Jude Bellingham è uno di quei pochi esseri umani che mi fanno dubitare che io e lui si faccia parte della stessa specie. E non perché, banalmente, sia un calciatore fortissimo, attualmente il terzo cavaliere dell’apocalisse dopo il fantascientifico Mbappé e il pantagruelico Haaland. A farmi impazzire, a scavare quella distanza dall’ordinario che in sé contiene fascinazione e stupore, è il rapporto simbiotico tra volontà e realtà che riesce a esprimere nelle sue giocate. Bellingham pensa, Bellingham fa. Quando riceve palla sembra già sapere verso quale microspazio muoversi per conquistarsi la distanza dal diretto marcatore. I suoi improvvisi cambi di direzione, strappi di ritmo che somigliano a variazioni musicali violente, da reel, fanno sembrare goffi gli interventi che i difensori provano a fare su di lui. Il pallone è soltanto l’esca. Il vero spettacolo è dato dal modo in cui si muove, da come usa le gambe, dalla strana velocità del tutto. Perché la leggerezza con cui sposta palla lontano dal tackle avversario fa da filtro a quest’ultima, deformandola. Sembra che faccia le cose ai due all’ora. O che le sue finte sprigionino un campo magnetico entro il quale gli avversari si muovono rallentati, inebetiti. Prima di affondare entro una direzione, di fendere il campo come se questo fosse un corpo e lui il coltello, Bellingham si muove su di un confine – cincischia, verrebbe da dire – che è quiete, pausa, antefatto. Dopodiché colpisce.
La gamba destra è ora rampino, ora arpione. Oltre a fungere da perno, pare guidare il resto del suo corpo come una stecca rabdomante. Quando tira forte, la lascia andare in un arco, estendendo il movimento fino all’ultimo. Il piede destro è il punto in fondo al punto esclamativo. E l’esterno di esso è la virgola che scandisce le fasi della giocata, anche se qui, aprendolo in una rasoiata, lo usa per chiudere l’azione. Si muove su se stesso, Bellingham. Danza in attesa di trovare un varco, mentre gli avversari cercano di fermarlo andando a contatto o frapponendosi sulle possibili linee di passaggio. Non c’è tregua per loro: quando Bellingham riceve e sente che c’è bisogno di muovere il pallone verso l’inaspettato, per liberarsi o liberare un compagno, tutto questo avviene.
Prendendo a prestito la struttura dei Chuck Norris Facts, non è Bellingham a cercare la verticalità, ma è la verticalità a cercare Bellingham. Nel senso che, per quanto suoni paradossale, anche quando retrocede o si muove orizzontalmente dà l’impressione di avvicinarsi alla porta, al gol, tanto è grande il valore del vantaggio che accumula, quando si isola nello spazio. Pure quando quello a disposizione è poco o è agibile tramite corridoi che vede solo lui. C’è questo gol contro il Napoli dove il senso d’impotenza dei giocatori azzurri è tangibile.
Segna tanto, Bellingham. Oltre le più rosee previsioni, da quando è Madrid. Forse è merito del tocco di Ancelotti, che lo utilizza da finto centravanti. Forse è per la capacità del giocatore d’inserirsi nello spazio con naturalezza, una dote che fa sembrare scarsi i difensori e pigri o ciechi i centrocampisti che dovrebbero inseguirlo. Sicuramente, come complessità ci insegna, è grazie alla combinazione di questi e altri fattori, se Bellingham sta settando un nuovo paradigma di eccellenza. E sta anche dando l’impressione, per dirla con Hegel, di essere una delle incarnazioni dello Spirito della storia (del calcio), ossia un agente del progresso, un predestinato che attraverso le proprie gesta porta avanti il percorso di avvicinamento all’Assoluto e al suo compimento: un livello di calcio oltre il quale nulla di quanto verrà aggiunto risulterà innovativo o in grado di perfezionare ulteriormente il gioco.
Ma a volerla mettere giù più semplice, con le parole del suo allenatore, Bellingham è un dono per il calcio, perché attraverso la sua più recente versione, l’atletico goleador elegante, sta unendo in sé archetipi come soltanto pochi altri giocatori, prima di lui, hanno saputo congiungere. Insomma, sembra provenire dal futuro. Il suo attuale livello di efficienza lo pone come miglior giocatore della Liga, e allo stesso tempo il suo senso dello spazio è alla base delle altissime prestazioni che offre. Prestazioni che elevano e sono elevate dal sistema di gioco del Madrid. Bellingham stesso, talvolta, sembra un sistema a parte: il suo fisico longilineo pare progettato per farne il trequartista ideale, le lunghe e potenti leve gli consentono di coniugare finezza e forza in giocate singole; sguscia tra gli avversari con rapidità e leggerezza calviniane, e la velenosa precisione di conclusioni e passaggi lo pone nello spettro della perfezione, in termini di completezza offensiva. Qualcosa di mai visto prima, insomma.
Ma quando si gira su se stesso, o utilizza il tacco per smarcarsi o passare la palla a un compagno, a tratti sembra di rivedere quel numero cinque. Del resto, Bellingham non ha mai fatto mistero che il suo giocatore preferito sia Zidane. Ispirarsi a lui, così come Kobe Bryant si ispirava a Michael Jordan, è più di un atto emulativo o un tributo: è il primo passo per raggiungere quella grandezza. Tornando di nuovo per un attimo a Hegel, c’è un concetto nella sua filosofia espresso dalla parola tedesca Aufhebung, che è traducibile come “Superare conservando”: il nuovo implementa elementi del passato e attraverso di essi eleva sé stesso e ciò da cui ha attinto. Ecco, Bellingham sta facendo qualcosa di simile. Ripercorrendo la via percorsa da Zidane, sta cercando di portare il calcio ancora un po’ più in là. A sud di quanto già conosciamo e abbiamo visto.
C’è un video su Youtube in cui il modo di giocare dei due viene raffrontato e le similarità, in effetti, saltano più facilmente all’occhio. La maniera in cui entrambi difendono palla – la posizione arcuata della schiena, il sedere a fare da scoglio, le gambe che diventano zampe di ragno e serrano il pallone entro una tenda impenetrabile – e il modo in cui nello stretto muovono il pallone da un piede all’altro per creare il colpo secco d’esterno per mezzo del quale si liberano di prima intenzione della sfera, con la gamba colpente spesso tesa verso l’esterno o a mezz’aria. E ancora: l’intensità violenta degli slalom, il cui rinculo si traduce in scie dove Bellingham e Zidane sembrano slittare sull’erba, gli addomesticamenti giocosi, le giravolte – quelle di Zidane veroniche complete, spaccanti, quelle di Bellingham più circoscritte – e le intuizioni che ne definiscono l’illuminata e illuminante visione di gioco. E se Zidane prediligeva di più la botta da lontano, Bellingham – per ragioni tattiche intestine al calcio moderno e al proprio ruolo – preferisce ricorrere molto spesso a soluzioni da attaccante puro, come testimonia, per esempio, la doppietta contro l’Almeria, partita dove ha segnato entrambe le reti – la prima di testa, la seconda di opportunismo – dal limite della sua zona preferita: l’area piccola. Il loro è un amore tanto atipico quanto reciproco. Il centrocampista ha segnato da lì un terzo dei suoi gol stagionali. L’unica sassata dalla distanza, se si esclude questo dolce pallonetto, è stata quella contro il Barcellona.
L’ultimo gol, segnato al Betis poche ore fa: i tempi giusti, i tocchi giusti, tutto con calma
Alcuni dei suoi gol sono poi particolarmente belli non solo per il coefficiente di difficoltà dato dalla situazione, ma anche e soprattutto per la difficile replicabilità del tiro stesso – guardate questo gol contro l’Atletico Bilbao dove il pallone finisce in porta di controbalzo. Non so fino a che punto fosse un colpo voluto, ma non è l’unica rete che Bellingham ha segnato in questo modo, in mezzo alle tante. Altre reti, invece, sembrano già far parte di una galleria d’arte. Non tanto per il gesto tecnico in sé, ma per la disposizione dei corpi, per il simbolismo che esplicitano. Tra tutte, penso alla rete segnata di testa contro il Celta Vigo, con Bellingham che di testa devia in porta un altro colpo di testa, mentre sta venendo abbrancato da Aidoo, che per fermarlo può solo trascinarlo a terra con sé. Senza riuscirci. Quale immagine può racchiudere meglio la letalità di Bellingham?
Bellingham già leggenda del Birmingham, poi architetto del Dortmund e ora spietato assassino, che squarcia i cuori delle difese avversarie dall’interno, dall’area di rigore, come l’alieno di Ridley Scott. Forse pensavo a questo, quando nella mia testa cercavo parole per dire che Bellingham è qualcosa di diverso da un normale campione. Non un superuomo, ma un extraterrestre. L’ennesimo rarissimo extraterrestre a comparire sul pianeta calcio. O, per dirla un’ultima volta con Hegel, un fenomeno – nel senso di “manifestazione” – di quell’Assoluto che di epoca in epoca pare spostarsi un po’ più là. Come l’orizzonte di Galeano.
Ma sarebbe ingeneroso verso certi campioni – Messi, Ronaldo, i loro padri spirituali, un novero del quale Bellingham un giorno farà parte a tutti gli effetti – se li considerassimo delle pedine o semplici tramiti, o ridurre l’Assoluto hegeliano a un coniglio meccanico, che si muove nel solco di un fantomatico peccato originale – l’essere a sua volta un espediente. In realtà sono questi campioni a muoverlo. Ad alzare continuamente l’asticella, a illuminare il campo con giocate nuove, a fornire prestazioni che un tempo sarebbero state impensabili, a superare il passato passandovi attraverso. Bellingham può essere uno di questi giocatori. In parte lo è già. Per vincere la sfida contro il tempo, dovrà solo continuare a segnare un gol a partita con indosso la maglia più pesante al mondo, e, già che c’è, vincere tutto e, perché no, farsi carico delle speranze del popolo inglese di tornare a mettere le mani sul trofeo più ambito. Nulla di più facile, giusto? Ovviamente no. Ma se vieni dal futuro…