Luciano Spalletti è davvero la scelta perfetta per la Nazionale?

Il nuovo ct si presenta con un credito enorme, a livello tattico ma anche emotivo.

Le dimissioni improvvise – salvo poi scoprire che tali non erano – di Roberto Mancini da ct della Nazionale hanno generato un curioso paradosso spazio-temporale: in condizioni normali, una situazione del genere sarebbe potuta diventare l’ultima polaroid di Gabriele Gravina da presidente federale, anche perché rischiava di generare il consueto clima da fine del mondo imminente alla vigilia dei due fondamentali impegni di settembre contro Macedonia del Nord e Ucraina. E invece Gravina, un anno e mezzo dopo il disastro di Palermo proprio contro i macedoni, non solo ne è uscito: lo ha fatto alla grande, alla grandissima, visto che negli ultimi trent’anni nessun commissario tecnico aveva raccolto così tanti consensi e così tanti attestati di stima ancora prima di essere assunto ufficialmente. Luciano Spalletti, quindi, è diventato l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto, la soluzione di Gravina al problema chiamato “qualificazione al Mondiale 2026”, la mossa che gli garantisce un ulteriore credito nei confronti di chi stava già cominciando a tracciare i bilanci del disastroso biennio post Europeo, magari con l’intenzione di presentargli il conto a breve termine.

Si capisce, perciò, perché il presidente federale abbia insistito così tanto, e con così tanta convinzione, per avere fin da subito l’allenatore campione d’Italia. Fino al punto di dover fare i conti con le conseguenze più o meno indirette di una lunga e malmostosa querelle legale con Aurelio De Laurentiis, che ha costretto anche Spalletti a sottostare a quelle clausole contrattuali che, citando Faouzi Ghoulam, «valgono in tutto l’universo». Spalletti non solo era il meglio disponibile su piazza, ma è anche la risposta tipicamente italiana a ogni crisi di sistema che si rispetti: la personificazione della convinzione per cui tutto possa essere risolto dall’uomo forte e solo al comando, dal nuovo allenatore che si assuma oneri, onori e responsabilità – sue, ma anche degli altri – e che prenda decisioni impopolari ma necessarie, che faccia tutto ciò che quelli venuti prima di lui non hanno avuto la forza e il coraggio di fare. 

Al di là delle letture politiche e dei retroscena che sono alla base di uno scenario che nessuno sarebbe stato in grado di ipotizzare anche solo una settimana fa, la nomina di Spalletti porta con sé delle logiche emotive, comunicative e di campo che hanno finito con l’avere un peso decisivo nella decisione di prendere lui e non Antonio Conte. Anche il ritorno di Conte avrebbe avuto una sua linearità, per via di quel senso di meravigliosa incompiutezza lasciato dall’avventura interrotta dopo l’Europeo 2016, un percorso che a tratti si era rivelato persino esaltante: «La voglia di allenare c’è sempre, altrimenti mi dovrei guardare dentro e pensare di non fare più questo mestiere. Comunque non avverto il bisogno spasmodico di una panchina. Però se dovesse capitare qualcosa di importante e serio lo prenderei in considerazione: cerco qualcosa che mi dia uno stimolo, sia in Italia che all’estero», ha dichiarato Conte poco dopo essere stato esonerato dal Tottenham, quando sembrava che il ruolo di ct fosse la scelta ideale per lui, alla ricerca di un approccio lavorativo meno ossessivo e tremendista. 

E invece la Figc ha preferito andare su un usato per certi versi ancor più sicuro, ingaggiare quello che è diventato il miglior allenatore d’Italia, in un momento della vita e carriera in cui la Nazionale, per Spalletti, rappresenta un’ideale chiusura del cerchio, un premio all’etica del lavoro, il definitivo riconoscimento di una dimensione tecnica e umana che lo scudetto vinto da e con il Napoli hanno restituito in tutta la loro grandezza: «Io oramai ho 63 anni, sono stato un calciatore scarso e un allenatore scarso. Però mi sono sempre fatto il mazzo dalla mattina alla sera e qualche volta ho vinto contro allenatori più forti. Quando vedo calciatori che hanno qualità e non ci mettono impegno per completarla con l’allenamento mi girano», disse a settembre 2021 dopo una vittoria per 2-0 contro il Cagliari.

Negli ultimi anni Spalletti si è dimostrato uno degli studiosi del gioco più attenti e innovativi, un allenatore aperto alle contaminazioni e agli spunti provenienti dall’estero, poi rimodulati sulla base del materiale tecnico e umano che ha avuto a disposizione di volta in volta: la difesa a “tre e mezzo” vista nelle due stagioni all’Inter, i “terzini-mezzali” del biennio partenopeo, un’accentuata tensione verticale nella risalita del campo per vie centrali, sono tutte soluzioni che Spalletti ha adottato andando ogni volta oltre se stesso e le sue convinzioni, dimostrando una capacità di adattamento ed evoluzione non comune e non scontata, soprattutto se si tiene conto della sua età e delle diverse ere calcistiche che ha attraversato – a marzo 2024 compirà 65 anni, nel bel mezzo della stagione in cui ricorrerà il trentennale della sua prima esperienza in panchina con la squadra primavera dell’Empoli. «Che il calcio sia facile è qualcosa che sanno dire tutti. Oggi c’è bisogno che si dica qualcosa di diverso perché dobbiamo poter scegliere se il calcio è davvero facile e basta o se invece deve diventare qualcosa di più moderno, come succede in tante altre professioni. In questo senso bisogna portarsi dietro le cose fatte da gente come Vialli, Mancini, Baggio, Del Piero e Totti, ma poi c’è da considerare anche il lavoro di altri calciatori che non avevano questa qualità ma dovevano ottenerla con il lavoro e l’applicazione quotidiana. Per questo bisogna spiegare come hanno fatto quelli senza queste qualità a farcela e se c’è dell’altro in più da poter mettere a disposizione dei giovani». ha detto poco più di un mese e mezzo fa in un’intervista a Sky quando ancora parlava della necessità di prendersi un periodo di pausa.

Si tratta di un dettaglio significativo in previsione del fatto che, almeno all’inizio, sarà necessario lavorare nel solco che Mancini era riuscito a tracciare – almeno fino al gol di Trajkovski – per ciò che riguarda principi di gioco, riconoscibilità tattica, fiducia nel sistema. In questo senso, chiedersi cosa bisogna aspettarsi dallo Spalletti ct significa chiedersi quanto tempo occorrerà prima che riesca a prendere le redini mentali di un gruppo che ha smarrito tutte quelle certezze che avevano reso possibile il trionfo di Wembley. Da questo punto di vista il lavoro di Spalletti-psicologo assume un’importanza persino superiore rispetto a quella dello Spalletti-tattico, e non solo perché nel suo nuovo ruolo dovrà per forza di cose rimodulare il lavoro di campo attraverso una quotidianità diversa e limitata per ciò che riguarda il contatto diretto con i giocatori: nell’ultimo anno e mezzo l’Italia ha perso, per motivi e circostanze diverse, due bussole emotive fondamentali come Gianluca Vialli e Daniele De Rossi, ed era perciò necessario restituire all’ambiente qualcuno che avesse uguale ascendente e credibilità, un personaggio che fosse in grado di vendere a tutti, di nuovo, quell’idea di coesione e unità d’intenti che da sempre accompagna i grandi cicli vincenti degli azzurri.

Senza contare che, mai come oggi, Spalletti è l’unico in grado di rompere con il recente passato, soprattutto per ciò che riguarda la necessità di una rivoluzione tecnica del parco giocatori. Come tutti i ct che hanno vinto prima di lui, anche Roberto Mancini a un certo punto è sembrato vittima della gratitudine e della riconoscenza verso coloro che gli avevano regalato il successo che vale una carriera, e quindi ha finito con il ritardare un ricambio generazionale che non era e non è più rimandabile: l’ostracismo verso Udogie e Parisi, la riluttanza all’inserimento in pianta stabile di Tonali e la difficoltà a fare a meno di Verratti e Jorginho nonostante entrambi siano in fase calante sono tutte questioni che Spalletti gestirà come al solito, cioè senza la paura di fare ciò che va fatto, senza guardare in faccia a nessuno. Che poi è ciò che è accaduto a Roma con Totti, a Milano con Icardi, a Napoli con Insigne e Mertens, con la sostanziale differenza che stavolta avrà davvero tutti dalla sua parte, anche mediaticamente e almeno nei primi mesi, quando cioè la voglia di novità e cambiamento aiuterà con quelle cesure che altrimenti sarebbero troppo dolorose e difficili da accettare.

Luciano Spalletti ha vinto otto trofei nella sua carriera da allenatore: lo scudetto col Napoli, due campionati russi con lo Zenit, due Coppe Italia con la Roma, una Coppa di Russia (sempre con lo Zenit), una Supercoppa italiana, una Supercoppa di Russia e una Coppa Italia di Serie C, sulla panchina dell’Empoli (Maja Hitij/Getty Images)

Ed ecco, quindi, come il corollario legato alla comunicazione e alla narrazione diventa la sfida più interessante che il nuovo ct dovrà affrontare, forse ben più della velocità con cui riuscirà a trasmettere le sue idee di gioco a un gruppo che si ritrova insieme poco più di cinque volte l’anno e per un numero limitato di giorni. Spalletti ha costruito parte del suo personaggio attraverso una retorica dell’uomo contro che si è sostanziata nell’esigenza di viaggiare per conto suo, di porsi al di fuori di quelle categorie tecniche e umane che potessero essere accettate da tutti, soprattutto quando si è trattato di gestire l’umoralità e la frenesia di quelle piazze in cui la passione si auto-alimenta attraverso il confronto/scontro quotidiano con giocatori e allenatore. 

Da commissario tecnico, quindi da uomo prima ancora che allenatore super partes, Spalletti dovrà smussare ulteriormente gli spigolo del suo carattere e rendere più istituzionale e accondiscendente la sua comunicazione, in particolare nel momento in cui dovrà far passare i due messaggi più importanti della sua gestione: il primo è che non bisogna aspettarsi a tutti i costi una Nazionale formato Napoli, perché il lavoro da fare, i giocatori a disposizione e le competizioni da affrontare sono qualcosa di nuovo e di diverso anche per lui; il secondo è che ci vorranno tempo e pazienza perché questo nuovo progetto prenda una sua forma e una sua direzione definitiva, distaccandosi, anche solo parzialmente, dalla visione demiurgica del ct che arriva e risolve tutti quei problemi endemici e strutturali che hanno finito con il fagocitare il suo predecessore.

Una visione che, però, sembra collimare con la frase più celebre di Spalletti, il motivo per cui ambiamo imparato ad apprezzarlo così tanto, il segno distintivo della sua filosofia di vita e di calcio a metà tra il meme e la dichiarazione d’intenti: «Uomini forti, destini forti. Uomini deboli, destini deboli. Non c’è altra strada». Anche per questo, forse, non era possibile fare una scelta migliore.