La sera di Napoli-Milan stavo guardando la partita al bar. Accanto a me, a ogni occasione da gol, un nostalgico tifoso juventino commentava con frasi del tipo: «Trezeguet questo lo avrebbe segnato» o «Higuaín questo lo avrebbe messo». E a ogni calcio di punizione, prima che venisse battuto, mormorava: «Ti ricordi come le tirava Del Piero?» Oppure: «Da lì con Baggio era sempre gol». Così, quando al 62esimo Raspadori sta per calciare a pochi passi dalla lunetta, mi sorprende che se ne stia zitto, ma non faccio in tempo a interpretare il suo silenzio come un presagio. O a pensare che la barriera sia messa in modo strano. Raspadori fa due passi obliqui e lascia partire la rasoiata che sorprende Maignan e riporta il match in parità. Esulta mimando il Tee shot dei golfisti, poi si porta la mano sopra gli occhi come quando si scruta l’orizzonte mentre la pallina sta viaggiando controsole, prima di essere sommerso dall’abbraccio dei compagni. Un’esultanza che celebra simpaticamente la maestria del colpo, non proprio l’equivalente di un eagle golfistico, ma un calcio di punizione altrettanto speciale e bello, soprattutto per l’impatto emotivo che ha avuto sulla partita del Napoli: dopo il pareggio, gli azzurri hanno anche rischiato di vincerla.
Sabato scorso, durante Salernitana-Napoli, mentre ero in trasferta con la squadra del mio paese, mi arriva la notifica del gol di Raspadori e d’istinto la cosa mi sorprende. Eppure, razionalizzando, Raspadori che fa cose da Raspadori, ossia cose belle, non è più – o non dovrebbe essere – tutta questa novità. Così mi chiedo il perché della mia sorpresa e non so darmi bene una risposta, quanto ammassarne molte. Tutte più o meno discutibili. Così vado a controllare il rapporto tra presenze, reti e assist, e noto con piacere che in campionato Raspadori ha già superato i numeri della scorsa stagione, per quanto magri – due gol e due assist in 25 presenze. Poi, mentre litigo con i numeri e il loro significato, e mi ripeto quella nenia che più o meno dice una cosa che accade una volta è fortuna, due è un caso, tre è statistica, cerco in loro delle interpretazioni che restituiscano il talento e il potenziale che Raspadori, in questo momento, sta confermando. Per farlo mi metto a saggiare il peso dei singoli gol. Ne valuto l’estetica, il valore simbolico, quali storie racchiudano. Insomma, cerco di spiegarmi perché la mia mente continui a restituirmi un’immagine incompleta di Raspadori.
Riscorrendoli, il più significativo dei suoi gol mi sembra quello segnato l’anno scorso contro la Juventus al 93esimo, alla 31esima giornata, che è valso la vittoria finale per 1-0: lasciato solo sul secondo palo, Raspadori scaglia in rete il cioccolatino servitogli di Elmas, colpendo la palla al volo. Esulta, è felice, il Napoli è a +17 dalla Lazio seconda in classifica, lo scudetto è a un passo. Alla fine ha avuto ragione lui, a tentare il salto in una grande. E quando si è molto giovani, o molto vecchi, vincere è bellissimo. Pure ricoprendo ruoli da caratterista. Raspadori lo era e lo è, un caratterista, in questo Napoli – un caratterista preziosissimo, che quel giorno è uscito dal ruolo di spalla per diventare protagonista. Ed è giovane, per come lo s’intende in Italia. Ma sta diventando grande, nonostante in tanti ancora non lo vedano, complice il percorso graduale, centellinato, e una storia ostile ai sensazionalismi.
A parlare non è il caduco entusiasmo dato dalle più recenti prestazioni. Raspadori pare finalmente pronto a diventare più di un ricambio o di un jolly da schierare a partita in corso. E questo è l’apice di un processo partito molto tempo fa. Dai tempi di Sassuolo, passando per l’Europeo vinto e i gol in Champion League (quattro gol su 7 presenze l’anno scorso, o meglio: quattro gol su nove tiri effettuati, di cui cinque nello specchio della porta). Il mio preferito tra questi è quello segnato contro l’Ajax: Kvaratskhelia, dopo aver triangolato con Zielinski, scarica su Raspadori che in due tocchi si aggiusta il pallone sul sinistro e poi lascia partire una bomba sotto l’incrocio che pietrifica Pasveer. Un’azione il cui tema è stato riproposto variato ma fondamentalmente uguale dagli stessi interpreti, nella partita contro l’Union Berlino di due settimane fa: Kvara che porta palla – stavolta arrivando sul fondo – e poi la passa a Raspadori che conclude in girata a pochi passi dall’area piccola. Niente di nuovo sul fronte Occidentale, sembra dire la sua pacata contentezza, il modo nient’affatto provocatorio in cui si porta le mani alle orecchie per sentire l’esultanza della curva. Non ha niente da rivendicare con rabbia o rivalsa, Raspadori. In un mondo di drama queen, lui pare sinceramente felice di poter giocare a calcio – e di segnare, ovvio – al ritmo del suo tamburo, senza farsi prendere dalla fretta o lasciarsi divorare dall’ego. Segni di una maturità la cui mancanza è stata spesso rimproverata a tanti talenti, e che lo rendono un personaggio amabilissimo, che suscita genuinamente simpatia, oltre che un professionista affidabile.
C’erano delle discrete avvisaglie, in merito al talento di Raspadori, anche ai tempi di Sassuolo
Giacomino, come viene affettuosamente chiamato nel sottobosco d’internet dove è protagonista di meme che lo vedono scrivere lettere di consolazione ai portieri contro cui segna o a colleghi in difficoltà, è diventato Jack. Certo, in rete e nei forum i tratti fanciulleschi del viso, gli occhi pieni e il fisico brevilineo lo prestano ancora a giocosi e dissonanti soprannomi. Come Baby-Faced-Assassin (caro Steph Curry, vedilo come un omaggio) o Giant Killer (qui si sconfina nel wrestling), vista la sua abitudine di segnare contro le big. Ma Raspadori si sta rivelando un attaccante grande – sì, un attaccante vero e proprio – nonostante l’età e il fisico compatto. E la recente assenza di Osimhen, che nelle ultime gare ha costretto Garcia a schierarlo da titolare, per alcuni scampoli anche accanto a Simeone, gli ha permesso di esprimersi miscelando le sue principali propensioni: costruzione e finalizzazione. In queste partite Raspadori ha finalmente avuto il tempo e la libertà di fare ciò che gli riesce meglio: attirare su di sé la pressione avversaria, allungare o anche comprimere gli spazi a seconda della situazione, interpretare l’azione e quindi scegliere la miglior posizione possibile tra centrocampo e attacco. Poi sì: l’equivoco sul suo ruolo naturale – centravanti puro, seconda punta oppure esterno/trequartista? – potrebbe essere rinfocolato dal fatto che va spesso a prendersi il pallone dai centrocampisti e ama contribuire alla fase di rifinitura, ma vedendo i gol che fa sarebbe uno spreco insistere nel tenerlo distante dalla porta. O rimetterlo in panchina.
L’asterisco di tutto questo, infatti, sarà Osimhen e il cambiamento – o restaurazione? – che la sua presenza determinerà, una volta che il centravanti nigeriano sarà di nuovo disponibile. Garcia potrebbe decidere di escludere di nuovo Raspadori, oppure di sfruttare il momento e dargli maggiori responsabilità. Magari con un cambio modulo, fornendogli così un contesto tattico dove possa valorizzare le qualità di cui finora si è parlato. Le cose per ora stanno funzionando, e per Raspadori, adesso come adesso, sognare un posto da titolare fisso è più che lecito. Anzi, attualmente è una realtà. Se poi continuasse a segnare con questa costanza – non per forza gol belli, ma pure brutti, sporchi, di punta, da adulto smaliziato e non più solo da eterno enfant prodige, insomma – allora il Napoli potrebbe godere di un reparto offensivo le cui singolarità sopperirebbero alle carenze tattiche manifestate finora. E Raspadori potrebbe sfruttare tale occasione per elevare ulteriormente il proprio status anche in ottica Nazionale. Poi, è ovvio: Raspadori non è Mbappé – ma chi lo è, a parte Mbappé stesso? – né sarà un predestinato, ma quanti ce ne sono di attaccanti come lui, con le sue caratteristiche così peculiari, nel panorama italiano?
Pochi, pochissimi. Lo so perfino io che sono sempre stato tra quelli che faticavano a vederlo. Perché, al di là della stucchevole retorica sull’eccezionalità della normalità, Raspadori pare davvero quell’amico di infanzia che, nonostante il successo, è riuscito a rimanere sé stesso. E del cui successo, strano a dirsi, si può gioire senza invidia. Chi lo sa, magari tra vent’anni sarò io il nostalgico di turno seduto al baretto che a ogni calcio di punizione mormorerà: «Ti ricordi come le tirava Raspadori?».