Il portiere è un diavolo

Un breve viaggio nell'essenza del numero uno come reietto, malvagio, solitario protagonista del microcosmo calcistico.

Emiliano Martínez detto Dibu, portiere argentino campione del mondo da un quarto d’ora appena, eroe della finale grazie a una parata da strabuzzare gli occhi, sale sul palco a ricevere il guanto d’oro. Un alto ufficiale dell’emirato gli porge il premio. Martínez lo prende. Il pianeta lo guarda. I suoi due figli, sua moglie. Una nazione in estasi, pazza di gioia. Lui si allunga con la schiena un po’ all’indietro, incassa il collo nelle spalle e spinge in avanti il bacino. A quel punto, con entrambe le mani, si porta il guanto d’oro tra le gambe, a simulare un pene. Nei giorni successivi, molta parte della stampa sportiva riporta il gesto con indignazione. Anche i commentatori, soprattutto loro, sui social, sui blog, parlano di Martínez come di un pagliaccio, un buffone, un arrogante senza rispetto. Tutto vero: d’altra parte fa il portiere. Questa storia dei portieri pazzi, mezzi alienati, diversi dal resto dei loro compagni di campo, è vecchia e ben famosa. È una storia vera, anche. Il perché sia effettivamente così, e gli aspetti in cui lo è, è un tema poco indagato ma parecchio interessante. Dibu è, in questo momento, uno dei portieri “più portieri” che ci siano al mondo.

Partiamo da un fatto incontrovertibile: il portiere è l’anti-calcio. Il portiere rappresenta, nella sua essenza più pura, l’antitesi del fenomeno che vogliamo vedere quando accendiamo la tv, andiamo allo stadio, o scendiamo noi stessi in campo. Il calcio è un gioco che ha un obiettivo unico: realizzare un gol. Far sì che il pallone superi la linea detta “di porta”. C’è un solo ruolo che è stato creato apposta per impedire che questo si realizzi. Il portiere. Occorre andare indietro nel tempo. Non all’inizio del calcio, Mondiale in Uruguay e via dicendo. Molto più indietro. Secoli, addirittura. L’origine del calcio si trova in quei riti popolari dell’antica Inghilterra chiamati “mob football”, in cui un numero imprecisato di persone dovevano portare una sorta di pallone (solitamente una vescica di maiale) da un lato o dall’altro della città. Tutto era permesso, per farlo, fuorché l’omicidio.

Nonostante questo, talvolta ne venivano commessi. Secondo Percy M. Young, autore di A History of British Football, ancora più anticamente, ovvero prima della conquista romana, «misteriosi dèi della fertilità venivano omaggiati con cerimonie nelle quali si utilizzava una palla che veniva portata verso una porta, punto consacrato di un albero o di un torrente». In molti riti di fertilità, anticamente, un oggetto sferico rappresentante il sole veniva collocato in una buca o nel tronco cavo di un albero per invocare un buon raccolto. Ma ancora nel Medioevo, secondo F. K. Robinson nel Glossary of Words used in the Neighborhood of Whitby (citato da Jonathan Wilson nello splendido The Outsider: A History of the Goalkeeper), si credeva esistesse una correlazione tra la performance di un contadino nel “mob football” e la fortuna del suo successivo racconto. Insomma, se il calcio di oggi è solo l’ultima evoluzione di una simbolica recita in cui il disco solare finisce in una sorta di grembo per augurare il raccolto che sfamerà la comunità, allora il portiere è la sventura, la grandine, lo spirito maligno che condannerà alla carestia il villaggio.

Oggi, naturalmente, si parla di impostazione con i piedi, di “croce iberica”, di uscite alte e basse, e non più del portiere come emanazione di divinità maligne, e però il mito del numero uno come individuo o entità eccentrico e fuori dagli schemi, degno di sospetto e forse pure “cattivo”, rimane ancora. E ci sono nazioni che producono portieri migliori non per la capacità di allenare il ruolo, ma per quanto la loro cultura si adatta a queste figure. «In Russia e nei Paesi latini quella nobile arte è sempre stata circondata da un’aura di particolare fascino. Appartato, solitario, impassibile, il portiere fuoriclasse è seguito per strada da ragazzini estasiati», scrive del ruolo Vladimir Nabokov in Parla, ricordo. Spagna e Italia, è vero, hanno prodotto sempre grandi portieri, a differenza della rigida Inghilterra. Questione di sangue bollente, forse.

All’inizio del Novecento Harry Rennie, portiere scozzese, parla così dei suoi colleghi che hanno abbracciato la novità del parare “tuffandosi”: «In quanto scozzese purosangue, non potrei mai accettare una tale perdita di dignità come quella rappresentata dall’acrobatismo… Ho sempre pensato che sia una discesa nella pura bestialità». Pochi anni dopo – siamo intorno al 1939 – il giornalista inglese John Macadam, assistendo a una partita della Nazionale azzurra con Aldo Olivieri tra i pali, nota invece come gli spettatori italiani tendono a concentrarsi nelle zone dietro la porta. Ma non è, come fanno gli inglesi, per assistere da vicino alle azioni da gol più pericolose, al contrario: è per vedere il portiere più da vicino. «Il portiere continentale», scrive poi, «è più di un giocatore della squadra. È il supremo artista, la quintessenza dell’abilità atletica. Gli attaccanti, i mediani, i difensori possono giocare come vogliono e saranno giudicati secondo i loro meriti, ma se il portiere non riesce per qualsiasi ragione a mettere su uno show spettacolare, il pomeriggio è rovinato».

La parata di Dibu Martínez pochi istanti prima dei rigori (Buda Mendes/Getty Images)

Uno dei portieri più maledetti nella storia del calcio è stato il brasiliano Moacir Barbosa. È lui che si trova tra i pali nella finale del Maracanã del 1950, quando il Brasile perde 2-1 contro l’Uruguay in modo inaspettato, è lui a farsi trovare fuori posizione sul rasoterra di Ghiggia. Il drammaturgo brasiliano Nélson Rodrigues definì quella finale «la nostra Hiroshima». Nel 1993 Barbosa, caduto in disgrazia da anni, va al Maracanã a vedere la Nazionale che si allena per i Mondiali del 1994. Viene riconosciuto dall’assistente di Parreira, Mario Zagallo. Viene allontanato dallo stadio, per timore della cattiva sorte che, si diceva, si porta dietro.

Perché naturalmente, oltre al portiere spirito maligno esiste un altro archetipo del portiere: ed è quello dell’eterno solitario, lontano dal gioco, lontano dalla gloria, eternamente da solo con le sue ansie e le sue preoccupazioni. Il portiere che brilla soltanto quando la squadra va male, o almeno quando c’è un buco difensivo che gli consegna la possibilità di un uno contro uno eroico. Almeno, questo è quello che pensiamo da fuori: in questi anni ho parlato con diversi portieri, perché mi interessava capire cosa pensano davvero questi esseri così strani. Io, che in quel ruolo mi sono fissato di giocare per anni, me la ricordo eccome l’ansia e la sensazione di essere solo sull’intero pianeta Terra.

E quindi facevo sempre la domanda fatidica, a Buffon, a Donnarumma, anche a Diego López che è un nome meno famoso ma quando ci ho parlato io era il titolare del Milan e sembrava particolarmente bravo e con una faccia da personaggio di un romanzo di Bolaño. Dicevo, allora, non hai l’ansia, non hai paura, e tutti mi guardavano con questa faccia un po’ stranita e mi dicevano: ma no, ovviamente. Dicevano, tipo: tutto fuorché ansia. Io rimanevo spiazzato, come se la paura non fosse nemmeno un ingrediente nella ricetta per essere portieri. Ma invece loro mi stavano dicendo, ho realizzato, un’altra cosa: che la paura è sì l’ingrediente fondamentale della composizione di un portiere. Ma che per arrivare in alto, un numero uno tra i migliori al mondo, devi avere una specie di immunità. Sapere diluire la paura fino a farla scomparire, come certi veleni svaniscono in acqua calda. E quindi cosa rimane di un portiere, senza la paura? Rimane il significato più profondo. Far sì che non accada quello che tutti vorrebbero vedere.

Da Undici n° 53