All’inizio dell’avventura di Rudi Garcia a Napoli, cioè a metà giugno 2023, Aurelio De Laurentiis sembrava aver fatto una scelta chiara, netta, evidentemente di rottura: al posto di un maestro di campo come Luciano Spalletti, era stato preso un allenatore diverso, un semplificatore, un creatore di connessioni emotive prima che tattiche. I maligni – e anche qualche ricostruzione giornalistica, per la verità – hanno raccontato come la decisione di assumere Garcia fosse arrivata a causa di una lunga serie di rifiuti da parte di altri tecnici, che il presidente del Napoli in realtà avrebbe voluto un profilo più simile a quello del suo ultimo allenatore, un Italiano, un Thiago Motta o un Paulo Sousa, tanto per capire di chi/cosa stiamo parlando. Al di là di queste voci, restavano e restano i fatti: con Garcia in panchina, De Laurentiis aveva messo i suoi calciatori al centro di tutto. Perché il loro nuovo allenatore gli avrebbe dato maggior libertà interpretativa, sarebbe stato meno identitario e più liquido nell’approccio alle gare; così il nuovo Napoli forse sarebbe stato meno scintillante nella pura espressione di gioco, ma più vario dal punto di vista tattico. Un progetto rischioso ma affascinante, soprattutto per una squadra che aveva dimostrato – coi fatti, vincendo – di avere dei valori importanti.
Adesso che l’esperienza di Garcia a Napoli sta volgendo al termine, per altro in modo inglorioso e scorbutico, è evidente che De Laurentiis abbia commesso un grosso errore di valutazione. Sia per quanto riguarda l’allenatore francese, sia guardando alla rosa del Napoli. È un discorso di incastri reciproci, di angoli e spigoli che non combaciano, come in un puzzle: alcuni pezzi possono sembrare identici tra loro ma in realtà sono solamente molto simili, e allora la verità è che ogni tassello può essere messo in un determinato punto, non ci sono alternative. Ecco, forse nel calcio le inserzioni tra i vari pezzi di una squadra – giocatori, allenatori, società – sono un po’ più malleabili, solo che tra Rudi Garcia e il Napoli le distanze erano e sono rimaste troppo ampie. Da qualsiasi punto di vista.
Per capire cosa intendiamo, basta riguardare le partite giocate dagli azzurri fin dall’inizio di questa stagione, in realtà anche durante la preparazione precampionato: da quando è arrivato a Napoli, Garcia ha predicato – e fatto praticare – un calcio molto meno sofisticato rispetto a quello di Spalletti, soprattutto dal punto di vista della costruzione della manovra. In poco tempo, anzi fin da subito, il Napoli si è trasformato in una squadra monocorde, prevedibile, che utilizzava la verticalità – o meglio: il lancio verso Osimhen – non come una soluzione per sfruttare spazi creati grazie a una buona risalita del campo, come avveniva l’anno scorso, piuttosto come unica risorsa per generare tensione nelle difese avversarie. I giochi offensivi della squadra di Garcia sono risultati efficaci – quando è successo, non sempre – per accumulo, cioè guardandoli da un punto di vista quantitativo: non a caso, viene da dire, il miglior elemento in questo inizio di stagione è stato Matteo Politano, un esterno offensivo che ha bisogno di toccare molti palloni, per poter essere decisivo. In fase difensiva, il Napoli di Garcia ha pagato dazio al suo calcio scheletrico: visto che l’unico modo per creare scompiglio nella trequarti avversaria era alzare i ritmi e spostare molti uomini in avanti, gli azzurri hanno costantemente dato l’impressione di essere perforabili nelle transizioni negative. Allo stesso modo, le fasi di pressing e la riaggressione alta hanno funzionato a intermittenza, ma in ogni caso sono sempre sembrate raffazzonate, legate più alla forma fisica dei calciatori che a degli automatismi levigati grazie al lavoro intenso in allenamento.
La sensazione per cui mancasse una certa cura del dettaglio, nel corso delle settimane, non si è affievolita. Anzi: è cresciuta. Di conseguenza il Napoli ha cominciato a perdere dei riferimenti che erano già piuttosto labili, le partite contro squadre di livello più alto sono andate tutte malissimo – sconfitte interne con Lazio, Fiorentina e Real Madrid, pareggio interno contro il Milan dopo lo 0-2 dei rossoneri – e così anche i giocatori sono stati inghiottiti dalla spirale negativa, al punto di calare notevolmente nel rendimento. Garcia, a quel punto era evidente, non era riuscito a costruire una reale leadership strategica nei confronti della squadra, e così ha utilizzato altri metodi per affermarsi come uomo forte alla guida: ha ordinato sostituzioni cervellotiche e dal sapore punitivo nei confronti di Kvaratskhelia, Osimhen, anche dello stesso Politano, ha creato una sorta di commissione interna – gli inviati da Castel Volturno lo definivano Il Consiglio dei Saggi – con cui discutere prima e dopo le partite. Anche quando ha avuto a che fare con la stampa, con dei giornalisti via via più pungenti visti i risultati non proprio positivi, è come se Garcia si sia rifiutato di analizzare, quindi di vedere, i problemi del Napoli: ha sempre parlato di tattica e di campo in modo superficiale o comunque poco approfondito, ha costantemente fatto riferimento ad argomenti intangibili – grinta, impegno, capacità di difendere e/o di attaccare, tendenza a commettere errori – senza spiegare mai come e dove sarebbe intervenuto per migliorare il gioco della sua squadra.
Ora è chiaro che sarebbe giusto parlare di chi ha scelto Garcia, anzi in realtà bisognerebbe analizzare tutte le decisioni prese da De Laurentiis da giugno a oggi – sul mercato, per la ricostruzione del suo organigramma dopo l’addio di Giuntoli, quando un fa mese aveva già destituito pubblicamente Garcia ma poi non era riuscito a prendere Conte, trasformandosi infine in un tutor per il suo stesso allenatore. Tutto questo sta a monte. A valle, però, non è che le cose siano andate molto meglio: Rudi Garcia ha lavorato per cinque mesi a Napoli e non ha mai dato l’impressione di essere adatto alla squadra che gli è stata affidata. Né di voler fare un passo lontano da sé per adattarsi, che fosse dal punto di vista tattico o dal punto di vista dei rapporti con i suoi uomini. L’apice è stato raggiunto in occasione di Napoli-Empoli, una partita in cui era in gioco il suo futuro sulla panchina azzurra: il tecnico francese ha adottato il 4-2-3-1 – un modulo di gioco che, in precedenza, aveva utilizzato solo in situazioni emergenziali – e soprattutto ha lasciato fuori Kvaratskhelia e Zielinski. Non c’è bisogno di aggiungere altro.
Finora abbiamo parlato al passato perché l’avventura di Garcia è finita, perché all’orizzonte sta nascendo un nuovo Napoli. Ma è il momento di passare al tempo presente, visto che gli eventi di questi ultimi mesi obbligano a fare una riflessione sui giocatori azzurri, sul fatto che l’assenza di una guida tattica solida, di un allenatore che si sintonizzasse con loro, abbia potuto determinare un calo così vistoso. È giusto chiedersi, dunque: i calciatori del Napoli non potevano essere messi al centro del villaggio? Luciano Spalletti ha fatto overperformare i vari Osimhen, Kvaratskhelia, Lobotka, Anguissa, Di Lorenzo e tutti gli altri giocatori campioni d’Italia? Il loro valore – e quindi la loro vittoria dell’anno scorso – può essere messo in discussione, visto come sono andati gli ultimi mesi? Non c’è una risposta secca e definitiva, a queste domande. Perché viviamo un’era calcistica di grande complessità, perché oggi il lavoro degli allenatori e la funzionalità dei contesti-squadra sono sempre più impattanti sulle performance dei giocatori. Non è una questione di talento, di censo tecnico: per capire cosa intendiamo, basta paragonare il rendimento di Messi con l’Argentina di Scaloni e il rendimento di Messi nel Psg di Pochettino e Galtier.
E allora lo stesso discorso vale anche per Osimhen, Kvaratskhelia e l’intera rosa del Napoli: forse non erano ancora pronti a essere guidati da un allenatore con un approccio tattico elementare, o comunque meno ricercato rispetto agli standard imposti da Spalletti, e quindi hanno delle responsabilità in questo senso. Ma è chiaro che negli ultimi mesi non siano stati messi nelle condizioni per rendere al meglio. A Napoli, per il Napoli, le idee di Garcia si sono rivelate povere, superate e prive di reali margini di crescita, sia per i risultati a breve termine che per gli obiettivi a lunga scadenza – la valorizzazione del talento in organico, si pensi per esempio all’inserimento tardivo di Natan, all’ostracismo nei confronti di Lindstrom. Allora l’esonero è una scelta inevitabile, e in questo caso è ingiusto parlare di capro espiatorio: De Laurentiis ha deciso di conservare il gruppo che ha vinto lo scudetto e poi ha commesso un errore, scegliendo l’allenatore sbagliato. Ora deve rimediare. A dirlo sono i risultati, i musi lunghi, il rendimento dei giocatori del Napoli. Non c’è altra strada, anche se forse questa frase è meglio non utilizzarla.