Jude Bellingham sta facendo al calcio ciò che Michael Jordan fece alla Nba?

A vent'anni, si è già caricato sulle spalle la squadra più forte del mondo. Quanti altri atleti hanno avuto un impatto simile?

È il 68esimo minuto del Clásico: il Barça conduce per 1-0, sta dominando il Real Madrid e sembra poter dare una nuova frustata decisiva alla partita da un momento all’altro; al contrario, la squadra di Ancelotti gioca sotto ritmo e non riesce a trovare contromisure al palleggio dei blaugrana. I primi 67 minuti di Jude Bellingham in un Clàsico sono stati complicati: Xavi gli ha sguinzagliato addosso Gavi, pepita d’oro classe 2004, che a ogni tocco lo azzanna, lo spinge, gli frana addosso, insomma gli fa qualsiasi cosa pur di non farlo girare. Per 67 minuti viviamo nell’illusione che il miglior giocatore nell’avvio di stagione del Real Madrid, forse il migliore nell’avvio di stagione dell’intero continente europeo, già in grado di siglare undici gol nelle sue prime dodici gare nel club più importane del mondo, sia un semplice essere umano.

Un’illusione che, al minuto 68′, si spegne: Vinícius crossa a casaccio dal centro sinistra, proprio Gavi spazza di testa, consegnando a Bellingham un pallone che sembra innocuo, ma in realtà profuma di storia; Jude lo addomestica, esegue un tocco e inizia a caricare il tiro dai venticinque metri; impatta il pallone di collo pieno, mantenendosi in perfetto equilibrio sulla gamba sinistra e rilasciando con la destra. Quando il pallone si insacca all’incrocio dei palo, quella gamba destra è talmente alta da ricordare l’ultima fase di movimento nel rovescio di Nadal. Tutti sono (siamo) costretti a cambiare idea: Jude Bellingham non è umano.

Dopo il gol, dopo un gol del genere, non si può fare altro che alzarsi in piedi e allargare le braccia, imitando goffamente l’esultanza di Bellingham. Un’esultanza già iconica, come tutto ciò che lo riguarda. A partire dal suo nome, presente nella celebre “Hey Jude” dei Beatles, ormai diventata la rockband preferita dei tifosi del Madrid, che la canticchiano al Bernabéu e quando vanno in trasferta. L’hanno fatto anche nel settore ospiti dello stadio di Montjuïc, in occasione di un Clàsico in cui il Barça indossa una maglia con la linguaccia degli Stones. E in tribuna c’è anche Mick Jagger. Ma sono già iconiche anche le sue maglie: lo è la sua nuova camiseta blanca del Real, che rende onore al numero 5 che fu di Zinédine Zidane, e che prima di Zidane era un numero anonimo, poco ambito. E lo è anche la sua vecchia maglia, la 22 che Jude indossava ancora minorenne al Birmingham City, poi ritirata dal club inglese quando fu annunciato il suo trasferimento al Borussia Dortmund. Come la numero 6 di Bobby Moore al West Ham o di Franco Baresi al Milan, come il 10 di Maradona a Napoli. Con una differenza, però: la maglia numero 22 è stata ritirata dal Birmingham quando Bellingham ha diciassette anni e una sola stagione all’attivo in prima squadra. Per avvicinarsi a un impatto così totale e così precoce bisogna volgere lo sguardo all’America, a uno dei più grandi agonisti di sempre: Micheal Jordan. Sì, non c’è dubbio: il paragone è azzardato. Al netto del dominio tecnico, però, le similitudini non mancano. A partire da una coincidenza: dopo il suo primo (e momentaneo) ritiro dal basket, nel 1995, Jordan si diletta nel baseball, in Minor League, con la maglia dei Birmingham Barons: vi ricorda qualcosa? Ma l’intreccio non si limita a casualità forzate: Jude e MJ fanno la stessa linguaccia in campo, alla faccia degli Stones; le prime squadre della loro vita hanno ritirato il loro numero di maglia; infine, la hanno manifestato la stessa capacità di isolarsi contro uno stadio intero, catalizzando su loro stessi ogni energia, per poi vincere le partite e andare a esultare in faccia a tutti quanti.

Già prima della partita contro il Barcellona, i primi mesi di Bellingham al Real sembravano una sceneggiatura scritta da qualche divinità che voleva provare la sua esistenza attraverso il calcio. E invece non avevamo visto ancora nulla. Quando credevamo che fosse finita, Jude ha tirato un altro schiaffone alla nostra inferiorità nei suoi confronti. Minuto 92′. È interessante osservare Bellingham nei secondi prima del gol che deciderà il Clásico: si aggira intorno all’area sorvegliato da due/tre giocatori, sembra uno squalo pronto a partire all’attacco non appena odora un po’ di sangue. Poi, quando Carvajal crossa dalla destra, il suo fiuto si accende. Modric raccoglie il cross, ma sbaglia il controllo, cambiando però la traiettoria del pallone. Che, alle spalle di Romeu, trova Jude, pronto ad appoggiarlo in porta con un tocco sporco, con la sua solita gamba alta.

È un gol quasi inzaghiano per la capacità di percepire il momento buono, per il movimento alle spalle del marcatore e per la freddezza. In fondo non è una novità: la metà dei gol al Real di Bellingham, di cui già tre nei minuti di recupero, sono arrivati grazie a dei tap-in da attaccante navigato. Solo che Jude ha appena vent’anni, e in teoria non è nemmeno un attaccante. C’è quasi del sovrannaturale nel modo in cui riesce sempre a farsi trovare al posto giusto nel momento decisivo della partita. A questo proposito è emblematico il gol vittoria in Champions all’Union Berlino, ovviamente segnato nel recupero: Valverde calcia dal limite addosso a un difensore dei tedeschi, innescando un flipper impazzito; la palla rimbalza tre volte tra due difensori dell’Union, in area ci sono sedici giocatori, ma la sfera ovviamente arriva sui piedi dell’unico predestinato a riceverla.

È quasi frustrante vederlo fare gol come questo, molto più di quanto non lo sia la facilità con cui spara un siluro all’incrocio nel suo primo tiro in un Clásico: i suoi gol di rapina sembrano gol che potremmo fare anche noi. Sono come molte delle opere concettuali dell’arte contemporanea: potremmo farle anche noi ma poi le fanno loro, gli artisti. Perché hanno talento e sono dei predestinati. La stessa frustrazione sembra aver colto anche Xavi, che nel dopo gara ha dichiarato: «Bellingham è un grande giocatore, ma sembra benedetto dal cielo: tutti i palloni, le deviazioni e i rimbalzi arrivano a lui».

Se si fatica così tanto a darsi pace di fronte alla facilità con cui questo ragazzo sta dominando il calcio europeo è anche per il fatto che, di primo acchito, il talento di Jude è forse meno appariscente di quello di alcuni suoi colleghi della NextGen: non ha l’eleganza di tocco di Pedri o Wirtz, né il dribbling nello stretto di Musiala o lo strapotere fisico di Haaland. Ma è comunque elegante, tecnico, abile nel dribbling, fisicamente straripante. È la sua completezza a renderlo straordinario, e l’azione che propizia il gol di Rashford contro l’Italia ne è un perfetto manifesto: Jude recupera il pallone con una scivolata da medianaccio, si muove subito alle spalle dei giocatori italiani, riceve da Foden una palla leggermente lunga, ma ci arriva con la punta del piede quanto basta per alzarla e generare un sombrero con cui salta Scalvini, poi galoppa prima di rifinire per Rashford sulla sinistra. Non solo Jude sa fare tutto, ma a vent’anni ha già una conoscenza del gioco e una furbizia da veterano: legge le situazioni come un calciatore di trentacinque anni, solo che ha il fisico e la freschezza di chi ha appena iniziato a giocare.

La forza mentale con cui Jude è rimasto in partita, nonostante sessanta minuti in cui Gavi l’ha soffocato, per poi vincerla praticamente da solo, fa pensare che ci si possa davvero trovare di fronte al futuro Micheal Jordan del calcio. In fondo basta porsi una domanda: quanti calciatori di vent’anni hanno avuto un impatto simile dopo che si sono trasferiti club più prestigioso al mondo? Quanti, alla loro prima stagione con la maglia più pesante che esista, hanno avuto una personalità tale da caricarsi sulle spalle la squadra segnando un gol decisivo dopo l’altro? Perché, diciamocelo, il Real di questo inizio stagione è una squadra piena di difetti, spesso poco intensa, orfana di un centravanti. Eppure nessuno se ne sta accorgendo. E poi, proprio come MJ, Jude dà la netta sensazione di sentirsi il più forte di tutti: da ogni sua giocata trasudano autostima e spacconaggine, però di quelle bonarie; in lui non traspare nessuna timidezza, nessun timore reverenziale, nonostante in fondo si tratti di un ventenne che è approdato in una squadra di leggende.

Certo, l’impatto culturale di Jordan, dentro e fuori dal campo, ha pochi eguali nella storia dello sport. Jude, però, è sulla buona strada: è spigliato davanti alle telecamere, è sicuro di sé, ha già iniziato a ripagare l’investimento che il Madrid ha fatto su di lui, e tra qualche anno i soldi spesi saranno tornati con gli interessi. E, soprattutto, può vincere le partite da solo. Come direbbe Jaden Smith, rapper figlio di Will, Jude è già «just an icon living» in tutto quello che fa. Sembrano averlo capito anche i social media manager del Real, che dopo il Clásico gli hanno dedicato una grafica a tema Beatles: ad attraversare le strisce di Abbey Road non ci sono Paul McCartney, John Lennon, Ringo Starr e George Harrison, ma Jude Bellingham e i suoi compagni. L’affermazione di Jude come icona passerà inevitabilmente anche dal marketing. Anche da questa prospettiva è giusto guardare verso Micheal Jordan: è stato un discreto maestro. Chissà, magari tra una decina d’anni compreremo ai nostri figli un paio di Air Jude.