Il Paris Saint-Germain sta provando a diventare una squadra normale

Luis Enrique in panchina, una rosa più equilibrata, un'identità che va al di là ai giocatori che la compongono.

Le ultime due partite del Paris Saint-Germain, la vittoria in casa col Dortmund e la sconfitta – sempre in casa – contro il Nizza, nell’ultimo weekend di Ligue 1, dicono che il progetto di Luis Enrique è ancora in fase di rodaggio. Tutto normale, insomma, ed è questa la vera notizia. O meglio: sarebbe tutto normale se non si trattasse proprio del Paris Saint-Germain, cioè una squadra che negli ultimi dieci anni di normale, quindi di ordinario, consueto, regolare, non ha avuto praticamente niente. Contro il Nizza, per esempio, il Psg non è caduto per distrazione e indolenza – che pure ci sono state, in qualche misura – ma perché ha trovato di fronte un avversario capace di una prestazione semplicemente troppo grande, guidato da un Terem Moffi praticamente ingiocabile, che ha vinto la partita quasi da solo, con due gol e un assist e una sensazione di pericolo costante contro la difesa avversaria. È stata la prima sconfitta per Luis Enrique da quando è arrivato a Parigi, ma sommata ai due pareggi e alle due vittorie delle prime quattro giornate ha determinato l’avvio più lento della squadra da quando è stata acquistata dal fondo d’investimento Qatar Sports Investments. Poi però sono arrivate la Champions e la sfida contro il Dortmund, e così le cose sono tornate più o meno a posto: dominio territoriale infinito in un primo tempo finito 0-0, tante occasioni create, poi due gol nella ripresa. Niente di indimenticabile, certo, ma tutto abbastanza ordinario. In senso buono. E anche questa è una notizia.

Da quando è arrivato a Parigi, infatti, Luis Enrique si è imposto la missione di normalizzare una squadra che di normale non aveva granché. Una squadra che negli ultimi anni ha vissuto sul talento, sull’imprevedibilità in tutto e per tutto, sul genio dei suoi giocatori migliori, che erano i più geniali di tutti. Adesso l’allenatore asturiano sta gettando le basi per qualcosa di diverso, non sappiamo ancora quanto duraturo e stabile – perché c’è scritto sempre Paris Saint-Germain sullo stemma che compare sulla maglia – però qualcosa che abbiamo già visto da altre parti: la cattedrale che Johan Cruijff ha edificato a Barcellona e quella che Pep Guardiola sta replicando a Manchester sono due suggerimenti che devono aver solleticato la mente del tecnico asturiano. Ma bisogna fare un passo alla volta, a partire dal campo. Razionalizzare il Paris Saint-Germain vuol dire dargli prima di tutto un’identità tattica, una visione e un punto d’appoggio cui aggrapparsi nelle difficoltà di una partita e di una stagione.

Dopo 25 minuti della prima di campionato contro il Lorient, il Psg aveva il 97% di possesso palla. La partita poi si è chiusa con il PSG che ha superato i mille passaggi tentati, con il 78% di precisione, e con il risultato di 0-0 impresso sul tabellone luminoso del Parco dei Principi – nonostante i venti tiri tentati dalla squadra di casa. Luis Enrique sembra che voglia controllare il gioco attraverso il pallone addirittura più di quanto non facessero altre sue squadre in passato, la Spagna o l’ultimo Barcellona capace di fare il triplete, quello del 2014/15. Questo nuovo Paris Saint-Germain vuole proteggersi e colpire partendo dal possesso palla, vuole avere il controllo del ritmo, gestire i tempi e le accelerazioni, battere e levare in ogni partita. Non è detto che sia la versione definitiva del Paris Saint-Germain per come lo immagina Luis Enrique, non è detto che sia la versione più efficace possibile, ma assuefarsi al controllo del pallone in maniera quasi dispotica è probabilmente la prima necessità del tecnico per mettere la squadra sulle sue stesse frequenze.

È un’esigenza così importante, per lui, che i risultati di inizio stagione non pesano, non hanno alcun valore. È molto più importante il messaggio che arriva alla squadra. Luis Enrique è così ansioso di trasmettere le sue idee nel modo più rapido e accurato possibile che sta provando a imparare il francese non a un livello base per farsi capire, ma a uno più avanzato, per padroneggiare ogni sfumatura del linguaggio di campo, per stimolare i suoi giocatori nel profondo. E infatti non si può limitare a dotarsi di un traduttore: all’inizio del ritiro aveva deciso di registrare ogni conversazione con ognuno dei suoi giocatori durante le sessioni di allenamento, per poi assicurarsi che ogni istruzione venisse tradotta accuratamente in un secondo momento. «Non bisogna lasciare nulla di intentato mentre si cerca di condurre il Paris Saint-Germain nella tanto celebrata nuova era», ha scritto Peter Rutzler su The Athletic. «Luis Enrique è stato chiamato a cambiare la situazione, oltre a imprimere il proprio marchio sull’identità della squadra. L’avrebbe fatto alla sua maniera o niente, con i giocatori selezionati in base all’adattabilità alla sua filosofia tattica». 

La strada di Luis Enrique è quella che Luís Campos, da consulente sportivo, aveva iniziato a tracciare già un anno fa. Ma adesso bisogna costruire una nuova squadra, si deve ripartire quasi da zero, perché il primo tentativo del nuovo progetto tecnico iniziato con Pochettino non è finito troppo bene. L’obiettivo finale è inserire il Paris Saint-Germain all’interno dello stesso registro degli altri grandi club europei, certamente con le sue peculiarità e con le sue specificità, ma senza quell’aria di eccezionalismo e grandeur parigina che ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti – almeno negli ultimi anni, nella prima fase era fondamentale scalare rapidamente le gerarchie del calcio europeo. Adesso si sta per chiudere un’estate che segna la fine un’era per il Paris Saint-Germain, e quindi l’inizio di una nuova. Partito Messi, che era il culmine dell’epoca precedente, partito Neymar che ne rappresentava il volto, partito Verratti, che era il simbolo immanente, il Paris Saint-Germain ha chiuso il capitolo del superteam senza aver raggiunto il suo obiettivo finale – la vittoria della Champions, ovviamente. Quella squadra, durata un decennio abbondante, sarà ricordata per dei momenti incredibili e per tante altre volte in cui è entrata nella storia dalla parte sbagliata, per come ha cambiato i parametri del calciomercato, piaccia o meno, o anche solo per aver messo Parigi sulla mappa del grande calcio. Ma non si è sempre fermata uno, due, tre step prima della chiusura del cerchio. 

In questa stagione, le statistiche di Mbappé sono strabilianti, anche più del solito: finora in Ligue 1 ha messo a segno sette gol in 309 minuti complessivi passati in campo, praticamente uno ogni 45 minuti. E ha segnato anche all’esordio in Champions League (Alain Jocard/AFP via Getty Images)

Quest’estate invece è nato un nuovo progetto. È nata una nuova squadra. Anche stavolta sono serviti investimenti importanti, circa 350 milioni di euro per 13 giocatori nuovi. E anche stavolta alcune operazioni di mercato non aiutano il club a vincere il premio simpatia di fine anno: le cessioni di Verratti e Abdou Diallo all’Al-Arabi SC, squadra di Doha, e quella di Draxler all’Al-Ahli SC, ci ricordano che molto spesso il Psg sistema i conti con le cessioni dei suoi esuberi in Qatar: niente di illegale o irregolare, ma si può dire che il club sfrutta «il vantaggio di trattare e lavorare con se stesso», come ha scritto il quotidiano Le Parisien. In compenso il mercato in entrata ha aiutato a ridefinire i contorni di una squadra più logica, più razionale, più strutturata, almeno in apparenza. Il simbolo di questa trasformazione è Manuel Ugarte, mediano uruguaiano acquistato dallo Sporting Cp in cambio di 60 milioni. È stato preso per ricucire gli spazi in mezzo al prato, pur essendo uno che difficilmente prenderà molti voti al prossimo Pallone d’Oro. Ecco, Ugarte è diventato subito fondamentale per Luis Enrique, è quello che consente poi ai centrocampisti più virtuosi di fare il loro gioco, di far avanzare l’azione verso la trequarti.  L’ultimo giorno di mercato invece è arrivato Randal Kolo Muani dall’Eintracht Francoforte, per poco meno di 100 milioni. Un’altra spesa enorme, ma per un giocatore che come Mbappè viene dalla periferia parigina, e con lui e Dembélé costruirà un attacco che sarà più o meno lo stesso della Nazionale francese: una strategia interessante per mantenere altissima la competitività della squadra e creare un rapporto più stretto tra giocatori e tifosi.

Con il Paris Saint-Germain il disastro che resetta tutto e costringe a ripartire da zero sembra sempre essere dietro l’angolo, . Non sappiamo se questa sia la volta buona o no, va tutto preso con il beneficio del dubbio. Però c’è qualcosa di diverso nell’aria. «Uno per tutti e tutti per uno», aveva scritto su Instagram Luis Enrique in quelle settimane difficili di luglio in cui si parlava con troppa insistenza dell’ennesimo addio annunciato e poi sfumato di Mbappè. Una frase che rimanda all’idea di collettivo, di squadra, in cui il singolo è sempre parte di un gruppo e il suo destino dipende da quello dei suoi compagni indipendentemente dalle sue capacità individuali. Luis Enrique aveva scelto una frase ormai banalissima, ma non casuale, prendendo in prestito un frammento della letteratura francese. Forse ha scelto solo il verso più pop di tutti, o quello perfetto per cambiare definitivamente il corso della storia del Psg.