Da piccola dovevo comprarmi le scarpe da sola, spesso non c’era niente della mia taglia o del mio genere. Oggi grazie ad Adidas ho la possibilità di scegliere prodotti e scarpini che sono stati fatti su misura per noi, per renderci più performanti stagione dopo stagione. E poi le divise scelte per i prossimi Mondiali sono bellissime.

Ⓤ: Alla Juventus hai anche incontrato la tua compagna, Linda Sembrant. Il 14 febbraio scorso avete annunciato di avere una relazione. Quanto è difficile nel calcio fare coming out, e come lo hai vissuto?

A me non piace parlare di coming out. Io volevo soltanto parlare della mia relazione con Linda, nel giorno di San Valentino. Proprio come hanno fatto Cecilia Salvai e Marco Borgese lo stesso giorno. La società voleva parlare della storia di un amore grande, e così io e Linda abbiamo deciso di parlare anche del nostro. È stato un bel momento e non mi aspettavo di ricevere tutto il sostegno che ho ricevuto anche perché so che ancora oggi per alcuni non è normale essere omosessuali. Io però ho ricevuto solo affetto e messaggi belli da parte delle persone. Quindi voglio concentrarmi soltanto su quelli.

Ⓤ: Qual è il tuo sogno più grande da calciatrice?

È una domanda che mi mette i brividi. Non saprei quale tra le due coppe scegliere, Coppa del Mondo o Champions League. La squadra del cuore o l’Inno di Mameli. Però se ripenso alle infermerie in cui mi cambiavo da sola da piccola, capisco che qualunque coppa sarebbe un altro dei tanti privilegi di questa storia, ed è un privilegio anche avere l’opportunità di provare a vincerla.

Da Undici n° 51
Foto di Franap