A questo giro, per evitare il tackle più duro, non sono bastate le finte, le giravolte sul posto, gli improvvisi cambi di direzione. Dove non sono arrivati i difensori avversari, c’è arrivato il tempo. In un giorno di allenamento come un altro, all’inizio di una stagione che nei suoi piani non doveva essere l’ultima, vent’anni di professionismo hanno improvvisamente presentato il conto. Prima dev’esserci stato il rumore sordo della rottura, a seguire il dolore divampante che inghiotte l’intero arto, per poi arrivare al freddo della consapevolezza; un freddo così profondo da cancellare in un secondo l’estate, il futuro, forse persino il passato. Lesione del crociato anteriore, carriera finita. Che cosa è stato e che cosa ci lascia David Silva?
Innanzitutto, ci lascia il suo senso dello spazio. Con la palla al piede, David Silva mirava a conquistare lo spazio per ridurre non tanto la distanza dalla porta, ma quella dal passaggio giusto. Pur muovendosi velocemente, non dava mai l’impressione di avere fretta. Le sue pause erano lag dove non pensava alla mossa successiva, ma a quella ancora dopo. Nel farlo, nel riflettere, portava a spasso il pallone come se si trattasse di un accessorio col quale la sua mente amava tenersi oziosamente impegnata, mentre elaborava in background la migliore soluzione possibile. Nel suo tergiversare apparente, riduceva la palla a un’esca per i randagi che lo inseguivano, per poi aprire il campo, tagliare il vuoto, liberare la tecnica con un colpo secco. Il pallone tornava a essere il centro di tutto quando il resto del mondo – la squadra avversaria, le telecamere – era ormai tagliato fuori. Questo assist contro il Reading, finalizzato da Dzeko, ne è un perfetto esempio.
Quindi David Silva visionario del gioco, esponente di un archetipo chiamato a coniugare la fantasia degli artisti alla cerebralità dei maestri di scacchi. Nel calcio da lui predicato, fatto di fasi interlocutorie e poi di lampi accecanti, estro e calcolo si sovrapponevano fino a risultare indistinguibili. Con risultati magnifici, da simulazione videoludica, come se le sue intuizioni fossero dettate dallo stesso algoritmo che anima l’intelligenza artificiale quando il videogioco decide che sì, è ora di segnarti contro, e allora si viene annichiliti da passaggi come questo contro l’Hull City, un filtrante ipotenusa la cui affilatezza da sola basta per tagliare la corsa ai difensori, ma che il tocco morbido di Silva fa apparire lento e allo stesso tempo imprendibile:
La cosa che sorprende di più è la naturalezza con cui serve quel pallone
Dunque David Silva super assistman, con i numeri accumulati in carriera lì a dimostrarlo e a raccontarci di un trequartista-regista poliedrico, multidimensionale. L’involucro che avvolgeva i suoi gesti tecnici era fatto di un’eleganza spietata e dinamica, volta a celare il pragmatismo delle scelte, mentre il suo fisico minuto, dirimpetto, era la maschera entro cui nascondere una durezza fisica e mentale mai troppo decantate. Del resto, non si resta così a lungo nel campionato più sfiancante del mondo se non si è grado di abbinare alla leggerezza il suo opposto, e tale qualità è tra i fattori che ne hanno determinato la longevità, permettendogli di accumulare 436 presenze e più di 100 assist tra Premier e Champions League con la maglia del Manchester City.
Ma, oltre alla resistenza e al rapporto simbiotico con la palla, la sua completezza offensiva si delineava anche in termini di reti segnate. Osservando le sue sentenze da calcio di punizione – molte, se non tutte, spedite all’incrocio dopo aver impresso al pallone una curvatura da green screen – e le conclusioni da fuori area e quelle su inserimento, emerge la sua vocazione per la precisione. Come in preda a una sorta di deformazione professionale, Silva sembrava non poter fare a meno degli strumenti registici anche quando le contingenze della partita lo portavano a ricoprire il ruolo di finalizzatore. Se per assurdo i calciatori fossero dotati di una scatola nera, in quella di Silva non mi stupirei di trovare una formula psico-motoria unica per tiri e passaggi, vista l’accuratezza che li accomunava. Forse è così che funziona la mente di un grande passatore chiamato a infilare la porta: l’immaginarsi un compagno da servire nel punto in cui la porta è scoperta, e servirlo.
Nella partita contro l’Irlanda agli Europei 2012, pur circondato da tutta la difesa avversaria, Silva riesce a mettere a sedere il diretto marcatore semplicemente addomesticando una respinta del portiere. E a segnare, dopo essersi di nuovo spostato il pallone sul mancino, con un tiro all’angolo così delicato da sembrare un passaggio. Vedere i difensori cadere o tentennare goffamente – vittime di un effetto domino originato non da un tocco repentino, ma dall’illusione di quest’ultimo – sembra parte di una coreografia da commedia slapstick nella quale la genialità esibita dall’eroe viene enfatizzata dall’impotenza collettiva dei nemici. Una stasi, la loro, generata dal ventaglio di soluzioni che Silva serba in potenza e a cui sembrano arrendersi prima ancora che essa si tramuti in atto. Invece di piombare sul pallone, i difensori irlandesi lo aspettano quasi arretrando, mentre i centrocampisti alle sue spalle, anziché falciarlo, restano a distanza di sicurezza, quasi avessero paura di venire umiliati a loro volta, forse consapevoli che non c’era già più niente da fare, o magari genuinamente incuriositi, desiderosi di vedere cosa avrebbe combinato. La Nazionale spagnola vincerà quella partita e il torneo, andando a completare l’incredibile tripletta di vittorie che l’ha fatta entrare nel novero delle squadre più forti della storia.
Un colpo da biliardo su un campo da calcio, semmai ce n’è stato uno
Perciò David Silva giocatore prolifico, generoso, longevo e pure vincente. E allora perché, mi chiedo, il suo nome non salta quasi mai fuori, quando si parla dei migliori? Perché ci si ricorda di lui sempre con quell’attimo di ritardo, lo stesso che condannava i suoi avversari quando abboccavano ai suo movimenti? Per l’aver dovuto condividere la scena con mostri del calibro di Xavi e Iniesta? Per essere stato la ghiandola pineale del City degli sceicchi per così tante stagioni? Potrei continuare a lungo, senza però trovare una risposta a questa domanda. Forse la verità, più che nel mezzo, qui sta a lato, in quel ventaglio di considerazioni che sfociano nella più personale delle soggettività. Tra le quali: possibile che la costanza di Silva nello sfoderare prestazioni di alto livello abbia anestetizzato la nostra capacità di meravigliarci? Siamo stati viziati? Lo abbiamo dato per scontato? Lo abbiamo erroneamente scambiato per una figurina in una squadra di figurine, specie prima che queste figurine si animassero e iniziassero a vincere?
Interrogato su quale fosse il suo posto nella storia della letteratura, lo scrittore William Somerset Maugham definì sé stesso «uno dei primi nella fila dei secondi». Credo che questa frase, per quanto ingenerosa verso il talento tout-court di David Silva, esprima bene il posto che il calcio ha voluto riservargli nelle sue mai giuste o definitive gerarchie. Che è un po’ la sorte di chi è chiamato a essere l’uomo dietro gli uomini dietro le quinte. La descrizione che difatti restituisce con maggior giustezza il ruolo e il valore di Silva l’ha fornita Xavi, quando disse che è «la pietra angolare della Nazionale spagnola». La pietra angolare è quella che idealmente regge l’intera struttura, ed è tanto fondamentale quanto non appariscente. Del resto, di una cattedrale si fotografano le torri, il rosone, la guglia. Non certo le basi. Ma senza di esse, le altre parti non potrebbero godere dell’altezza, del contatto con il cielo, degli sguardi degli osservatori. Allo stesso modo, fuor di metafora, l’apporto di David Silva in fase di costruzione non si limitava all’assist da highlights o al dribbling compassato, ma si estendeva e copriva anche quei passaggi atti a innescare la manovra, capaci di dare il via all’azione che porta al gol. E l’efficacia di queste sue giocate tamponava quei momenti di blackout o infertilità, anche lunghi, nei quali talvolta incappava.
Ma quando l’efficacia da sola non era sufficiente, ecco allora ricomparire la bellezza. Inaspettata, identitaria, rasente la genialità. C’è un assist che ai miei occhi è un manifesto della sua poetica, per quanto David Silva, pur avendo dalla sua il senso estetico che unisce artisti, musicisti e letterati, era tutto fuorché poetico, quando con geometrica precisione stoccava palloni poi fatali per le sorti degli avversari, assist o gol che fossero. L’assist in questione è quello contro il Bournemouth, in una giornata d’inizio aprile 2016. Silva ruba palla sulla trequarti e triangola con Agüero, che a sua volta lo riserve nel cuore dell’area con uno scavetto. Silva, in corsa e circondato da quattro avversari, potrebbe far scorrere la palla, accompagnarne la discesa con il destro finanche calciare al volo, ma decide invece di girarla col mancino, fuori area, verso un galoppante Kevin De Bruyne, che non ha problemi a piazzarla in rete con un piatto secco. Non l’assist più bello o difficile che Silva abbia mai fatto, ma pieno come pochi della sua intelligenza, della sua capacità di operare scelte controintuitive, di quel talento che era anche istinto.
Gli occhi dietro la testa
E proprio seguendo il suo istinto, Silva riusciva a dominare le pulsioni più banali, come il narcisismo tipico dei passatori seriali, bisognosi di specchiarsi nel gol del compagno, e quindi tendenti a forzare la giocata altruista. Quando c’era bisogno, sapeva andare in porta. E sapeva andarci anche da solo. Il suo primo gol in Premier League, segnato contro il Blackpool, è un trionfo d’individualismo. Silva riceve palla sull’angolo destro dell’area, finta un’apertura di sinistro, l’avversario abbocca, Silva rientra e avanza, poi slalomeggia di nuovo a destra per evitare la scivolata di un secondo difensore, e infine conclude con un tiro a giro sul palo più lontano.
Da allora è passata una vita, una carriera, anche se per Silva, in termini di prestazioni, per quanto suoni banale scriverlo, il tempo è sembrato non passare. Gli unici segni impressi da quest’ultimo, quasi a ribadire il controllo che il giocatore ha sempre esercitato sul proprio destino, è stato lo stesso Silva a lasciarli emergere. Come quando si è rasato i capelli a zero e si è lasciato crescere la barba, o quando è andato a svernare in Spagna, alla Real Sociedad, dove ha comunque continuato a vincere e incantare. Fino al crac di qualche giorno fa.
Quindi, che cosa è stato e che cosa ci lascia David Silva? Qual è l’eredità di quello che è stato sì un giocatore eccezionale, ma anche un campione sottovalutato? Al di là degli assist, dei gol, dei trofei e dei numeri, di David Silva ci rimarrà la sua contundente levità, ossia una bellezza capace di ferire. Un po’ come l’infinito, un po’ come lo spazio – dell’universo, del campo da gioco – che Silva riusciva come pochi altri a dominare.