Marsiglia, anima e corpo

Dentro il gruppo più grande e antico degli ultras marsigliesi, i South Winners. Sono il distillato della cultura della città: fortemente antifascista e antirazzista. Con un colore inaspettato, ma fortemente simbolico.

Marsiglia la guardavo dall’alto, perché avevo preso casa nel quartiere Vauban: costava poco e mi era sembrato fosse vicino al mare, ma non avevo calcolato quanto ripida fosse la salita. In realtà ci si abitua in fretta. Poco più su di casa mia c’era Notre Dame de la Garde, a quel punto l’altitudine segna centossessantadue metri. È una basilica neobizantina, strana da guardare per un occhio abituato alle architetture italiane. Eppure la prima sera, dalla mia piccola terrazza affacciata sulla città da cui, avevo scoperto, l’orizzonte del mare non si vedeva affatto, ero stato attirato da un luccichio azzurrino nello scuro della notte agostana. Erano le nove. Mi sono sporto verso destra, l’entroterra, per vedere meglio: la silhouette, immediatamente riconoscibile, è arrivata all’occhio portandosi dietro l’emozione che si deve a certi monumenti di importanza storica. Il Vélodrome illuminato. Il Marsiglia, per chi è cresciuto guardando il calcio degli anni Novanta, è una squadra leggendaria. Avevo cinque anni durante il quarto di finale (della vergogna) tra Olympique e Milan, sette quando l’OM vinceva la Coppa dei Campioni di nuovo contro il Milan di Capello. La formazione era un rosario di giocatori di culto: Barthez, futuro campione del mondo; Angloma, Boli, Desailly, e poi Pelé, Deschamps, Völler e Boksic.

La maglia bianca con le tre strisce azzurre sulla spalla. La prima squadra francese a vincere la più importante competizione europea calcistica. «À jamais les premiers», cantano ancora i tifosi: per sempre i primi. Nel fascino per quella squadra riverbera quello che pulsa per una città tra le più belle e complesse d’Europa. Dopo la Seconda guerra mondiale, Marsiglia è una tra le più toccate, tra le grandi città francesi, dal processo di decolonizzazione. Negli anni Sessanta, terminata la Guerra d’Algeria, la città si riempie di centinaia di migliaia di pieds-noirs, ed è meta di un’ondata di migrazione dal Maghreb che andrà a incidere in modo importante sull’identità del centro storico. Mentre il Marsiglia vinceva tutto negli anni Ottanta e Novanta, Jean-Claude Izzo scriveva la sua Trilogia marsigliese inventandosi il noir mediterraneo. Nelle curve si riunivano i tifosi per formare i gruppi organizzati. Erano anni elettrici.

L’Olympique Marsiglia è la squadra francese con lo stadio più pieno e più caldo. E lo è di gran lunga: nell’ultima stagione di Ligue 1, la media spettatori al Vélodrome ha sfiorato quota 63mila. Il PSG secondo in classifica non arriva a 47mila persone sugli spalti

Il più grande e antico della città è quello dei South Winners, nato nel 1987. Sono loro quelli ritratti in queste pagine, in cui un elemento cromatico spicca inaspettato: il colore del gruppo è l’arancione, non il bianco, né l’azzurro. La storia ha a che fare con il concetto di identità ultrà più che con la squadra di calcio. I South Winners sono da sempre fortemente antifascisti e antirazzisti, come vuole la storia multiculturale di Marsiglia, racconta Bigish (il membro che ha fatto sì che questo servizio si potesse realizzare). È la stagione 1989/90 e durante una trasferta a Parigi c’è uno scontro con gli odiati Boulogne Boys del Psg, di estrema destra: «Tutta la Kop Boulogne era piena di teste rasate come palle da biliardo», ricorda lui, «e con gli stessi nostri giubbotti». I giubbotti di cui parla Bigish sono i classici bomber, di moda in quel momento, neri fuori, arancioni dentro. La simbologia è importante, i vestiti sono un codice: e da quel giorno i South Winners “ribaltano” i loro bomber per distinguersi dai fascisti. Via il nero, allora, e fuori l’arancione, che diventa il simbolo del gruppo.

«Essere marsigliesi è essere contro il razzismo e farlo capire con la nostra voce e la nostra forza. È la nostra mentalità», mi dice ancora Bigish. Parla di Marsiglia come di «une ville rebelle», una città ribelle. «È la porta dell’Africa e dell’Europa», dice ancora. «In questa città, con questo porto, c’è un cosmopolitismo per cui tutte le etnie sono unite grazie a questo club». Passeggiavo a Marsiglia sempre per il primo arrondissement, sono vicoli stretti che mi ricordavano i carruggi genovesi, ma ancora più meticciati. Un distillato di Mediterraneo: non solo quello settentrionale ed europeo, ma soprattutto quello meridionale, africano e mediorientale. Si contano le migrazioni leggendo le insegne dei ristoranti: ce n’è uno ristorante nigeriano, c’è Cuisine Portugai, c’è Mama Ghana, la pasticceria marocchina La Marsa.

Con i suoi 67mila spettatori, lo stadio del Marsiglia è il secondo più grande di tutta la Francia. È il primo tra quelli in cui giocano squadre di club, visto che lo Stade de France ospita la maggior parte delle partite della Nazionale.

Dove si incontrano rue d’Aubagne, rue Moustier e rue Jean Roque c’è una targa: ricorda il 5 novembre del 2018, quando due palazzi collassano, sprofondando, proprio lì, uccidendo otto persone. Nell’aprile del 2023, in rue de Tivoli, a un chilometro, è esploso un altro palazzo. Questa volta è stata una fuga di gas. Bigish mi parla proprio di rue de Tivoli, per spiegare quanto i South Winners si siano attivati, in quel caso e in altri, per aiutare la città. Solidarietà, organizzazione, comunità.

«Abbiamo i codici degli ultras, ma soprattutto abbiamo i codici della strada di Marsiglia. Cerchiamo di aiutare in tutto il mondo: come per l’esplosione nel porto di Beirut, per gli incendi in Algeria o per rue de Tivoli a Marsiglia», dice. Poi c’è Hamza Baggour, che in queste pagine indossa una tuta grigia e un cappellino: lui è il segretario generale dei South Winners, e in curva si occupa di lanciare i cori. Nel 9° arrondissement della città, invece, ha fondato l’associazione Fédération des Citoyens de La Soude, un ente per supportare la comunità e aiutare le famiglie più bisognose del quartiere. «È questo essere marsigliesi», ripete Bigish.

Da Undici n° 52
Foto di Stefano Carloni