Il femminile di idolo

Un memoir su cosa vuol dire crescere essendo l'unica ragazza appassionata allo sport, al basket. Per poi ritrovarsi, riconoscersi e avere finalmente dei modelli femminili.

Il suono della campana d’uscita del mercoledì io e i miei compagni con cui condividevo la fissazione per il basket ci raggruppavamo nel cortile della scuola. Poi proseguivamo, come in una processione, verso l’edicola di piazza Abramo Lincoln, una delle piazze alberate del centro di Catania. Eravamo un gruppo di quattro o cinque dodicenni a cui piaceva trascorrere il tempo in piedi, davanti al retro vetrato dell’edicola, per osservare le nuove copertine di SuperBasket, che usciva ogni settimana in quel giorno. Erano i tempi di Basile, Myers e Pozzecco, che per un motivo o per l’altro si alternavano sulla copertina e ci permettevano di imparare i loro nomi a memoria, di legare questi nomi a dei volti, per poi, in occasione del compleanno, correre al primo negozio di sport per comprare le canotte della Nazionale con quei cognomi stampati sulla schiena.

Di quel gruppo che se ne stava in adorazione davanti alla vetrina impolverata di un’edicola io ero l’unica femmina, un’osservazione da cui oggi non può più prescindere nessuna delle considerazioni che faccio in campo sportivo, ma che allora per me, così come per i miei compagni, sembrava non avere nessun significato. Ero un’eccezione, ma ben accetta. Un diversivo a tratti piacevole, e anche un elemento su cui si poteva scaricare un po’ di crudeltà pre-adolescenziale senza le fastidiose conseguenze che poteva avere un’eventuale ribellione da parte mia. Io, infatti, non mi ribellavo mai.

E se giocando, durante un’azione d’attacco, il mio compagno di squadra preferiva dirigere il passaggio verso il prossimo maschio marcato stretto piuttosto che passare la palla a me, il pensiero che potesse avere a che fare con la mia femminilità scivolava sempre in secondo piano rispetto al fatto che quell’umiliazione mi avrebbe spinto a diventare più forte, a mostrarmi più affidabile. Anche perché non è che ci fossero poi molte alternative: ovunque guardassi, il mondo sportivo che mi ero scelta sembrava essere stato fatto su misura per loro, e non per me. Erano loro che settavano le regole, che selezionavano i compagni di squadra, che arrivavano al campetto della scuola con l’ultimo paio di Uptempo. Potevo oppormi e restarne fuori, oppure, in nome della pallacanestro, ammorbidire i contorni della mia identità per entrare nella forma approvata dalla maggioranza.

In ogni numero di SuperBasket c’erano anche cinque o sei pagine dedicate alla pallacanestro femminile, ma l’estetica retrò di quelle immagini mi faceva sembrare quel basket come una declinazione un po’ scadente di quell’altro sport dinamico e appassionate che giocavano i maschi. Spesso le foto della sezione femminile immortalavano donne alle prese con movimenti piuttosto statici, mentre nelle pagine del basket maschile gli uomini erano colti in un tiro in sospensione che li faceva levitare sulla pagina come un monaco immerso in una meditazione magica. Che cosa era accaduto nel campo sconfinato di possibilità di movimento che esistevano fra Gianmarco Pozzecco e Francesca Zara? Il basket che apparteneva a me, quello a cui dovevo e potevo ispirarmi, era rimasto a una fase arcaica, e a me non veniva nessuna voglia di andare in un negozio a comprarmi la canotta con il nome delle giocatrici sulla schiena. Eppure quelle figure bidimensionali di carta erano l’unica rappresentazione del basket giocato da donne adulte che conoscevo. Il basket maschile lo vedevo in televisione, e pure il calcio, visto che ogni due domeniche mio zio mi portava a vedere il Catania allo stadio Massimino. Lo sport fatto da maschi era ovunque, e si può dire persino che io ne avessi un certo tipo di accesso. Ma in quegli anni, poco più che una bambina, non mi sono mai domandata: ma le femmine dove sono? E a ben pensarci non c’erano nemmeno le ragioni per farlo.

A Catania, in quegli anni, non avevo mai visto una donna adulta giocare a calcio, e neppure a basket. C’erano le ragazze più grandi di me, le liceali che arrivavano in palestra con le Dr. Martens verde bottiglia, ma da loro non volevo imparare il ball handling, quanto i segreti di stile per piacere al figlio del gommista che aveva la sua officina vicino alla scuola. In fin dei conti al campetto mai mi aveva sfiorato l’idea che quel gioco potesse diventare, per me, una professione. Non conoscevo donne che giocassero a basket per lavoro. Uomini sì, ce n’erano copertine e trasmissioni televisive piene. Ma le cestiste con i capelli fonati e le pose paralizzate che vedevo sui giornali potevano essere al massimo delle zie, non certo la reificazione in carne e ossa della donna che avrei voluto essere io da adulta.

La prima volta che ho visto la cestista che volevo diventare è stato tre anni dopo. Io e la mia famiglia ci eravamo trasferiti a La Spezia e dopo due stagioni in una squadra provinciale più vicina a casa, il mio allenatore mi aveva spinto a fare un provino per andare a giocare nelle giovanili della Termomeccanica La Spezia, che a quel tempo militava in Serie A femminile. Dopo poche settimane le mie nuove compagne di squadra mi avevano invitata a vedere una partita della Serie A al Palasprint. Già nel riscaldamento fu sconvolgente la naturalezza con cui elessi quella che sarebbe stata la mia ossessione cestistica negli anni a venire; come se il mio organismo stesse covando quella necessità a mia completa insaputa. Meri Andrade era un’ala portoghese alta 180 centimetri che sulla linea del prolungamento del tiro libero, in fila con il resto della formazione prima del fischio d’inizio, stava con le gambe leggermente divaricate e le braccia incrociate dietro la schiena. In quella posa le sue spalle si allargavano, e andavano a occupare uno spazio di esistenza che io avevo immediatamente riconosciuto come il mio. Dopo quella volta ogni movimento che avevo ripetuto nella mia testa o dentro a un campo di basket era stato finalizzato per accorciare la distanza fra me e lei. Se avessi lavorato abbastanza duramente sarei diventata una piccola Meri: veloce come lei, potente come lei, e con la stessa capacità di calmare l’allenatore che urlava in panchina grazie all’imposizione di uno sguardo rassicurante. Quello di chi sa sempre cosa fare, per sé e per la squadra.

Il corpo di Meri Andrade aveva il pregio di aver lasciato la bidimensionalità del foglio di carta e mi aveva dimostrato che non c’era niente di male nell’occupare uno spazio con il proprio volume. Il corpo di Meri mi aveva spinta oltre i miei limiti, mi aveva portata a traslare me stessa nel futuro. È probabile che quella sia stata la prima volta in cui mi sono vista; la prima volta in cui tutte le domande che non mi ero mai fatta su chi avrei voluto essere come giocatrice, avevano comunque trovato una risposta esaltante. Una risposta che mi avrebbe finalmente permesso di incanalare tutte le mie energie nell’esercizio fisico che mi sarebbe servito per avvicinare la mia persona fisica ad almeno una di quelle dieci giocatrici che stavano in fila sul prolungamento del tiro libero.

Il basket femminile italiano è in difficoltà: la Nazionale maggiore stenta da anni, ma soprattutto il numero di tesserate ristagna a quota 20mila, superato da molti altri sport con meno tradizione.

Erano i primi anni del Duemila, da quel momento in poi ho trascorso gli anni della mia adolescenza fra queste donne. Le ho viste arrivare ad agosto e andare via a fine stagione verso altre squadre, piangere per una sconfitta cocente, sbattere gli asciugamani contro la panchina con violenza in preda ai raptus di frustrazione per certe partite che non vanno. Queste donne le ho osservate da vicino e da lontano, per anni ho imitato il loro lessico, il modo in cui si arrotolavano la gamba di un pantaloncino dentro alle mutande, le acconciature, ho cercato di intercettare il tempo metrico con cui scandivano un attacco uno contro uno o di contare i secondi in cui restavano in sospensione prima di lasciare andare la palla in aria con un tiro aggraziato. Molte cestiste e atlete della mia generazione hanno potuto osservare le loro mite soltanto stampate su un poster, immobili. Non le hanno mai viste piangere, o ridere dentro a uno spogliatoio. Chissà a quanti fraintendimenti ha portato questa consuetudine. Per molte di noi le atlete modello sono state lampi che hanno illuminato una singola notte olimpionica, per il resto ci siamo mosse nel buio con cautela, oppure abbiamo ripiegato ispirandoci ai maschi perché bastava accendere il televisore per vederne uno fare bene qualcosa che anche noi amavamo.

Io so di aver avuto fortuna. A volte ci penso e sorrido, tiro un sospiro di sollievo, provo tenerezza per l’adorazione indiscussa di cui è capace una ragazzina che nella vita vuole solo giocare a basket. Ma il passare degli anni non ha cambiato molto le cose. Ancora oggi può capitare che io dica o faccia qualcosa, fuori dal campo, e nella mia testa si materializza un’immagine da cui so che quel comportamento deriva. Queste immagini hanno i volti e i corpi di Meri Andrade, Imma Gentile, Penny Taylor, Nevriye Yilmaz, Ruthie Bolton, cestiste che mi hanno sollevato da terra più di una volta e di cui io adesso sento il dovere di portare avanti l’eredità nella mia vita da adulta. Anche fuori dal campo.

Da Undici n° 51