L’addio di Mancini è un salto nel buio per la Nazionale

L'Italia calcistica è di nuovo di fronte a un bivio: senza Mancini, si riparte da nuove, e troppe, incertezze.

Roberto Mancini ha lasciato la Nazionale, e tutti ci chiediamo il perché. Un fulmine a ciel sereno, di quelli che spiazzano, scatenano quesiti, persino tra le più alte cariche governative: «Sono dispiaciuto e perplesso, è una decisione che arriva a sorpresa a Ferragosto: tutto molto strano», ha commentato il ministro dello Sport Andrea Abodi. Appena una decina di giorni fa, la riorganizzazione dello staff della Nazionale, con Alberto Bollini, fresco di vittoria dell’Europeo Under 19, designato vice, e lo stesso Mancini chiamato a ricoprire il ruolo di coordinatore del settore azzurro, fino all’Under 20. Indice di una continuità progettuale nel segno del ct campione d’Europa nel 2021, che ancor prima della memorabile finale di Wembley aveva rinnovato con la Nazionale fino al 2026, in pratica fino al Mondiale nordamericano.

Tutto questo è svanito con una mail mandata in una serata estiva, con la Federcalcio che non ha potuto che prendere atto della decisione del ct e ringraziarlo per “una significativa pagina di storia degli Azzurri”. Di certo, come suggeriva Abodi, sono le tempistiche a far rumore: tra circa 25 giorni, l’Italia è chiamata a un doppio impegno contro Macedonia del Nord e Ucraina, un viatico cruciale per rimanere aggrappati al treno che porta al prossimo Europeo. La Nazionale ha giocato finora due partite del girone, vincendone una (Malta) e perdendone un’altra (Inghilterra): la situazione è ancora sotto controllo, con sei partite ancora da giocare, ma un eventuale passo falso nella sosta di settembre – in particolare contro l’Ucraina, che al momento ci precede al secondo posto, con tre punti di vantaggio – potrebbe complicare e non poco le cose in ottica qualificazione.

Più in generale, l’addio di Mancini sa di occasione persa: quella di ricostruire un gruppo, di rigenerare un movimento che, lo sappiamo, ha vissuto fin troppi alti e ancora più bassi negli ultimi anni. Forse la spinta propulsiva del ct si era esaurita dopo il flop contro la Macedonia, costata la qualificazione ai Mondiali 2022, forse all’orizzonte Mancini non vedeva la possibilità di costruire qualcosa di importante dopo la vittoria dell’Europeo. Forse, semplicemente, dietro quei “motivi personali” c’è un’offerta importante (leggasi: Arabia Saudita). Ma il 2023 dell’Italia, un inevitabile momento di transizione tra ciò che è stato e ciò che sarà, rimane appeso all’incertezza.

Il corso di Mancini da ct è durato 61 partite, un numero importante: così tante panchine, da parte di un solo ct, non si vedevano addirittura da Enzo Bearzot, che ne aveva collezionate 88. Più recentemente, Cesare Prandelli aveva sfiorato le 60, e da lì erano partite le paturnie della Nazionale: un Mondiale fallimentare, come quattro anni prima, il breve e promettente interregno di Conte, coinciso però con un’Italia con poche certezze tecniche, il disastro Ventura, e quindi Mancini. Che era stato un’improvvisa boccata d’aria fresca, anche grazie a una serie di 37 risultati utili consecutivi.

Mancini ha restituito molto alla Nazionale, ben oltre la vittoria dell’Europeo: gioco, carattere e spirito di gruppo. È stato il condottiero di un’Italia che dà il meglio di sé quando nessuno se l’aspetta. Non è semplice passare, nel giro di quattro anni, dall’essere esclusi da un Mondiale per la prima volta in sessant’anni al tornare sul tetto d’Europa, lanciando giocatori che con la Nazionale sono diventati importanti – da Di Lorenzo a Chiesa, da Spinazzola a Locatelli. Quella stessa capacità di innovare, di guardare avanti e di costruire un progetto capace di aggiornarsi di volta in volta è sembrato esaurirsi proprio con la finale di Wembley, e da Wembley, questa volta per la Finalissima contro l’Argentina, un anno più tardi, è cominciata un’altra fase: di stanca, di stagnazione. Certo, c’era stata la Macedonia già qualche mese prima: ma quello che poteva essere ridotto a un episodio sfortunato, seppur traumatico, è diventato con l’andar del tempo una spia d’allarme permanente. L’idea di rinnovamento si era già esaurita.

L’ultimo anno di Mancini da ct non ha colpito nel segno: sono arrivate le note positive, come Gnonto, qualche scommessa lanciata, come Retegui, più alcuni giocatori chiamati a rappresentare il futuro a lungo termine della Nazionale, da Dimarco a Frattesi a Scalvini. In un certo senso, però, la Nazionale è sembrata navigare a vista, senza un entusiasmo che sarebbe dovuto arrivare dal basso e che Mancini avrebbe dovuto incoraggiare. Il ruolo di plenipotenziario, con una supervisione anche sulle Nazionali giovanili, forti degli importanti risultati estivi (oltre alla vittoria dell’Under 19, anche l’argento mondiale dell’Under 20), avrebbe dovuto rappresentare un modello innovativo per saldare la Nazionale del futuro.

Probabilmente, Mancini non ha visto le potenzialità giuste per farlo, mettendo il nostro movimento di fronte a un interrogatorio così lancinante: come è possibile che l’Italia giovanile faccia così bene, ma non riesca a trasferire quel dna vincente tra i grandi, Under 21 compresa? Il travaso di giovani c’è, avviene su più livelli, ma l’impressione è che gli step di crescita, a un certo punto, vengano meno – e di certo, in questo caso, c’è un discorso che tocca da vicino anche i club. L’addio del ct è un segnale di resa, non tanto personale quanto di intero movimento: l’Italia vive di fiammate episodiche, di cicli che si aprono e si chiudono alla velocità della luce, mai con progetti di ampio respiro.

E così oggi, nel bel mezzo dell’estate, con impegni delicati nei prossimi mesi (già a novembre si chiude il girone di qualificazione per Euro 2024), l’Italia si trova senza una guida tecnica. Ma la scuola di allenatori è talmente ricca e florida, con top tecnici al momento liberi (Spalletti e Conte su tutti), che ovviare al problema non sembra un’impresa. Sarà più complicato, se non addirittura utopico, costruire una Nazionale che possa essere competitiva non nell’immediato, ma nel medio-lungo termine, sottintendendo quell’idea di riciclo e di ricambio che ogni Paese deve abbracciare per poter competere di volta in volta. Pensavamo che Mancini ci sarebbe riuscito, ma così non è stato. In attesa del prossimo ct, l’Italia calcistica fa i conti con l’ennesimo salto nel buio.