Pochi minuti dopo aver vinto la partita decisiva della finale di Coppa Davis, quinto successo a Málaga su cinque match giocati in meno di 96 ore, Jannik Sinner è entrato in sala stampa mangiando una mela. Con nonchalance, con calma, come se non avesse appena riportato in Italia la Davis dopo 47 anni, come se poco più di 24 ore prima non fosse diventato il primo giocatore di sempre a sconfiggere Novak Djokovic – ripetiamo insieme, scandendo bene: No-vak Djo-ko-vic – dopo aver annullato tre match point consecutivi, come se non fosse reduce dal terrificante 6-3 6-0 inflitto ad Alex De Minaur – una prova di forza brutale, senza appello, nei confronti del tennista numero 12 del circuito.
L’unicità di Sinner va ricercata proprio nei dettagli come quello della mela, cioè nel modo in cui reagisce a ciò che gli succede: durante le ultime due settimane ha chiaramente messo il timbro sulla patente virtuale che viene consegnata ai migliori tennisti del mondo, non a caso solo un’incredibile prestazione di Djokovic gli ha tolto la vittoria alle Finals, eppure Jannik ha appena aumentato la frequenza della sua gioia, dei suoi festeggiamenti. Tra Torino e Málaga, le tre vittorie contro Nole (due in singolare più quella in doppio) sono state salutate con dei sorrisi soddisfatti ma anche un po’ liberatori e forse anche un po’ perfidi, un po’ sornioni, di quelli che fanno i cattivi dei cartoni che sanno di aver messo l’eroe con le spalle al muro. Solo che l’eroe, almeno per i tifosi italiani, stavolta era lui.
La sensazione era che Jannik sapesse già che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi. E allora perché esaltarsi per una cosa che si conosce in anticipo? Ci saranno – perché ci saranno – le vittorie agli Slam, per cui fare baldoria. Neanche la Coppa Davis l’ha turbato più di tanto: alla fine del massacro perpetrato sulla carcassa tennistica del povero De Minaur, Jannik ha fatto il suo solito sorrisino, poi sono arrivati i componenti della panchina azzurra a sommergerlo di abbracci e di gioia – loro sì che erano belli emozionati. Dopo Sinner ha cantato l’inno, ha alzato l’Insalatiera, ha visto arrivare Nicola Pietrangeli, è andato in diretta a Che Tempo Che Fa e ha mangiato una mela in sala stampa. In ognuna di queste situazioni è parso tranquillo, rilassato, a suo agio. Come se non fosse stato il protagonista assoluto di quella che deve essere considerata una grande impresa, per il tennis e per lo sport italiano.
Probabilmente Sinner e le sue reazioni senza picchi ci sorprendono perché non abbiamo mai vissuto una situazione del genere, nel senso che il tennis italiano non ha mai avuto un campione così grande. L’autoconsapevolezza e l’autocontrollo di Jannik sono direttamente proporzionali alla forza che ha (ampiamente) dimostrato di possedere e di saper maneggiare, all’apice di un percorso di crescita che ha assunto contorni spaventosi: contro Djokovic, nell’unica partita che ha senso analizzare visto che le altre le ha vinte ancora prima di entrare in campo, per manifesta superiorità, Jannik è stato micidiale nel primo set, ha tenuto sempre un ritmo altissimo, ha sfruttato benissimo il servizio (percentuale di prime pari del 64%, a fine partita il conto ace gli è stato favorevole per 12-6) e così è riuscito a mandare in confusione il miglior giocatore di sempre per potenza e precisione delle risposte. Nel secondo set la situazione si è ribaltata, Nole è entrato mentalmente in partita e Sinner è un po’ calato, d’altronde solo un alieno avrebbe potuto mantenere certi standard così a lungo. L’inerzia del match sembrava andare verso Djokovic anche al terzo, come succede inesorabilmente da 15 anni, ed è così che siamo arrivati ai tre match point.
Ma è qui che si è manifestata la grandezza di Sinner: una minima incertezza del suo avversario sul primo punto l’ha caricato – internamente, fuori come al solito non è trasparso nulla – a cannone, poi sono arrivate due bombe al servizio e la vittoria in un game che Novak avrebbe vinto contro chiunque. Ma non contro questo Sinner. Non a caso, viene da dire, il numero uno del mondo ha affrontato i due giochi successivi con un volto contrariato per non dire rassegnato, Sinner non ha dovuto nemmeno impegnarsi al massimo per vincerli. E la stessa sensazione ha caratterizzato tutto il doppio giocato con Sonego e Kecmanovic, un match in cui la rabbia e lo spaesamento di Djokovic si percepivano piuttosto chiaramente nell’aria del palazzetto di Málaga, o anche solo guardando la partita in tv. In fondo non può essere facile, per un re che non ha deciso di abdicare, guardare qualcuno che sta per sfilarti la corona, e che alla fine te la sfila. Anche se solo per pochi minuti.
In case you missed it…
The first player to win after three consecutive Novak Djokovic match points 🫡#DavisCupFinals | @federtennis pic.twitter.com/9CS5Z64nFW
— Davis Cup (@DavisCup) November 25, 2023
Un filmato che entra di diritto nella storia dello sport italiano
A quel punto, avranno pensato tutti, l’ostacolo più grande era stato superato, il più era fatto. E invece la finale contro l’Australia ha riannodato i fili della storia, ha riacceso il fuoco sotto il calderone della Davis. Che oggi ha un’altra formula ed è un’altra cosa rispetto al passato, questo è inutile ribadirlo per la cinquecentesima volta, ma resta comunque una competizione con un’anima tutta sua, in cui la tecnica e la strategia si legano in modo unico all’interpretazione degli eventi attraverso una lente puramente emotiva. Tutto questo per dire che la partita tra Matteo Arnaldi e Alexei Popyrin si sarà pure giocata sui tre set, come prevede il nuovo regolamento, eppure ha ricordato le vecchie sfide di Gaudenzi e Sanguinetti e Nargiso, o anche di Panatta, Barazzutti e Bertolucci, per chi ne ha memoria. Insomma, è stata Coppa Davis in purezza, vale a dire un cocktail di turbamenti ed errori e scambi esaltanti e momenti durissimi. Proprio come la sfida tra Musetti contro Kecmanovic, come il match tra lo stesso Arnaldi e Botic van de Zandschulp nel primo singolare dei quarti di finale. Alla fine tra Arnaldi e Popyrin è stato Matteo a venirne fuori, a vincere. E le sue lacrime di commozione hanno raccontato come ci è riuscito: ha dato tutto quello che aveva, ha giocato con i denti prima ancora che con la testa, esattamente come avevano fatto lui e Sonego a settembre, quando l’Italia di capitan Volandri era spalle al muro, a un niente dall’eliminazione, e anche in quel caso fu Sonego a salvare non tre, ma addirittura quattro match point. Lo ricorderete, era la partita contro Nicolás Jarry. Allora fu necessario anche un drammatico challenge per tenere in vita la Nazionale azzurra.
Ecco, magari bisogna partire proprio da qui, per parlare di questa nuova Coppa Davis. E del fatto che sia tornata finalmente in Italia. È chiaro che il trionfo del 2023 non abbia il valore culturale e persino politico di quello ottenuto a Santiago del Cile nel 1976, del resto come avrebbe potuto, ma a livello sportivo il significato è del tutto similare. Forse anche superiore. Intanto perché la Davis non avrà più lo stesso prestigio degli Slam, va bene, eppure resta un affascinante torneo di sangue e merda, un torneo fatto di durissimi combattimenti corpo a corpo, di partite epiche, soprattutto quelle che coinvolgono i fuoriclasse – e questa nuova formula è l’unica possibile perché i fuoriclasse decidano di andarsela a giocare, l’Insalatiera. E poi, è bene ribadirlo, ora l’Italia ha un fuoriclasse vero, un campione generazionale, completo, un leader che può trascinare una buonissima Nazionale – Musetti, Sonego e Arnaldi fanno un gran bel trio, in attesa che torni Berrettini e/o esplodano Cobolli e Nardi – dentro una nuova età dell’oro. A loro tempo lo hanno fatto anche Panatta-Barazzutti-Bertolucci-Zugarelli, con quattro finali di Davis raggiunte e una vittoria. Sinner e i suoi compagni promettono di fare di più, dopo aver eguagliato chi li ha preceduti. Non è così assurdo pensare che possano riuscirci, in barba ai rigurgiti di nostalgia e di invidia mascherata da nostalgia, al rumore inutile delle polemiche.