Il fallo tattico sta diventando un fondamentale?

Il Manchester City di Guardiola, sempre lui, lo utilizza in modo sistematico e scientifico. Diverse altre squadre, soprattutto inglesi, stanno seguendo questo esempio.

L’intervento con cui Giorgio Chiellini, a trenta secondi dalla fine dei tempi regolamentari di Italia-Inghilterra, ha impedito a Bukayo Saka di involarsi da solo verso la porta di Donnarumma è diventato uno dei meme a tema sportivo più virali di sempre. Soprattutto perché è stato identificato come il seguito ideale del trattamento riservato a Jordi Alba nella semifinale di pochi giorni prima. In realtà quel fallo – anzi: quella giocata – di Chiellini non è altro che la rappresentazione del suo modo di intendere il ruolo: «Un buon difensore deve essere pessimista, nel senso che deve sempre pensare allo scenario peggiore», disse nel 2017 in un’intervista al sito della UEFA. Ma è anche la dimostrazione di come, nella fase calante della sua carriera l’ex capitano della Nazionale sia stato in grado di mantenere un rendimento elevato grazie alla sua capacità di compiere scelte decisive e radicali in un lasso di tempo sempre più breve. E che continuava restringersi all’aumentare della velocità di piede e di pensiero degli attaccanti che si trovava a fronteggiare.

Un esempio su tutti: su YouTube è presente questo breve video che risale alla primavera del 2015, precisamente ai primi minuti della gara dl ritorno dei quarti di finale di Champions League contro il Monaco. Sono passati poco meno di tre minuti dal calcio d’inizio, la Juventus sta gestendo il possesso quando all’improvviso Chiellini scivola e consegna palla a João Moutinho. O, almeno, questo è quello che succederebbe se il centrale bianconero non avesse la prontezza di riflessi e la presenza di spirito di mettere la mano sinistra sulla sfera proprio nell’attimo in cui il centrocampista portoghese sta per appropriarsene. L’arbitro Willie Collum non può far altro che ammonirlo mentre viene accerchiato dai giocatori del Monaco. Che sono inferociti: Chiellini ha commesso un fallo tattico e ha ricevuto la sanzione che meritava. Eppure, nelle proteste dei suoi avversari, si cela tutta la frustrazione per un gesto che sarebbe contrario allo spirito del gioco ma che, invece, risulta legittimato dalle pieghe e dell’evoluzione del gioco stesso.

«Oggi molti analisti considerano il fallo non come qualcosa di sbagliato, ma come una sorta di “permesso a pagamento”. Questo significa che le regole odierne non dicono ai giocatori cosa possono o non possono fare, piuttosto si limitano a dire all’arbitro in quali casi aggravare la sanzione che normalmente comminerebbero ai giocatori che, dal canto loro, possono fare qualsiasi cosa scelgano purché siano pronti a pagarne il prezzo». Queste parole le ha scritte nel 2021 George Lestas, professore di Filosofia del Diritto all’University College di Londra. A Montecarlo così come a Wembley sei anni dopo, Chiellini ha perciò fatto una scelta precisa valutando che la successiva ammonizione sarebbe stato un prezzo da pagare tutto sommato accettabile. L’utente che ha caricato il video di Monaco-Juventus non ha avuto remore nell’utilizzare il termine “genio”, riferendosi alla rapidità (praticamente una frazione di secondo) con cui il giocatore ha preso una scelta decisiva nell’economia della partita calcolando istantaneamente il rapporto tra costi e benefici. Come Federico Valverde, che al 115’ di Real-Atletico abbatte Morata poco prima che possa segnare il gol che vale la Supercoppa di Spagna: «È stata la giocata più importante della partita», dichiarò Simeone pochi minuti dopo. Oppure come Luis Suárez all’ultimo istante dei quarti di finale di un Mondiale, quando ha tolto dalla porta la palla che avrebbe mandato il Ghana in semifinale: «Ho ringraziato Suárez e ritengo eccessivo dire che abbia barato: ha fermato il pallone con la mano, lo ha fatto con un gesto istintivo, ma questo non significa imbrogliare. Suárez è stato buttato fuori e salterà la prossima partita. Che altro volete?», disse all’epoca il ct uruguaiano Tabárez.

Al di là dei discorsi filosofici e culturali, bisogna pensare al fallo tattico per quello che è: un vero e proprio fondamentale del gioco, un modo come un altro per vincere le partite. E, quindi, di un evento che può essere allenato o mandato a sistema, proprio come si fa per gli schemi sui calci piazzati o i movimenti senza palla, aspettando che sia il giocatore a prendere la decisione giusta in una frazione di secondo, proprio come faceva Chiellini. Solo che non tutti i giocatori sono Chiellini. Oppure, più banalmente, il tempo di reazione non è sempre quello sufficiente a capire che l’avversario lanciato in corsa va fermato a qualunque costo e con qualsiasi mezzo per evitare guai peggiori: lo sanno bene Giovanni Di Lorenzo e André-Frank Zambo Anguissa, che non hanno impedito a Olivier Giroud e Jude Bellingham di segnare i due gol decisivi, in negativo, per le due partite più importanti della storia europea del Napoli. Diventa perciò lecito chiedersi se il risultato sarebbe stato diverso se Di Lorenzo e Anguissa fossero stati allenati a pensare – prima ancora che a eseguire – al fallo tattico come prima opzione e non più solo come tardiva soluzione di emergenza in casi estremi. 

La risposta non è semplice ed è legata ai cambiamenti regolamentari che si sono susseguiti soprattutto dopo il Mondiale del 1990, nel bel mezzo di in un’epoca in cui Arrigo Sacchi al Milan era stato il primo a introdurre il concetto di sistematizzazione del fallo tattico all’interno di una sovrastruttura tattica costruita sul pressing feroce nella metà campo offensiva e sull’aggressività di una linea difensiva tenuta il più alta possibile. Le nuove regole sul fuorigioco e, soprattutto, l’introduzione del fallo da ultimo uomo – fattispecie che, a loro volta, avrebbero subito ulteriori evoluzioni e cambiamenti nei trent’anni successivi – sembravano impedire lo sviluppo di tattiche volte a interrompere sul nascere lo sviluppo delle manovre offensive avversarie dopo aver perso il possesso del pallone. Come spesso accade, però, ai cambiamenti regolamentari hanno fatto seguito anche quelli relativi all’interpretazione degli stessi, vale a dire la nascita di strumenti tattici in grado di poter assecondare il nuovo contesto.

Fernandinho, il Manchester City, Guardiola: stiamo per parlarne

Oggi non è un caso che le nuove variazioni sul tema provengano dalla Premier League, che già da qualche anno è diventato il primo e più importante laboratorio tattico d’Europa. All’inizio della stagione 2019/20, al termine di una gara apparentemente senza storia tra il suo West Ham e il Manchester City di Guardiola, Manuel Pellegrini accusò il tecnico catalano di aver fatto sistematicamente ricorso al fallo tattico: «Ogni volta che provavamo ad arrivare nella loro area di rigore commettevano un fallo: i numeri ci dicono che il computo in queste situazioni è stato di 13 falli loro contro gli appena cinque nostri». Qualche tempo dopo anche Klopp avrebbe fatto riferimento alla frequenza con cui il City interrompeva le contro-transizioni avversarie, ma Guardiola ha sempre fatto finta di nulla: «Non sono abituato ad allenare i tackle o i falli tattici. La cosa è molto semplice: quando perdi la palla e chi ti affronta è in grado di risalire velocemente il campo può capitare che tu sia un secondo in ritardo ed è in quel secondo che devi fare fallo».  

I dati, però, avrebbero dimostrato che non solo Guardiola mentiva sapendo di mentire ma anche che aveva iniziato a lavorare su questo ulteriore aspetto del gioco in funzione della sua personalissima utopia, cioè il controllo preventivo e totale di qualsiasi cosa possa accadere nei 90 – o 120 – minuti di gioco. Uno studio statistico recentemente condotto da The Athletic, infatti, mostra come il City, in questo primo terzo di stagione, sia tra le prime cinque squadre di Premier per percentuale di falli commessi entro i primi otto secondi dell’azione successiva alla perdita del possesso. Altre due squadre che si trovano molto in alto in questa classifica sono Arsenal e Tottenham. Che, si può dire, sono accomunate al Manchester City per i principi difensivi, per la ferocia nella riaggressione alta, per la linea difensiva tenuta a metà campo, per le coperture preventive in ampiezza, per la disponibilità ad accettare gli uno contro uno in campo aperto. Se ne facciamo, poi, una questione di zone di campo in cui avvengono i falli a queste tre va aggiunto anche il Brighton di De Zerbi, che commette oltre il 36% dei suoi interventi fallosi nell’ultimo terzo di campo – nella speciale classifica comanda l’Arsenal che sfiora il 50%, distanziando di quasi dieci punti percentuali il City.

Il Manchester City di Guardiola, in ogni caso, resta l’unica squadra che può dire di aver fatto di tutto questo una scienza esatta. O, comunque, il risultato finale di un processo iniziato nel 2018: rispetto ad allora è stato calcolato che i Citizens commettono molti più falli nella trequarti offensiva (circa il 10% in più) riducendo contestualmente il numero di quelli commessi nella metà campo difensiva. Al di là delle statistiche, quello che colpisce è il modo in cui Guardiola è riuscito a incanalare tutto all’interno di situazioni preordinate, quasi come se riuscisse a orientare anche lo sviluppo dell’azione degli avversari dopo il recupero palla. È come se l’intera fase di non possesso si trasformasse in un gigantesco mind game in cui si finisce per fare sempre quello che vogliono i giocatori del City: se a perdere palla è l’esterno offensivo che prova a spezzare il raddoppio entrando dentro il campo sulla trequarti, generando una transizione in condizione di parità numerica, allora tocca al pivote indirizzare l’avanzata del giocatore in possesso verso il centrale che copre il lato di riferimento e poi azionare la tagliola; diversamente, quando il recupero avviene a ridosso dell’area di rigore avversaria e con la possibilità di poter attaccare lo spazio tra seconda e terza linea di pressione, allora tocca all’esterno offensivo correre in soccorso del Rodri di turno (che ha il compito di schermare la linea di corsa più immediata) commettendo fallo prima ancora che il pallone arrivi all’interno del cerchio di centrocampo. E quando l’azione parte dal basso secondo i principi della costruzione 3+2 e l’attaccante che esce per mettersi in visione e fornire una linea di passaggio viene anticipato? In quel caso generalmente è Stones che si immola per la causa, e con un fallo evita situazioni di uomo conto uomo. 

Probabilmente è ancora troppo presto per parlare di un vero e proprio trend, di qualcosa che possa essere imitato e replicato anche al di fuori di ambiti così estremi e peculiari come quelli tracciati da Guardiola e dai suoi epigoni. Qualcosa, per intenderci, che richiami ciò che accade negli ultimi minuti di una partita di basket, quando spendere un fallo su un giocatore dalle basse percentuali ai tiri liberi diventa l’unica strada percorribile per ottenere un vantaggio significativo. Di certo, però, a essere cambiata è la concezione stessa di fallo tattico e la sua percezione di allenabilità: non si tratta più di una scelta etica, ma di una scelta puramente strategica. Una di quelle che serve per eccellere in quei contesti competitivi di altissimo livello, dove a fare la differenza è la cura maniacale di dettagli di questo tipo. «La strategia si fonda sull’astuzia; è messa in moto dalla prospettiva di un guadagno; è analitica o sintetica, a seconda delle trasformazioni del nemico», scriveva Sun Tzu ne L’arte della Guerra. E cos’è in fin dei conti un fallo tattico se non un modo per guadagnare un vantaggio decisivo entro i limiti del regolamento? Non è forse questa l’essenza stessa del calcio e dello sport in generale?