Paura e delirio in Coppa Davis

Siamo stati a Bologna per seguire il girone dell'Italia. E un nuovo modo di vivere la Davis.

In alcuni momenti del weekend tra il 15 e il 17 settembre, momenti lunghissimi e dolorosissimi, l’Italia è stata praticamente fuori dalla Coppa Davis 2023. Venerdì 15 a Bologna, nel catino nero e stroboscopico dell’Unipol Arena che andava riempiendosi per la partita tra gli Azzurri e il Cile, Lorenzo Sonego ha dovuto annullare quattro match point a favore del suo avversario, Nicolás Jarry. Uno di questi match point è stato sventato grazie a un Challenger, una seconda di servizio di Sonego aveva pizzicato appena la riga, era stata chiamata fuori, la partita era finita ma poi è tornata in vita e si è ribaltata. Fosse andata diversamente, il Cile avrebbe pareggiato 1-1 e probabilmente avrebbe invertito l’inerzia della sfida contro gli Azzurri, della propria Coppa Davis, della C0ppa Davis dell’Italia. Non è il luogo e non è il caso di rispolverare la retorica spicciola dei centimetri che determinano lo sport e la vita, quella di cui Woody Allen ha imbevuto il suo discutibile Match Point, ma partire da qui, da quello che è successo, è il modo giusto per riflettere un po’ sulla Coppa Davis. Su ciò che è diventata. Sulle emozioni che trasmette in questa sua sua nuova veste.

Domenica 17 settembre, nel momento in cui è finita la partita tra Matteo Arnaldi e lo svedese Leo Borg figlio-di-Björn, lo stesso momento in cui l’Italia ha conquistato la certezza incontrovertibile di partecipare alle Finals di Málaga, l’Unipol Arena si è incendiata di felicità ed entusiasmo. Anche perché era piena. Considerevolmente più piena rispetto a venerdì, quando Sonego ha salvato quattro match point, capovolgendo il destino dell’Italia. Ed è meglio non fare il confronto con Italia-Canada, che invece si è disputata mercoledì. Questa è una stortura evidente della nuova formula pensata per la Davis: l’amore per la Nazionale azzurra del tennis, un sentimento popolare che è tornato a farsi percepire mentre fioriva il talento dei Sinner e dei Berrettini e dei Musetti, ora deve fare i conti con un calendario compattato ma diluito su più giorni, con i ritmi della settimana feriale, come se fosse un torneo qualunque. E allora il rischio – un rischio concreto, a Bologna è andata proprio così – è che molti tifosi possano perdersi i punti decisivi, quelli che fanno la differenza nella partita che cambia lo scenario dell’intero girone. O magari quelli più belli, che regalano un’emozione diversa ma comunque intensa.

Sui seggiolini dell’Unipol Arena, mentre in campo i giocatori colpivano la palla con tutta la forza che avevano, i nostalgici della vecchia Davis e i nuovi appassionati – ma anche i giornalisti e gli altri addetti ai lavori – hanno passato decine di minuti a interrogarsi tra loro sull’esito incrociato delle varie partite: chi avrebbe passato il turno se l’Italia avesse perso uno dei tre match contro il Cile? Come sarebbe andata a finire tra Canada e Cile? E se alla fine fossimo arrivati alla pari con i cileni, com’era il nostro quoziente set rispetto a loro? Sarebbe bastato vincere con la Svezia oppure era necessario fare il cappotto? Ecco, questa è una notizia: la nuova Davis può piacere o meno, in tanti dicono di non apprezzarla, ma nell’Unipol Arena di Casalecchio di Reno, Bologna, questa Coppa Davis ha fatto respirare del fermento, una forma – anche morbosa, a pensarci bene – di attenzione. È la dimostrazione che il format a gironi, per quanto cervellotico e osteggiato da più parti, alla fine funziona. Perché genera tensione, eccitazione, anche oltre la singola partita e la sfida da determinare col pallottoliere.

Alcuni dei punti più belli e importanti – non tutti, era impossibile condensarli in un video che non fosse un mediometraggio – di Sonego-Jarry

La nuova Coppa Davis, si può dire, aggiunge emotività a emotività. È sempre il vecchio caro tennis – uno sport epico, crudele, individuale che diventa di squadra in Davis, scacchistico, durissimo, aristocratico, profondamente umano – che però acquisisce elementi di stampo calcistico, viene da dire. Però sono tra quelli migliori, tra quelli sani, ovvero l’incertezza degli incastri legati al round robin, la possibilità che il destino di una squadra non sia solamente nelle mani di chi va in campo – questa è una cosa che magari può sembrare contorta e anche ingiusta, però è davvero affascinante, anche se sei coinvolto da tifoso. È andata così proprio nel match tra Sonego e Jarry, con i quattro match point annullati e poi la vittoria 7-5 di Sonego al secondo set: è stata la classica partita da paura e delirio, prima paura e poi delirio, a un certo punto il vento è cambiato e nell’aria si sentiva quell’elettricità per cui Sonego alla fine avrebbe vinto al terzo, Jarry non aveva speranze dopo quei quattro match point falliti, nel tennis la mente e l’entusiasmo sono delle armi potentissime e così all’Unipol Arena tutti – ma proprio tutti – erano certi che Lorenzo non avrebbe mai potuto perdere quella partita riacciuffata per i capelli, infatti alla fine ha vinto. Ha vinto ed esultato e abbracciato Volandri e la sua panchina nel tripudio generale di un’arena ormai piena, di venerdì sera, all’ora di cena: non proprio un’ora da Davis, ma non era poi così male. Nonostante quella vittoria, però, il format e il calendario – entrambi diabolici – avrebbero potuto rendere tutto inutile: se il Cile avesse vinto 3-0 contro il Canada, l’Italia sarebbe stata eliminata comunque.

La Coppa Davis di quest’era, insomma, assomiglia molto al tennis, anche se rinnega una parte significative delle sue tradizioni, della sua essenza: si sta sempre sulle montagne russe, paura e delirio. Questo, naturalmente, non vuol dire che l’unico difetto del nuovo format sia la collocazione di alcune partite al di fuori del weekend: sul suo Twitter, per esempio, StanWawrinka ha fatto notare – con tutte le ragioni del mondo, per altro – che far giocare Francia-Svizzera di martedì (!) a Manchester (!!) non sia proprio una buona idea, se l’obiettivo è riempire i palazzetti. E poi la vecchia epica delle gare in casa/trasferta non c’è più, sostituita da un evidente vantaggio per una e una sola Nazionale, quella che ospita il girone. Infine, c’è ancora il problema dei big che non partecipano fino alle fasi finali, e in questo senso basta fare il nome di Jannik Sinner per capire che possono nascere delle polemiche anche belle grosse, nonostante la rivoluzione. A pensarci bene, però, quello relativo all’assenza dei grandi nomi è un morbo con cui la Davis combatte più o meno da sempre, in fondo tutti i fuoriclasse che hanno fatto la storia del tennis l’hanno praticata e amata solo a intermittenza – diciamo pure a convenienza, ovvero in base ai loro impegni personali nei grandi tornei.

Poi però ci sono storie che mettono d’accordo tutti, persino guelfi-nostalgici e ghibellini-modernisti. Quella di Matteo Arnaldi, per esempio:  l’esordio un po’ a sorpresa – l’ha detto lui stesso, in conferenza stampa, che si aspettava di giocare «molto meno» – e la vittoria in rimonta, altra partita da paura e delirio, contro Garín, contro il Cile, così è arrivato il punto che in pratica ha tirato fuori l’Italia dalle sabbie mobili; e poi il trionfo contro Borg, la partita che ha messo fine a ogni paura, tutti in piedi all’Unipol Arena di domenica pomeriggio, come ai bei tempi di Panatta e forse anche di Pietrangeli, la Coppa Davis di una volta che non esiste più e invece c’è ancora, il tennis che celebra i suoi miti ma in realtà li rinnova e quindi si rinnova, perché è così che devono andare le cose, indignazione compresa. A suo tempo qualcuno sollevò qualche obiezione persino sull’introduzione dei Challenger e della tecnologia Hawkeye, signora mia vuoi vedere che il gioco perde la sua anima? E invece Sonego e l’Italia hanno rimesso in piedi una partita, e tecnicamente possono ancora vincere la Davis, proprio grazie a quelle vecchie-nuove idee che oggi sono diventate parte dello scenario e sembrano esserci da sempre. Tutto questo per dire che il presente della Davis e del tennis e dello sport è certamente pieno di errori, è indubitabilmente iper-capitalista, svuotato di memoria e di storia e quindi di alcuni dei vecchi valori. Ma non è un posto così brutto, in cui fare una capatina. Anzi, frequentarlo è piuttosto divertente.