La Spagna campione del mondo è un’impresa storica per il calcio femminile

Una vittoria costruita negli anni, e che è arrivata nonostante le polemiche tra squadra, commissario tecnico e Federazione.

Dopo la vittoria in finale per 1-0 contro l’Inghilterra, praticamente tutti i giornali sportivi del mondo erano concordi: la Spagna campione del mondo femminile era un evento difficile da pronosticare. Per diversi motivi. Il primo, più semplice e immediatamente comprensibile, è quello che riguarda la storia e la tradizione del movimento iberico: la Roja si è qualificata al suo primo Mondiale nel 2015, e fino a un mese fa aveva vinto una sola partita della fase finale del torneo iridato; inoltre, la sua unica semifinale europea risale al 1997 – un’era praticamente preistorica per l’intero calcio femminile – e non più tardi di un anno fa, nell’ultima edizione del trofeo continentale, la distanza con Inghilterra e Germania sembrava ancora piuttosto ampia. La seconda considerazione da fare, più complessa ma anche più rilevante, riguarda i clamorosi dissidi interni che sono esplosi negli ultimi mesi: anche se sembra incredibile a dirsi, la Spagna ha vinto il Mondiale guidata da un commissario tecnico sfiduciato dalle sue stesse calciatrici – non tutte, ma una buonissima parte. Lo strappo dello scorso autunno è stato solo parzialmente ricucito, eppure il successo in Australia è parso giusto, meritato, coerente con ciò che si è visto in campo. Come dire: a volte la progettualità e la pura qualità riescono a essere più forti dei contrasti personali, delle dinamiche tossiche e persino delle lotte politiche che si manifestano all’interno di una Nazionale di calcio, un ecosistema ampio e variegato non solo dal punto di vista sportivo.

Il punto è proprio questo: dietro il successo della Spagna c’è un lavoro portato avanti negli anni, c’è un programma articolato e che aveva già dato i suoi primi frutti. Dei frutti pure abbastanza rigogliosi: lo scorso anno, infatti, il Mondiale Under 17 e quello Under 20 sono andati proprio alle rappresentative spagnole di categoria. Insomma, questa e le prossime generazioni sono state allevate – anzi: letteralmente costruite – per vincere. Grazie a investimenti mirati, continui e intelligenti. E, incredibile ma vero anche questo, grazie anche a un’altra guerra politica vinta dalle giocatrici. Fino a pochissimi anni fa, infatti, il movimento femminile spagnolo era «un vero disastro», per citare le parole usate da Deadspin: nel 2015, infatti, la RFEF (acronimo di Real Federación Española de Fútbol)  spendeva soltanto l’1% del suo budget per le donne, e l’intero sistema era guidato dal solo Ignacio Quereda, ct della Nazionale. Poi però le cose sono cambiate: in una lettera aperta, le giocatrici attaccarono duramente Quereda, fino a quel momento intoccabile per i vertici della Federazione, e così ne provocarono l’esonero dopo 27 anni di reggenza, un altro dato che in qualche modo testimonia quanto sia stato influente – e quindi politicamente protetto – al di là dei risultati ottenuti. Quereda, inoltre, era stato criticato anche per i suoi atteggiamenti: Vero Boquete, giocatrice-simbolo della Spagna degli anni Duemiladieci e attualmente in forza alla Fiorentina, spiegò che «Ignacio è come un capo che ti disprezza». Altre giocatrici, prima e dopo di lei, raccontarono la sua tendenza a «non saper accettare il contraddittorio» e a «non convocare le giocatrici che si opponevano al suo controllo, al suo potere».

L’addio di Quereda, contestualmente agli investimenti dei grandi club professionistici – Barcellona, Real Madrid e Ahtletic Clúb su tutti – nelle squadre femminili, ha dato un grande impulso al movimento. Anche perché il modello spagnolo che, negli anni Duemila, aveva determinato le vittorie colte dalle squadre di Liga e dalle Nazionali maschili, è stato praticamente copincollato per quelle femminili. Ed è così, grazie al lavoro fatto sulle nuove giocatrici – secondo le stime, le nuove tesserate sono addirittura quadruplicate tra il 2013 e il 2018 – a partire dalle formazioni giovanili, che è stata coltivata una generazione di qualità sublime. Non a caso, viene da dire, il Barcelona Femenino ha vinto due delle ultime tre edizioni della Champions League e ha 17 spagnole nella rosa. Nel frattempo, poi, la Liga Femenina è diventata un campionato professionistico a tutti gli effetti.

Come anticipato, però, tutto questo processo sembrava destinato a implodere a causa della crisi interna alla Nazionale maggiore. In particolare, i rapporti triangolari tra la squadra, la Federazione e il nuovo commissario tecnico si sono deteriorati in pochissimo tempo: il successore di Quereda, Jorge Vilda, è stato accusato di avere un atteggiamento dittatoriale nei confronti delle sue giocatrici, fino al punto di perquisire le loro borse e di limitare la loro libertà di movimento nel corso dei ritiri; inoltre, le calciatrici stabilmente convocate hanno lamentato «una scarsa preparazione professionale nella gestione della squadra, nella preparazione delle partite e delle trasferte internazionali». Il malcontento è esploso nell’autunno scorso: 15 calciatrici (Guijarro, Bonmati, Leon, Caldentey, Panos, Pina, Gallardo, Moraza, Eizagirre, Sarriegi, Garcia, Batlle, Ouahabi, Aleixandri e Pereira) hanno inviato una mail identica in cui dicevano di non voler più essere chiamate in Nazionale fin quando Vilda non si fosse dimesso; anche altre giocatrici, tra cui il Pallone d’Oro in carica Alexia Putellas e Jennifer Hermoso, hanno sostenuto la protesta. La Federcalcio, però, ha confermato Vilda e ha cercato una mediazione politica con le dissidenti, quasi tutte tesserate per il Barcellona – mentre nessuna giocatrice del Real Madrid ha inviato la mail o espresso sostegno alle loro compagne.

Alla fine Vilda è riuscito ad arrivare ai Mondiali, ha convocato sei delle quindici rivoltose (Putellas, Paredes, Hermoso, Bonmati, Caldentey e Batlle) e ha centrato un successo storico. Grazie soprattutto all’immensa qualità tecnica delle sue giocatrici, delle vere incantatrici di serpenti in grado di ipnotizzare tutte le avversarie – tranne il Giappone, vincitore per 4-0 contro la Roja nella fase a gironi – con un possesso raffinato e stordente. Il tutto rinunciando quasi sempre a Putellas, reduce da un grave infortunio, e affidando le chiavi del centrocampo a Aitana Bonmatí, 25enne regista che ha impressionato tutti, persino Pep Guardiola: «Sono calcisticamente innamorato di lei», ha detto il manager del Manchester City. Anche Salma Paralluelo (attaccante classe 2003 del Barcellona), Olga Carmona (autrice dei gol decisivi in finale e nella semifinale contro al Svezia) e il portiere Coll sono state decisive, si sono prese la scena che doveva essere di Putellas e Jenni Hermoso, veterane che hanno dato un contributo meno significativo rispetto alle attese della vigilia.

In Spagna, come succede nei periodi di pace armata, tutti ora festeggiano un titolo mondiale dal valore e dal significato enormi, dal punto di vista tecnico, politico ma anche progettuale. A dirlo – più o meno tra le righe – è stata Lucy Bronze, giocatrice-simbolo dell’Inghilterra sconfitta in finale, attualmente tesserata per il Barcellona: «Qui in Spagna ci sono tante giocatrici che sembrano tutte cloni l’una dell’altra, sono straordinarie, sono tecniche e intelligenti». Insomma, il futuro del calcio femminile sembra appartenere di diritto alla Spagna. Ora, a dirlo, è anche l’albo d’oro dei Mondiali.