Un anno fa, più o meno di questi tempi, il Giappone stava vivendo il Mondiale più esaltante della sua storia: due vittorie storiche contro Germania e Spagna, un ottavo di finale perso soltanto ai rigori contro la Croazia, la stessa Croazia che poi avrebbe eliminato il Brasile nel turno successivo. Oggi, incredibile ma vero, la Nazionale giapponese sta facendo ancora meglio rispetto al 2022. Certo, c’è molta meno risonanza, visto che la Nazionale nipponica non sta giocando la fase finale di un Campionato del Mondo, ma otto vittorie consecutive (con 34 gol fatti e cinque subiti) sono una striscia comunque importante. Inoltre, come se non bastasse, questi otto successi non sono arrivati tutti contro squadre materasso: i Blue Samurai si sono sbarazzati facilmente di El Salvador (in amichevole), Myanmar e Siria (qualificazioni ai Mondiali), ma hanno anche superato Tunisia, Turchia e soprattutto Germania. Di nuovo la Germania. Per di più in trasferta, e con un secco 1-4.
Insomma, l’onda emotiva del Mondiale in Qatar non si è esaurita. Anzi, è diventata ancora più alta. Merito di un progetto fondato su dei pilastri solidissimi. A cominciare dal commissario tecnico Hajime Moriyasu: «Le otto vittorie consecutive sono il frutto del grande lavoro che stiamo portando avanti», ha detto l’allenatore giapponese, assunto nel 2018 e riconfermato quattro anni dopo. Ma su cosa si basa questo lavoro? Intanto su un’identità tattica fluida, in grado di adattarsi agli avversari di turno. È una scelta inevitabile per una rappresentativa come il Giappone, costretta ad alternare partite contro squadre molto deboli (come la maggioranza di quelle affiliate all’AFC, la confederazione asiatica) a sfide in cui parte da sfavorito. E allora bisogna saper gestire il pallone e scardinare difese chiusissime, ma anche ripartire molto velocemente in campo aperto. Contro Germania e Spagna ai Mondiali, non a caso viene da dire, i giocatori giapponese sono stati letali in ripartenza: «Quando passiamo dalla difesa all’attacco ci piace farlo velocemente. Cerchiamo di controllare il gioco, ma a volte è difficile», ha spiegato Moriyasu.
Ovviamente tutte queste idee non porterebbero a nulla, se i giocatori non avessero talento e qualità. Da questo punto di vista, il miglioramento negli ultimi anni è stato esponenziale. Basti pensare che, se guardiamo all’ultima lista dei convocati di Moriyasu, solo cinque calciatori (su 23) militano in club della J-League, il massimo campionato nipponico. Tutti gli altri giocano in Europa, anzi in realtà dopo la vittoria contro la Siria il ct ha anche “risparmiato” alcuni elementi cardine della sua squadra (Kamada, Mitoma, Maeda) per la gara contro il Myanmar. Questa nuova generazione di talenti è germogliata nell’ambito del Project DNA, un visionario programma avviato nel 2016: sette anni fa, gli obiettivi dichiarati della Federcalcio giapponese erano la costituzione di 100 club professionistici e una progressione continua della Nazionale, fino ad arrivare a vincere la Coppa del Mondo entro il 2092. Quando si dice progettare a lungo termine.
Al di là delle battute e dell’ironia su questo progetto, è chiaro che il secondo grande ciclo del calcio giapponese – dopo la fondazione della J-League nel 1992, che alla lunga, cioè sei anni dopo, portò alla prima qualificazione ai Mondiali – abbia determinato una nuova percezione, e quindi una nuova dimensione, dei talenti nipponici all’estero. Merito anche dei club europei medio-borghesi che hanno iniziato a guardare con più attenzione alla J-League: quelli belgi (al momento ce ne sono 16 in Jupiler Pro League, ma in passato sono passati dal Belgio anche Tomiyasu, Kamada, Ito e Mitoma), il Celtic Glasgow dopo l’arrivo di Postecoglou e quelli di Bundesliga, il campionato che storicamente attrae di più i migliori prodotti del calcio giapponese. L’apertura di tanti nuovi canali ha permesso ai migliori talenti nipponici di mettersi alla prova in contesti sempre più competitivi: alcuni, come Minamino al Liverpool, non sono riusciti ad affermarsi al massimo livello; altri, come Mitoma, sono riusciti a costruirsi una reputazione solida. L’influenza del calcio europea è stata anche diretta, come dimostra il profondo legame tra le istituzioni calcistiche di Tokyo e il West Ham United.
Sean Carroll, autore del libro Nihon to Sakkā: Eikokujin no Shuzairoku (traduzione più o meno letterale: Il Giappone e il calcio: conversazioni con un giornalista britannico), ha spiegato al Japan Times che «le cose, negli ultimi vent’anni, sono cambiate completamente. Oggi un giocatore che lascia la J-League per trasferirsi in Europa non ha più la sensazione di aver cambiato pianeta, quando si confronta con compagni e avversari. Di conseguenza, sono più propensi ad accettare contratti dall’estero, e lo stesso discorso vale anche per i club: ora in Europa sanno che un giocatore su cinque, tra quelli prodotti dal Giappone, può rappresentare un buon investimento». Questa crescita della qualità individuale ha creato un vero e proprio circolo virtuoso: gli appassionati giapponesi stanno aumentando, visto che tanti loro connazionali fanno bene nelle leghe più competitive del mondo. E così il baseball è passato in secondo piano: dal 2013, infatti, gli studenti delle scuole elementari giapponesi indicano sempre i calciatori, e non più i campioni NPL o i giapponesi emigrati in MLB, come loro idoli. E sempre più spesso si tratta di Kubo, Mitoma, Minamino.