La costruzione di un campione: dialogo con Jannik Sinner

Il racconto di un miglioramento rapido e costante: nel tennis, nel campo, ma anche e soprattutto nella testa.

In una piovosa giornata del novembre 2019, Jannik Sinner mi ha steso. All’epoca, non ho mai capito perché, i media hanno ignorato la notizia, ma forse è giunto il momento di recuperarla. Dunque, è andata così. Emanuele Farneti, che allora dirigeva Vogue Italia, aveva deciso di dedicare l’ultimo numero dell’anno – o il primo dell’anno nuovo, non ricordo bene – ai nuovi italiani, cioè a una serie di personaggi che verosimilmente, di lì a poco, avrebbero fatto onore al caotico paesucolo senza necessariamente ricalcarne i cliché. E per la copertina – oggi è abbastanza facile da dire, ovviamente – aveva scelto Jannik. Essendo altri tempi, all’augusta testata era stata concessa un’intera giornata in compagnia del giovanotto, così da dare modo al cronista di guardarlo da vicino, e addirittura scambiarci quattro chiacchiere. Si fa per dire, come vedremo.

Per chi si fosse messo all’ascolto solo adesso, nel novembre 2019 Jannik aveva appena compiuto diciotto anni. Non frequentava ancora in pianta stabile il circuito maggiore, ma grazie a qualche scalpo importante – Tiafoe e Monfils, ad esempio – aveva conquistato il 93° posto del ranking ATP, risalendo di circa 400 posizioni rispetto all’anno precedente, e arrivando in vista della vetta – ma rimanendo in contatto visivo anche con l’abisso, a seconda di dove si volgeva lo sguardo.

Dove volgerlo, al momento, lo decideva Riccardo Piatti. Per chi non ne ha avuto un’esperienza diretta è difficile capire come si svolga la formazione di un tennista di vertice – anche, e soprattutto se, immensamente dotato come Jannik. È difficile capire su cosa lavori chi lo prepara, come è difficile capire perché, interrogati a riguardo, i tennisti siano sempre così vaghi. Il lento, maniacale lavoro sui dettagli è di fatto molto complicato da svolgere, e quasi impossibile da raccontare. A tavola, mentre sua moglie ordinava a Jannik un piatto di pasta al pomodoro spiegandogli anche perché glielo avesse ordinato, Piatti ha tirato fuori il telefonino e mi ha mostrato il suo archivio di foto e filmati. Per quanto scrollasse – e ha scrollato moltissimo – sotto gli occhi passava un solo tipo di immagine: centinaia di foto e video con colleghi allora più illustri di Jannik nell’esecuzione di dritti, rovesci e così via. C’era da impazzire, ma è una sensazione che, per chi conosce il tennis, è più o meno un rumore di fondo. Comunque, quello che Piatti voleva farmi vedere era il dritto di non ricordo più chi – per non sbagliare, facciamo Federer. Me lo ha mostrato sette o otto volte di fila, chiedendomi se non notassi qualcosa. A parte che era un colpo supremo, e che avrei pagato una cifra piuttosto alta per averne tirato in vita mia uno che anche solo vagamente gli assomigliasse, no, non notavo niente. Deluso, Piatti mi ha spiegato che la racchetta, in fase di preparazione, era piegata a non so quanti gradi – mettiamo pure 55. Poi mi ha chiesto se avevo notato niente nel dritto di Jannik. Avendolo visto palleggiare per un’ora buona, no, se non che i colpi – tutti – sembravano andare da soli, e che dal vivo sembrava un tennista molto più fluido e naturale, molto meno costruito che in televisione. Impietosito, Piatti a quel punto mi ha spiegato che in fase di preparazione al colpo attualmente la racchetta di Jannik si piegava a – di nuovo, mettiamo – 51 gradi: e che se a fino stagione lui e il suo staff fossero riusciti a portarlo a 53, un risultato l’avrebbero raggiunto.

Jannik intanto aveva spazzolato gli spaghetti, senza smettere di seguire la conversazione. E, a proposito di obiettivi, ho provato a chiedergli direttamente quale fosse il suo. Giocare – altro immaginario – 54 partite nel circuito, venti più dell’anno scorso, mi ha detto. Benvenuti in quel luogo alieno, e inospitale, che è la mente di un tennista. Quella di Jannik era particolarmente inaccessibile, almeno allora, anche se la sua scarsissima propensione alla chiacchiera – e soprattutto al proclama – facilitava enormemente il compito di dimostrare che avevamo per le mani un probabile fuoriclasse, ma di una variante cui quasi 34 nessuno degli schemi autarchici si applicava. Quasi a ogni domanda Jannik rispondeva con una parola, sempre la stessa: «Normale» (con la “e”, si sospettava, aggiunta in extremis). Nella maggior parte dei casi era la risposta che le domande meritavano, ma quando mi ha detto che anche trovarsi davanti, a 16 anni, Roger Federer, era stato normale, mi sono strappato dalla faccia il sorrisetto idiota e ho tradotto la battuta nella serie di concetti che, in realtà, conteneva: senti, brutto scemo, gioco a tennis da parecchi anni, i miei mi hanno sempre appoggiato, questi qua si fanno un mazzo così per darmi una mano, io voglio diventare molto forte, se vedessi Federer e mi tremassero le ginocchia non credi che starei perdendo? Impeccabile. E non era tutto, perché ancora dietro il sottotesto c’era un elemento molto evidente, e questo sì insospettabile: una certa, anche piuttosto pronunciata, carica di ironia.

Nel momento esatto in cui Jannik Sinner ha iniziato a sfilare sul green di Wimbledon con una borsa griffata Gucci, il tennis ha fatto un passo verso il futuro. Perché uno dei giocatori più rappresentativi della nostra era ha annunciato una partnership con un brand iconico, ma anche perché ha determinato dei nuovi legami tra sport e lusso.

A un certo punto, col solito problema di arrivare a diecimila battute, gli ho esposto una mia teoria che mi era parsa di straordinario acume, e che cioè che dopo avere stritolato la generazione subito dopo di loro, adesso i Tre (o Quattro, o Cinque) Grandi cominciassero a avere qualche problema, perché in effetti quelli della Next Gen (quella che a fini di marketing per qualche anno l’ATP ha cercato di vendere come la sua cantera) cominciavano a correre di più, a giocare più veloce, e a tirare più forte di loro. Lì Jannik mi ha guardato come dentro di sé sicuramente guardava i fessi che gli alzavano un lob troppo corto, e ha messo a segno lo smash cui alludevo all’inizio: «Sì, non è che Federer tira piano, eh?».

Dal 2019 a oggi il mondo è cambiato fino a essere irriconoscibile – e anche il tennis. Di grandi integri ne sopravvive uno, che si è ritagliato il ruolo piuttosto curioso di un absentee landlord: ogni tanto si presenta nei suoi possedimenti (qualche 1000 di pregio, più naturalmente gli Slam), ma per il resto vive molto lontano, neanche si sa bene dove – e lascia che i suoi vassalli mandino avanti la baracca senza di lui. Cosa che stanno facendo, peraltro, molto bene. «Per questa generazione, la qualità dei tennisti nelle prime 15 posizioni e anche di più è altissima», conferma Jannik. Ma sono anche molto diversi fra loro. Spesso quindi si creano le condizioni necessarie, anche se non sempre sufficienti, per vedere un bel match – due stili opposti a confronto, per non farla tanto lunga. In altre parole, la lagna andata avanti per anni – giocano tutti uguale – non attacca più: niente lega l’isteria creativa di Rune a quella tenebrosa di Rublev, lo stile olimpico di Korda al tennis non euclideo di Medvedev, il globetrotterismo di Shelton… beh, a niente altro.

E allora, cosa manca? Ecco, una cosa piuttosto importante, e molto semplice: uno o più fuoriclasse assoluti, che garantiscano gli inaggirabili requisiti di durata e shining. È un paradosso, cioè una materia prima fondamentale del tennis: abbiamo appena smesso di deplorare il fatto per certi versi scoraggiante, che per quindici anni i grandi tornei li abbiano vincessero sempre i soliti tre, e ora ci rendiamo conto che senza successori all’altezza il tennis maschile rischia di fare la fine del femminile dopo il ritiro di Serena, cioè di diventare uno spettacolo interamente affidato a comprimari di livello magari eccelso, ma sostanzialmente intercambiabili. Non il massimo, ai fini dell’intrattenimento e della fandom.

Per qualche mese è anche sembrato non dovesse essere così. Dopo Wimbledon ‘23, in molti abbiamo pensato che Carlos Alcaraz avrebbe vinto ogni torneo giocato da qui ad almeno dieci anni, accumulando un numero di Slam, fatti due conti, almeno doppio rispetto a quello che Djokovic si fa stampare su borsa e scarpe. Per varie ragioni – al momento essenzialmente fisiche, ma non sono un dettaglio – non sta andando così. Rimangono quindi il landlord di cui sopra, che tuttavia va per i 37, e altri dieci, quindici, anche venti candidati (quelli citati prima, più alcuni altri) in grado di sgomitare per i due o tre ruoli da protagonista assegnati dal copione, ma in realtà non così sicuri di conquistarli. Con una sola eccezione – indovinate quale.

Sinner è un tennista efficace su tutte le superfici. Il cemento, però, è chiaramente quella che preferisce, visto che la sua percentuale di vittorie è pari al 74%.

La scaramanzia è uno dei due o tre pilastri su cui il tennis si regge, e noialtri follower siamo senza distinzione come Niels Bohr, che a domanda se credesse davvero al ferro di cavallo che aveva inchiodato alla porta dello studio rispondeva: naturalmente no, ma tanto funziona lo stesso. E tuttavia, a guardare le cose come stanno, l’eccezione di cui sopra è a tanto così da diventare il numero – beh sì, il numero uno al mondo. Le ragioni sono abbastanza chiare, e in parte oggettive: il landlord giocherà sempre meno, Alcaraz come si è detto ha parecchio da recuperare, Medvedev è battibile (e a questo punto battuto, più volte di fila): e così via. Ma non è tutto, naturalmente: il fatto, visibile a chiunque, è che Jannik gioca ogni partita meglio della precedente, e impara – moltissimo, e soprattutto molto velocemente – dagli errori.

Qui c’è qualcosa di assolutamente unico, vista l’enorme difficoltà di qualsiasi tennista a uscire dai propri schemi – per conferma indiretta chiedere a uno dei più spiritosi, Andrej Rublev, che a domanda se avesse imparato qualcosa dalle lezioni prese da Djokovic ha risposto: naturalmente no, infatti continuo a perderci. Gran battuta, ma dubito che Jannik la troverebbe divertente. Quando dice che appena perde con qualcuno non vede l’ora di rigiocarci va preso in parola, e chi avesse qualche dubbio deve solo riguardarsi i due match ravvicinati con Ben Shelton. A Shangai, Shelton lo aveva preso di sorpresa, con la tattica che tutti sanno andrebbe usata contro i grandi difensori, ma che nessuno poi osa mettere in pratica nel timore, fondato, di lasciarci le penne: l’attacco forsennato. A Vienna, due settimane dopo, Sinner ha capovolto la situazione, anticipando regolarmente Shelton e facendogli giocare, e perdere, una partita uguale e contraria.

Nelle more di Bercy ho provato a chiedere a Jannik, per iscritto, come avesse fatto a capovolgere quell’inerzia, e lui mi ha risposto come sempre nel modo più diretto: lavorando con lo staff su due o tre cosine che andavano cambiate. Non mi ha spiegato quali, e del resto le cosine lo sono davvero, al punto che difficilmente un esterno ne capirebbe l’importanza – vedi la reazione del sottoscritto allo scroll di Piatti. Ma in campo, quelle cosine cambiano tutto. Per capirle bisogna anche guardare molto tennis altrui, una cosa che non molti giocatori fanno, e che ero abbastanza certo Jannik considerasse parte del lavoro. «Certo», mi ha detto, «ne guardo moltissimo, e mi piace: ma non è che lo guardo, lo studio». Già.

Il primo talento manifestato da Jannik Sinner, in realtà, non è stato quello tennistico: da bambino, infatti, era una grande promessa dello sci, per la precisione dello slalom gigante.

Ho anche provato a chiedergli se, nel prosieguo della carriera, intendesse procedere come suggerisce di fare Al Pacino in Ogni maledetta domenica, un centimetro alla volta – perché questa, gli ho detto, è la sensazione di chi lo segue. «Sì», mi ha risposto, «ci sono molti aspetti su cui stiamo lavorando. Sul fisico, e sulla testa. Io so benissimo cosa mi manca, quindi mi concentro esclusivamente su quello». Elusivo? Jannik lo sembra, ma non lo è. Il pezzetto che gli manca è difficile da definire, se non come quel qualcosa che costringe qualsiasi avversario a giocare alle tue condizioni, senza contromisure da opporti. Ci siamo quasi. In alcuni tratti di alcuni match ci siamo già, e su un piano più generale, al di là dei risultati, non si ricorda un tennista del paesucolo in grado di partire quantomeno alla pari contro qualsiasi collega in attività.

Ma manca ancora appunto il pezzetto, o il centimetro, di cui sopra. Dove trovarlo? Personalmente non ne ho idea, ma Jannik a quanto pare sì. Nei mesi scorsi ha dichiarato che gli piace leggere, soprattutto libri in cui si spiega come le cose funzionano. Tipico suo. Poi questo tipo di interesse ha preso una piega molto più promettente: «Negli ultimi tempi», ha detto, «mi sto molto occupando di come funziona il mio cervello». Fermi tutti. Qui, come si dice, c’è la notizia, e se davvero Jannik fra uno Slam e l’altro partisse per un viaggio intorno alla sua mente bisognerebbe metterlo subito sotto contratto, pretendendo da lui, al ritorno, un resoconto scritto. Dopotutto gli editori dell’Ottocento lo facevano sempre: e sì che gli esploratori cui versavano un anticipo partivano solo per continenti inesplorati, non per i luoghi oscuri dove entità spesso malevole stabiliscono se insistere, oppure no, con un back di rovescio.

Dalla storia di copertina di Undici n°53
Foto di Greg Williams
Image courtesy of Gucci