Il campionato svedese è tornato negli anni Settanta, e funziona benissimo

Il modello rétro dell'Allsvenskan e il suo successo, raccontati dal New York Times.

Chi segue il calcio europeo considerato minore, quello dei campionati che non appartengono all’élite, sarà certamente rimasto incantato dal finale thrilling dell’Allsvenskan, il massimo torneo svedese: il Malmö ha vinto il titolo all’ultima giornata dopo aver appaiato in testa l’Elfsborg; la vittoria decisiva dei Di blåe (in svedese significa gli azzurri, lo storico nickname del Malmö) è arrivata proprio contro l’Elfsborg: il calendario, diabolico come poche cose al mondo, prevedeva lo scontro diretto proprio all’ultima giornata. Alla fine, come detto, ha vinto il Malmö: per la squadra in cui ha esordito Zlatan Ibrahimovic si è trattato del titolo numero 23, terzo nelle ultime quattro edizioni del campionato. Questi numeri sembrerebbero raccontare un dominio, ma basta ingrandire solo un po’ il campo per rendersi conto che c’è una certa varietà, al vertice del calcio svedese: dal 2018 a oggi, lo scudetto è andato all’AIK (2018), al Djurgardens (2019) e all’Häcken (2022), oltre che al Malmö. Se allarghiamo ancora e guardiamo agli ultimi vent’anni, undici club diversi si sono laureati campioni di Svezia.

Si può dire, quindi, che l’Allsvenskan sia un torneo combattuto, divertente, coinvolgente. Allo stesso modo, si può dire che sia anche molto seguito dal pubblico locale. Le immagini delle tifoserie che popolano le curve e le stadi delle 16 squadre iscritte diventano spesso virali, soprattutto nelle community seguite dagli ultras di tutta Europa. Oltre il 40% degli appassionati svedesi, campionati in un sondaggio, hanno indicato il campionato nazionale come la loro competizione preferita, quella che seguono con maggiore attenzione, addirittura di più rispetto a Premier League e Champions League. Questi dati e queste sensazioni sono state rilevate dal New York Times, che ha dedicato un lungo reportage al «modello eretico del calcio svedese». Sì, c’è scritto proprio in questo modo. E non è un’esagerazione: le istituzioni calcistiche locali, infatti, hanno risposto in un modo tutto loro alla sentenza Bosman, in pratica sono andati in direzione esattamente opposta rispetto a tutto il resto del calcio europeo. È successo nel 1999, e questa parte la leggiamo direttamente dal NYT: «25 anni fa una nuova legge ha sancito che il 51% delle azioni dei club calcistici dovessero appartenere ai loro membri, al tifosi. Nel 2007 questo nuovo codice venne messo in discussione, ma alla fine rimase in vigore: i fan si opposero in maniera feroce, e alla fine si resero conto dell’enorme potere che potevano esercitare».

In pratica i dirigenti del calcio svedese hanno adottato il modello tedesco per rifiutare la stratificazione del calcio moderno. Il loro è un atto di resistenza, e consiste nel fare un salto indietro nel tempo. Mats Enquist, segretario generale di Svenskelitfotboll (l’istituzione che gestisce i campionati professionistici svedesi) dal 2012 fino all’inizio di quest’anno, ha raccontato qual era lo scenario quando è stata varata la rivoluzione: «Il pubblico sugli spalti stava diminuendo, la qualità del campionato era bassissima, inoltre c’era un enorme problema di ordine pubblico legato alle intemperanze degli hooligans. Allora soltanto l’11% degli appassionati svedesi preferivano seguire l’Allsvesnkan rispetto ad altre competizioni». Ora siamo al 40%: si può dire che sia stato un bel viaggio.

Alla base del rinascimento dell’Allsvenskan, però, non c’è solo la proprietà collettiva dei club. I tifosi, infatti, sono stati “aiutati” anche in altri modi: «La polizia svedese», scrive il NYT, «ha dovuto mutare il suo atteggiamento nei confronti dei gruppi: l’invasione di campo e l’utilizzo di razzi rappresentano il limite da non valicare, ma prima c’è tutta una serie di comportamenti che vengono tacitamente tollerati. “I nostri tifosi vengono trattati in modo più conciliante rispetto ad altre realtà, e non tutti come potenziali teppisti”, ha spiegato Lars-Christer Olsson, presidente di lega fino a quest’anno». Queste scelte soft, ovviamente, possono dar luogo anche dei problemi. È successo proprio in occasione dello “spareggio” tra Malmö ed Elfsborg: il secondo tempo è iniziato con mezz’ora di ritardo per via degli scontri tra i tifosi ospiti e la polizia in tenuta antisommossa. Poi sono stati gli ultras di casa a rendersi protagonisti: i troppi fuochi d’artificio hanno fatto scattare la procedura anti-incendio, ritardando ulteriormente l’andamento della partita. Alla fine della gara, poi, c’è stato anche un contatto tra le due tifoserie. Nulla di particolarmente drammatico, ma è chiaro che i limiti sono stati superati in maniera abbondante.

Negli stadi svedesi, si può dire, l’atmosfera è bella accesa, bella carica. A volte anche troppo. Anche in questo senso sembra essere di nuovo immersi negli anni Settanta/Ottanta. Probabilmente la definizione di ritorno al passato è quella che calza meglio, al nuovo modello svedese. Per tutto quello che abbiamo detto, ma anche per altri motivi: non ci sono multiproprietà e/o fondi sovrani, le partite possono essere spostate per esigenze televisive ma solo con un preavviso di due mesi da parte della Lega. E poi, incredibile ma vero, non c’è il Var: persino l’aiuto tecnologico agli arbitri è stato ritenuto troppo futurista, perché potesse essere accettato in questo contesto a dir poco nostalgico. Dal punto di vista puramente economico, questo approccio funziona: negli ultimi dieci anni le presenze sugli stadi sono raddoppiate e i ricavi aggregati dei club sono triplicati. Evidentemente, lo dicono i tabelloni e gli albi d’oro delle coppe europee, questa crescita corporativo non basta per costruire squadre competitive a livello internazionale. Ma ai tifosi svedesi va benissimo così: gli basta essere padroni a casa loro, nel vero senso della parola.