«Si cominciano a intravedere piccole crepe, siamo un po’ in difficoltà. Ci stiamo giovando ancora della nostra riforma del 2000: ci ha dato tanto, successi, infrastrutture, ma ci siamo adagiati un po’. Altre Nazionali si sono mosse meglio di noi. Non dobbiamo risvegliarci in malo modo come nel 2000 e renderci conto che siamo stati superati, che non siamo progrediti». Quando Oliver Bierhoff pronunciò queste parole, il 14 giugno 2018 nell’ambito di un’intervista rilasciata alla Gazzetta Dello Sport, eravamo alla vigilia del Mondiale in Russia. E più di qualcuno aveva sorriso, pensando si trattasse della classica uscita per smorzare le aspettative prima di una grande competizione internazionale. In fondo la Germania si presentava ai nastri di partenza con i gradi di campione in carica e con tante possibilità, sulla carta, di fare il bis. Nessuno poteva immaginare che quel Mondiale sarebbe stato solo il primo di una serie incredibile di fallimenti. Da allora, nel giro di cinque anni la Nazionale tedesca è arrivata a uno dei punti più bassi della sua storia. E, una volta toccato il fondo, invece che risalire, ha iniziato persino a scavare.
Oliver Bierhoff, amministratore delegato e direttore sportivo della Nazionale, ha rassegnato le dimissioni dopo il Mondiale in Qatar. Così ha chiuso una parentesi durata 18 anni all’interno della Federazione. Con quelle rilasciate alla Gazzetta e con altre dichiarazioni aveva dimostrato una volta di più la sua lungimiranza. Eccone un’altra, per esempio: «Dobbiamo guardare avanti e non soffermarci su quanto fatto: se cinque anni fa, nel 2013, avevamo sei o sette giocatori straordinari nel settore giovanile, adesso ne abbiamo un paio. E non sono nemmeno giovanissimi». Parole premonitrici, a dire poco. Certo, forse pensare che la Germania potesse davvero far registrare due eliminazioni ai gironi consecutive ai Mondiali, con in mezzo un Europeo in cui la qualificazione agli ottavi – poi persi contro l’Inghilterra – è arrivata solo in extremis, grazie a un pareggio inopinato contro l’Ungheria, sembrava troppo anche per il più pessimista dei tifosi. Eppure è esattamente quello che è successo. E la cosa più grave è che tutto questo è avvenuto in modo meritato, visto che da Russia 2018 a Qatar 2022 quasi ogni partita è sembrata la triste ripetizione di un copione che nessuno sembrava in grado di stracciare e riscrivere daccapo, o quantomeno di modificare.
Il bilancio complessivo, in particolare quello del 2022 e del 2023, è impietoso: più sconfitte (otto) che vittorie (sette), con otto pareggi. Significa che la Germania ha vinto solo il 30% delle partite giocate negli ultimi due anni, tra Nations League, Mondiali e amichevoli. Sarebbe stato uno score un filo più accettabile (ma proprio un filo…) se in questo biennio la Federazione avesse deciso di intraprendere una sorta di rivoluzione come fu quella del 2000, quella che portò all’introduzione dei centri federali e alle riforme dei settori giovanili – i provvedimenti che, di fatto, hanno prodotto la squadra campione del mondo del 2014. Invece ai piani alti della DFB non è cambiato sostanzialmente nulla, se non la persona seduta sulla poltrona riservata al presidente. Non per scelte, ma per vari scandali di cui si son resi protagonisti Grindel (con il caso Özil) e Keller, dimissionario dopo aver paragonato un suo funzionario a un giudice responsabile dell’olocausto.
Per il resto, un vero e proprio svecchiamento, un ricambio generazionale, non c’è mai stato. Dietro le scrivanie come in campo, dove si è andati avanti con Joachim Löw fino all’Europeo del 2021, anche se il suo contratto era valido pure per la Coppa del Mondo in Qatar. Altre vicissitudini – tra le quali anche i sei gol subiti dalla Spagna in una storica sconfitta di Nations League – hanno indotto a optare per un cambio già prima dei Mondiali, con il ritorno di Hansi Flick, storico ex vice di Löw, mente tattica sopraffina, campione del mondo e reduce dal biennio al Bayern in cui ha vinto letteralmente ogni cosa. Cosa mai poteva andare storto? Tutto. Perché di fatto non c’è mai stata quella tanto auspicata rivoluzione, il taglio col passato, quello che aveva provato a dare lo stesso Jogi facendo fuori Jérome Boateng, Mats Hummels e Thomas Müller. Decisione dal tempismo estremamente rivedibile, visto che tutti e tre stavano vivendo un grande momento a livello di club. Al punto che oggi proprio Hummels e Müller siano rientrati nel giro delle convocazioni, per altro in modo meritatamente.
Le nove vittorie (più la sconfitta interna con la Macedonia del Nord) nella fase di qualificazione mondiale avevano illuso che la Germania fosse tornata a essere una squadra brillante, che potesse contare ancora sui principi del Löw post-Mondiale per vincere le partite. Addirittura in quel periodo era passato in secondo piano il tema dell’assenza di un uomo d’area che raccogliesse l’eredita di Klose, argomento cardine dell’ultimo decennio, visto che tutti i vari centrocampisti, esterni e trequartisti (Gnabry, Sané, Werner, Gündogan, Havertz, Müller) si erano equamente divisi i gol. Poi è bastato che qualcuno di loro entrasse in un vortice di sfiducia nel proprio club perché il castello di carte crollasse al primo soffio di vento. Lo stesso discorso vale per la difesa, palesemente inadatta a giocare a campo aperto, senza né gli uomini né la struttura per proporre il gioco del 2014 – quando c’erano Lahm, Boteng e Hummels, ma soprattutto uno Schweinsteiger che non mancava mai un anticipo, e nel caso ci pensa il libero col numero uno sulla schiena che risponde al nome di Manuel Neuer. Oggi lo stesso Neuer non è lo stesso di nove anni fa (e ci mancherebbe), Hummels nemmeno. E nessuno di quelli che sono stati chiamati a fare un passo avanti è mai riuscito a tenere un rendimento affidabile e continuo. Non Süle, non Rüdiger, nemmeno Ginter o Tah. Per non parlare dei terzini.
Chi doveva essere leader non è mai riuscito ad esserlo fino in fondo: Kimmich, in primis, è sempre sembrato l’ombra del giocatore brillante che si vede(va?) al Bayern Monaco. C’è stato bisogno di Wirtz (prima di un anno ai box), di Musiala, e che Ole Werner rendesse il Werder Brema una macchina da gol valorizzando il quasi trentenne Niclas Füllkrug, per portare quantomeno un po’ di entusiasmo e freschezza. In ogni caso, è stato troppo poco. Così la distanza tra la Nazionale e i suoi tifosi è così diventata sempre più ampia: i tedeschi si sono stancati di vedere partite tutte uguali, con i giocatori che commettono gli stessi errori, come in un loop continuo che non ammette correttivi, per un motivo o per l’altro. Finché ci si è accorti, forse troppo tardi, che il percorso scelto per avviarsi all’Europeo da giocare in casa nel 2024 era diventato impraticabile.
Ed ecco l’entrata in scena di Julian Nagelsmann, forse l’unico personaggio nel panorama tedesco in grado di attuare qualcosa di simile a una rivoluzione. E di farlo in poco tempo, dando nuovi stimoli, mettendo in discussione le (vecchie) certezze, resettando le gerarchie, avviando anche una sorta di sperimentazione, tutto nel tentativo di raddrizzare – e con una decina scarsa di amichevoli da disputare prima dell’Europeo – tutto ciò che stava andando storto in soli nove mesi. Per capire se Nagelsmann riuscirà nel suo obiettivo servirà aspettare ancora un po’, visto che ha avuto a disposizione pochissimo tempo per lavorare sul suo nuoo gruppo. Le prime mosse hanno certamente fatto intravedere un cambiamento reale rispetto al lavoro dei suoi predecessori, a partire dall’esperimento con Kai Havertz da terzino sinistro – un’idea che dovrebbe portare avanti anche a lungo termine. Stesso discorso per l’utilizzo di Leroy Sané a fare il quinto di centrocampo, un’intuizione già vista a tratti nel suo vecchio Bayern e non proprio riuscitissima, specialmente alla luce del fallo di reazione commesso nell’amichevole contro l’Austria, un gesto che va in contrasto con la serenità che manifesta ogni settimana, quando fa a pezzi tutte le difese di Bundesliga. Solo che in quel caso indossa la maglia del Bayern, non quella della Germania. Per inciso: la Germania non solo ha perso la gara contro l’Austria per 0-2, ma ha anche offerto una prestazione di squadra indegna, indifendibile.
A tutte queste novità si aggiungono anche: la nomina di Gündogan a nuovo capitano, almeno fino a che Neuer non smaltirà il suo infortunio; la scelta di rinunciare a Kimmich, quantomeno da titolare; la decisione di stilare la lista dei convocati secondo il criterio del merito, senza fare preclusioni di censo o di blasone – una scelta controcorrente rispetto allo stile di Löw e Flick, che avevano creato un gruppo di calciatori quasi fisso. È così che giocatori come Ducksch, Prömel, Andrich, Führich, Blaswich, Wolf e Behrens sono stati chiamati e valutati: al di là dei risultati, ancora negativi, almeno è stata risvegliata l’attenzione – o meglio: la curiosità – del pubblico.
In realtà tutte queste convocazioni rappresentano anche un tentativo, da parte di Nagelsmann, per colmare le lacune strutturali della Nazionale. Magari anche proponendo qualcosa di nuovo a livello tattico, qualcosa che non si sia già visto in passato. Insomma, il nuovo ct sta provando a risolvere il vero e grande problema vissuto dalla Germania negli ultimi anni, ciò che ha caratterizzato le sconfitte contro il Giappone, l’eliminazione in Qatar, quella in Russia, i flop in Nations League e all’Europeo. Ecco, appunto: l’Europeo. A sei mesi da un grande torneo da giocare in casa, lo spettro di vedere un’altra Nazionale altro vincere in Germania, come già successo nel 2006, è tornato ad aleggiare nella mente di un po’ tutti. Come quelle parole di cinque anni fa: la stagnazione, l’adagiarsi, il soffermarsi. Aveva ragione Bierhoff, anche se nessuno gli credeva davvero.