All’alba dell’anno solare 2022, la conformazione economica – e quindi tecnica – del calcio europeo è sempre più stratificata: la superiorità finanziaria dei cosiddetti top club, quelli storici e quelli costruiti negli ultimi anni, ha determinato un divario enorme con tutte le altre società, cancellando di fatto l’idea per cui esistano modelli di gestione tipici di questo o di quel Paese. Oggi, molto più semplicemente, ci sono due grandi macrocategorie transnazionali: la prima è quella dei club ricchi e/o ricchissimi, alla seconda appartengono tutte le altre società. I vari sottoinsiemi sono regolati dallo stesso criterio, da quanti soldi vengono investiti e da come vengono fatti questi investimenti, non certo da strategie legate alla provenienza geografica. Per dirla in maniera chiara, se non brutale: ha sempre meno senso parlare di calcio inglese, di modello spagnolo o italiano. Anche perché, col tempo, la privatizzazione delle leghe e l’internazionalizzazione del mercato hanno finito per assottigliare sempre di più le residue differenze culturali.
L’unico Paese che ha resistito, che vuole continuare a farlo, è la Germania. Chi vuole parlare della Bundesliga deve necessariamente cancellare i concetti enunciati finora: il modello tedesco esiste, è unico e viene preservato in maniera convinta nonostante i cambiamenti, nonostante le inevitabili infiltrazioni dall’esterno, nonostante le crisi congiunturali e quelle dovute a fattori non controllabili – primo tra tutti, ovviamente, la pandemia. È come se le istituzioni calcistiche della Germania non si fossero rese conto che tutto il mondo sta andando in una certa direzione, e che la stessa Germania non è esente da questa tendenza: anche la Bundesliga va a due velocità, da una parte c’è il Bayern Monaco e dall’altra ci sono le restanti 17 società, è un discorso economico – secondo la Deloitte Football Money League 2021, il club bavarese ha prodotto ricavi per 634 milioni, unico club tedesco della top 10; il Borussia è 12esimo con un fatturato di 365 milioni – che diventa tecnico. E che si riflette inevitabilmente sull’albo d’oro: il Bayern ha vinto gli ultimi nove titoli, ma soprattutto ha vinto 16 volte la Bundes negli ultimi 21 anni.
Ma cosa differenzia il modello tedesco dall’intero corpus del calcio europeo? La risposta a questa domanda è molto semplice: la regolamentazione relativa alla proprietà dei club, basata sul concetto del 50+1. Le azioni delle società di Bundesliga, in pratica, possono essere acquistate da investitori per una percentuale obbligatoriamente inferiore al 50%; il resto (da qui la denominazione “50+1”) deve essere posseduto direttamente dai tifosi-soci, ovviamente organizzati in comitati che poi eleggono funzionari, membri del consiglio di amministrazione, dirigenti esecutivi – insomma, hanno una rappresentanza nella gestione operativa. Questa regolamentazione è stata introdotta nel 1998 ed è dovuta al fatto che, prima di questa data, i club tedeschi erano normativamente inquadrati come delle organizzazioni non-profit, sempre di proprietà dei tifosi. Le uniche eccezioni sono state accettate per ragioni storiche: a Bayer Leverkusen e Wolfsburg, squadre fondate da due grosse fabbriche (la casa farmaceutica Bayer e la Wolkswagen, rispettivamente) come società dopolavoristiche, venne concesso di restare legate a una proprietà essenzialmente privata. Col tempo, le eccezioni sono aumentate, anche se in maniera controversa: alcuni imprenditori – Dietmar Hopp, proprietario dell’Hoffenheim, e ovviamente Dietrich Mateschitz, patron di Red Bull e del Lipsia – hanno trovato il modo di forzare o comunque aggirare la regola, che però resta lì, intatta. Anche l’ultimo pronunciamento dell’Antitrust tedesca, che risale al giugno 2021, ha confermato che il 50+1 «non contrasta con le leggi sulla libera concorrenza».
Dal punto di vista puramente etico, ma anche finanziario, il modello tedesco è un modello che funziona: al netto di casi clamorosi e quindi isolati, per esempio quello dello Schalke 04, i club di Bundesliga hanno bilanci floridi; inoltre, dietro al Bayern Monaco, la competitività è diffusa garantisce un grande ricambio: la classifica del campionato è cortissima, il Friburgo terzo accusa 14 punti di distacco dal Bayern e, allo stesso tempo, ne ha 12 di vantaggio sulla zona retrocessione; dal 2015 a oggi, ben 13 club tedeschi (Bayern, Borussia Dortmund, Lipsia, Borussia Mönchengladbach, Schalke, Wolfsburg, Eintracht, Augsburg, Mainz, Hertha, Hoffenheim, Colonia e Union Berlin) si sono qualificati alle coppe europee, due in più rispetto alla Serie A, alla Premier League, alla Liga e alla Ligue 1. Il punto è che questa varietà determina una volatilità progettuale fin troppo marcata, a sua volta alimentata anche dall’impossibilità di investire in maniera massiccia sul mercato, perché non sono ammessi contributi da investitori esterni: considerando lo stesso periodo, quindi dal 2015 a oggi, la Bundes è quarta per cifra investita sul mercato dei trasferimenti (4,13 miliardi di euro) e addirittura quinta, anche dietro alla Ligue 1, per cifra incassata dai trasferimenti in uscita (3,66 miliardi).
La conseguenza di tutto ciò è una scarsa competitività nelle coppe europee: escludendo il Bayern Monaco, che come abbiamo capito vive in un universo a parte, negli ultimi cinque anni gli unici exploit delle squadre tedesche in Champions League sono stati la semifinale raggiunta dal Lipsia (nel 2020, quindi in un’edizione molto particolare) e i quarti raggiunti dal Borussia Dortmund un anno fa; in Europa League l’andamento è ancora peggiore, considerando che un club di Bundes non raggiunge la finale dal 2009 (allora il Werder Brema fu sconfitto dallo Shakhtar), e che l’unica semifinale dal 2010 a oggi è quella giocata dall’Eintracht nel 2019 (sconfitta ai rigori contro il Chelsea). Nello stesso periodo i club italiani – considerati giustamente in crisi di risultati nella seconda manifestazione continentale – hanno messo insieme una finale (Inter 2020) e quattro apparizioni in semifinale (Roma 2021, Napoli e Fiorentina 2015, Juventus 2014). Anche quest’anno non è andata bene, soprattutto in Champions League: il Bayern è l’unica squadra tedesca qualificata agli ottavi, mentre Lipsia e Dortmund sono retrocesse in Europa League e il Wolfsburg è stato eliminato da Lille, Salisburgo e Siviglia; in Europa League, l’Eintracht e il Bayer Leverkusen hanno vinto il loro girone, ma contro avversari tutt’altro che trascendentali (al secondo posto sono arrivate Olympiacos e Betis); in Conference League, l’Union Berlin è stata eliminata da Feyenoord e Slavia Praga, con due sole vittorie – ottenute entrambe contro il Maccabi Haifa. Considerando le cinque leghe top, dunque, la Bundes è l’unica ad aver perso due squadre nei turni autunnali.
Tra tutti questi risultati, quello più significativo – in negativo – è probabilmente quello del Lipsia. Per diversi motivi: l’anima anti-tedesca del progetto aveva fatto credere che la squadra della Red Bull potesse rovesciare le gerarchie della Bundesliga e poi del calcio europeo, ma evidentemente il tempo non è ancora arrivato. Anzi, il passo indietro compiuto quest’anno sembra fin troppo legato al contesto domestico, al modello del calcio tedesco: al di là del Bayern Monaco, tutte le squadre sono diventate dei centri di produzione del talento, dei luoghi di formazione per cui transitare prima di approdare nei top club. Lo ha scritto il Guardian qualche tempo fa, parlando di un Borussia Dortmund che fa fatica a diventare grande – «è una società sportiva virtuosa oppure una fredda linea di produzione industriale, che non vince più trofei di rilievo e in cui i calciatori sono semplicemente degli asset da valorizzare?» – e lo stesso discorso vale per il Lipsia e per tutte le altre: se la politica di reclutamento e di business, ispirata a principi di sostenibilità a tutti i costi e pure priva di possibilità di espandersi, ti porta a cedere Wenrer, Upamecano, Konaté e Sabitzer nel giro di un anno, e a sostituirli con giocatori ancora più giovani, è praticamente impossibile coltivare grandi ambizioni in Europa. Così come è praticamente impossibile anche solo pensare di poter impensierire il Bayern Monaco. Quello stesso Bayern Monaco che, attraverso le parole di Karl-Heinze Rummenigge (che, va detto, in realtà non ha più ruoli operativi nel club) ha criticato proprio la regola del 50+1 che sta frenando l’evoluzione del calcio tedesco, o quantomeno la crescita sportiva dei club: «Essere in grado di competere è la cosa più importante nel calcio, e oggi è sempre più difficile, perché ci sono club che sono espressione di stati-nazione, che hanno budget illimitati. Noi in Germania abbiamo una cultura completamente diversa, espressa nella regola del 50+1. Di questo passo, arriverà un punto in cui dovremo iniziare a preoccuparci della competitività della Bundesliga e dei suoi club». Se anche chi beneficia di una situazione inizia a riconoscerla e a viverla come un problema, allora si tratta davvero di un problema. Pure bello grosso: il modello Bundesliga ha smesso di funzionare.