Anche l’Islam ha un peso importante nel calciomercato faraonico dell’Arabia Saudita

I soldi sono il motore di tutto, ovviamente. Ma ci sono altri aspetti da considerare.

In una delle tante interviste rilasciate nelle ultime settimane da giocatori che militano o che si sono trasferiti nella Saudi Pro League, Odion Ighalo – attaccante ex Udinese e Manchester United – ha detto che «qui si viene a giocare per soldi, non per passione». Quello di Ighalo è stato un evidente slancio di verità e di realismo, ma la realtà è inevitabilmente più complessa. Nel senso: la consistenza degli stipendi è stata, e sarà il motore di tutto, esattamente come avviene nel calcio europeo. E quelli offerti in Arabia Saudita sono completamente fuori mercato. Ma ci sono anche altri aspetti che vanno considerati, se vogliamo guardare la situazione dal punto di vista dei giocatori. Si tratta di aspetti certamente laterali, ripetiamo ancora che tutto parte e finisce con i soldi, ma che meritano di essere raccontati, spiegati, valutati. E allora ecco un’altra dichiarazione significativa rilasciata da Karim Benzema, che si è trasferito da poche settimane a Gedda, per giocare con l’Al-Ittihād: «Qui è dove voglio essere. Per me è importante vivere in un paese musulmano, dove sento che le persone (sono) già come me. Mi permetterà di avere una nuova vita rispetto all’Europa».

L’ambizione politica, nell’ideazione e nell’attuazione del piano con cui l’Arabia Saudita vuole dominare il calcio, ha un peso enorme. Anzi, si può dire che l’idea di posizionarsi in un certo modo sia il motivo principale per cui sono stati stanziati dei fondi praticamente illimitati nella crescita della Saudi Pro League, per cui è stato acceso il motore di tutto. La religione, in tutto questo, ha un suo peso. E lo si capisce in modo chiaro scorrendo la lista dei calciatori che hanno accettato le offerte arrivate dall’Arabia Saudita: N’Golo Kante, Edouard Mendy, Kalidou Koulibaly, Seko Fofana, Moussa Dembele, Riyad Mahrez e Sadio Mané sono tutti musulmani. Certo, qualcuno potrebbe rispondere che i vari Cristiano Ronaldo, Milinkovic-Savic, Malcom e Ruben Neves non appartengono alla religione islamica, e sarebbe una risposta intelligente. Ma il punto, come racconta The Athletic in questo articolo, è che la famiglia reale di Riyad vuole mettere sotto contratto i migliori giocatori del mondo. Non è un requisito fondamentale, ma è ancora meglio se si tratta di giocatori musulmani.

Per i musulmani, quindi, giocare in Saudi Pro League è un’occasione enorme. Ma esercita anche un altro tipo di attrazione, oltre a quella economica: l’Arabia Saudita è un Paese dove tutto ciò che si fa – e che si pensa, e che si dice, e che si produce – è inevitabilmente legato alla religione. Erkut Sogut, avvocato sportivo e procuratore calcistico che segue diversi giocatori, tra cui il musulmano Mesut Özil, ha spiegato che «un musulmano praticante ha i suoi vantaggi a giocare in Arabia Saudita: se prega cinque volte al giorno, se ci tiene a mangiare soltanto cibo Halal, vivere in un ambiente profondamente religioso può essere determinante». E poi ci sono diversi aspetti logistici piuttosto importanti: in Arabia Saudita è nato l’Islam e si trovano La Mecca e Medina, città sante in cui i musulmani sono costretti e/o invitati a recarsi in pellegrinaggio; durante il Ramadan, anche i club si adattano a ritmi di vita e orari completamente diversi, gli allenamenti si svolgono di notte e anche le partite vengono giocate a orari comodi; anche gli stadi sono dotati di spazi per le preghiere, o comunque si trovano vicino a delle moschee.

Un altro aspetto da tenere in considerazione riguarda il contesto socioculturale. Nell’articolo di The Athletic, in questo senso, le frasi più significative sono quelle rilasciate dette Moussa Marega, attaccante che gioca all’Al Hilal dal 2021 e che durante la sua esperienza al Porto è stato vittima di abusi razzisti: «Avrei potuto andare in un club di un altro paese europeo, ma ho preferito trasferirmi in un altro continente dopo quello che mi è successo in Portogallo. Il mio agente mi ha chiamato e mi ha detto che c’era un’offerta dall’Arabia Saudita. Una o due settimane prima avevo parlato con mia moglie proprio di questa possibilità, cioè di trasferirci in un Paese musulmano, e così abbiamo deciso di accettare». Questa identificazione può avvenire e avviene anche nella direzione contraria: i tifosi si sentono maggiormente rappresentati quando il loro club acquista un musulmano praticante. Oltre i budget stratosferici, insomma, c’è anche qualcos’altro di cui tener conto. Certo, tutto va contestualizzato, e l’Arabia Saudita resta uno stato in cui non tutti i diritti umani sono pienamente rispettati, per usare un eufemismo. Però, ecco: banalizzare un’emigrazione calcistica parlando di soldi, soltanto di soldi, è un po’ superficiale. Non è un errore, ma non basta.