I calciatori sono la base di tutto, intervista a Umberto Calcagno

Il presidente dell'Associazione Italiana Calciatori parla del Gran Galà del Calcio, del valore dei premi individuali. Ma anche dell'importanza di preservare la salute, l'integrità, il futuro dei giocatori.

I premi nel calcio bisogna imparare a leggerli, a interpretarli, perché possono avere una valenza relativa e sfumata, significati non così didascalici come potrebbero sembrare. Soprattutto quelli individuali: in uno sport di squadra, in cui in campo si va in undici e ci sono anche le riserve, l’impatto del singolo non sempre si può pesare o contare con precisione scientifica. In più, un premio elettivo e non puramente statistico è sempre condizionato dalla soggettività di chi vota, da gusti e preferenze personali. È per questo che i premi assumono un valore diverso, un’aura diversa quando a votare sono i calciatori stessi, perché chi va in campo ha necessariamente una prospettiva e un’attenzione unica, non paragonabile a quella di chi guarda da fuori.

In questo senso i premi del Gran Galà del Calcio AIC (Associazione Italiana Calciatori) sono speciali. «La percezione di un avversario o un compagno nello spogliatoio non è per forza opposta a quella degli osservatori esterni, ma ha delle sfumature uniche e originali, proprio per questo ogni anno ci sono dei premi che per noi che ne stiamo fuori sono particolarmente sorprendenti», dice Umberto Calcagno, presidente AIC, a Rivista Undici. «È chiaro che contano anche le prestazioni individuali, cosa ha fatto la squadra, quei numeri sempre espliciti su vittorie, gol e assist, poi ogni anno al Gran Galà del Calcio ci sorprendiamo di non capire con quali parametri i calciatori hanno valutato i loro colleghi. Perché loro inevitabilmente hanno chiavi di lettura per noi inaccessibili».

La conversazione con Calcagno tocca diversi argomenti, dal voto dei giocatori al player empowerment, dallo sviluppo dei giovani a quello del movimento femminile, fino alla saturazione esasperata dei calendari, che sarebbe il primo nemico per i calciatori professionisti, anche se l’industria globale del calcio – non solo in Italia – sembra avere fretta di riempire ogni spazio libero con nuove partite, nuove competizioni, nuovi impegni.

Ⓤ: Presidente Calcagno, i calendari sono già diventati un problema?

Nessuno vuole impedire che il nostro mondo cresca anche dal punto di vista economico, ma sappiamo che giocare di più alla lunga non pagherà, né dal punto di vista dello spettacolo né economicamente. Siamo già molto vicini a un punto di non ritorno, perché molti studi scientifici ci permettono di capire quanto faccia male ai top player avere troppe partite da giocare, influenzando quindi anche lo spettacolo. Tutte le ricerche scientifiche ci dicono che l’ideale sarebbero 35-36, fino a un massimo di una cinquantina di partite. Giocarne 70 ogni anno, magari percorrendo anche diverse decine di migliaia di chilometri intorno al mondo, significa danneggiare i calciatori, che sono la base di tutto.

Ⓤ: Giocare troppe partite significa anche ravvicinare gli impegni, gli sforzi, le contusioni e aumentare i rischi in stagioni già lunghissime.

Le partite in back to back, quindi con con meno di quattro giorni di recupero, portano un maggiore rischio di infortunio. Faccio l’esempio del legamento crociato anteriore, che un po’ di tempo fa era quasi sempre da trauma mentre oggi l’80% di questo tipo di infortunio avviene invece senza che ci sia un trauma, quindi un contrasto con l’avversario. Insomma, non sono nemmeno più campanelli d’allarme, ormai sono dati sui quali siamo obbligati a riflettere a livello sistemico. Anche perché poi ne risentirà lo spettacolo: non è un caso che la finale dei Mondiali in Qatar sia stata così combattuta e così bella, con dei supplementari giocati a ritmi e così elevati: si sono giocati a novembre e dicembre, sarebbe stato impossibile replicare qui ritmi a metà luglio.

Ⓤ: In che modo la tutela della salute fisica dei calciatori va accostata a quella della salute mentale, un aspetto storicamente sottovalutato nel calcio ma di cui ormai abbiamo compreso l’importanza?

Anche in questo campo i dati sono molto chiari, le evidenze scientifiche che abbiamo su questo tema ci dicono che ricaricare le pile in determinati momenti della stagione non è un lusso, è una necessità. Quest’anno abbiamo lottato per avere la pausa natalizia, ma purtroppo per la prima volta il nostro campionato non si ferma a Natale, non ci saranno i sette giorni di riposo che normalmente avevano tutte le squadre. Sono giorni che il pubblico interpreta come la settimana di vacanze alle Maldive dei calciatori, invece sono fondamentali.

Ⓤ: Bisogna quindi cambiare la chiave di lettura: non una vacanza, ma recupero fisico e mentale?

È un periodo di riposo necessario nel quale si permette al corpo e alla testa di ritrovare una condizione che settimana dopo settimana si fa un po’ più precaria. Certo, i calciatori, soprattutto i migliori della Serie A, sono ragazzi ricchi, giovani, fortunati, ma anche loro vanno tutelati secondo certe esigenze

Ⓤ: Il paradosso è che questo ingolfamento del calendario che danneggia prima di tutto i giocatori arriva in un’epoca di fortissimo player empowerment, in cui i calciatori sembrano essere in grado di prendere in mano le loro carriere più che mai. Com’è possibile?

Quello del player empowerment è un discorso che vale soprattutto per i calciatori di altissimo livello, quelli che ascoltiamo nei loro podcast, quelli che scrivono articoli sui giornali, e in generale quei calciatori che sono diventati personaggi molto più completi rispetto a dieci o quindici anni fa. È prima di tutto un cambiamento naturale, l’arrivo di una generazione di calciatori, di persone che si interessano di tutto, del mondo che li circonda, sicuramente molto più di quanto non si facesse in passato.

Ⓤ: Tutto questo ha un riflesso anche sull’aspetto lavorativo in senso stretto, quindi nei contratti, negli stipendi e negli accordi commerciali?

Qualcosa c’è, lo si vede ad esempio nei giocatori che dimostrano di avere una forza di leva maggiore quando deve ridiscutere i rinnovi contrattuali. Sappiamo che è cambiato tutto a partire dalla sentenza Bosman: lì si è creata una nuova normalità, un nuovo standard. Oggi in fondo non è cambiato così tanto, se non negli importi in valore assoluto, ovviamente. Però quella è una conseguenza della crescita generale del calcio come industria.

Ⓤ: Negli ultimi mesi i casi di calcioscommesse hanno monopolizzato gli argomenti di discussione extracampo. Come è stato affrontato questo tema secondo lei, e cosa può fare l’Associazione dei calciatori?

Negli ultimi dieci anni l’assocalciatori, insieme alla lega e alla federazione, ha organizzato molti corsi di formazione e informazione. Oggi abbiamo il dovere di dire che, purtroppo, non è bastato. In queste settimane mi sono chiesto cosa avremmo potuto fare di più e se il mondo del calcio, da solo, possa fare di più. Perché qui entriamo in una sfera diversa, si tratta anche di istruzione, di educazione. È vero che siamo una grande agenzia formativa, in qualche modo, e anche una grande agenzia educativa insieme alla scuola e alla famiglia, ma credo che sia compito di tutte queste istituzioni e di tutte queste parti sociali a dover intervenire su certi temi, che in fondo riguardano la crescita di ragazzi che fanno sport ad alto livello fin dai 14 o 15 anni. Oggettivamente il mondo dello sport, se opera da solo, non può incidere più di tanto in questa crescita, perché è un percorso di formazione che riguarda le persone oltre che i giovani sportivi.

Ⓤ: Sembra che questo argomento entri in qualche modo in una visione più ampia di come crescono e si sviluppano i giovani calciatori in Italia, di come crescono parallelamente dentro e fuori dal campo. C’è una carenza di integrazione di percorsi sportivi e extrasportivi?

C’è sicuramente una necessità di integrare maggiormente i percorsi di formazione per i ragazzi che fanno calcio ad alto livello. Un dialogo maggiore con alcune istituzioni, a partire dalla scuola. E per questo probabilmente dobbiamo iniziare dal formare anche chi fa formazione.

Ⓤ: Formare i formatori vuol dire anche creare una classe dirigente più consapevole. La scorsa estate il calcio femminile spagnolo ha mostrato cosa significhi per un movimento avere classe dirigente inadeguata per il ruolo che ricopre. In Italia, dove il movimento femminile è ancora un passo indietro rispetto alla Spagna, come ci si sta muovendo a livello istituzionale, per responsabilizzare tutte le parti coinvolte?

Il grande balzo in avanti del nostro calcio femminile, con il passaggio al professionismo, già ci responsabilizza maggiormente, sia rispetto alle ragazze sia rispetto alle società e a tutta l’industria calcistica. Oggi tutte le componenti federali concordano sull’idea di lavorare soprattutto sulla base del calcio femminile: il primo obiettivo è moltiplicare il numero delle nostre tesserate. Ma deve essere una crescita guidata, perché abbiamo conosciuto a generazione di ragazze che ha studiato (circa il 25% delle calciatrici di Serie A è laureata e un altro 25% sta frequentando corsi di laurea, ndr) e ha ottenuto tanto sia in campo sia fuori, proprio grazie a questa formazione. Ora il nostro compito è accompagnare le nuove generazioni in un percorso di crescita che permetta loro di mirare ancora più in alto, perché oggi ci troveremo di fronte alle prime ragazze che usciranno dai settori giovanili delle squadre professionistiche, dalla Juventus, da Milan, dall’Inter. E dobbiamo fare in modo che non si perda questo aspetto che ha sempre caratterizzato il calcio femminile ed è un valore da non perdere.