Atlante galattico di frasi fatte per interviste calcistiche

Un po' di formule a cui potete ricorrere per rispondere ai giornalisti. Ma senza dirgli nulla.

Chiedete a un giocatore o a un allenatore se la sua squadra è in corsa per lo scudetto. Oppure cosa pensa della prossima avversaria, di un sorteggio. Tendenzialmente avrete in cambio una non-risposta, una frase che orbiterebbe intorno alla forza degli avversari o all’importanza di pensare una partita alla volta. Automatico. Come se a quel collega che ogni venerdì vi chiede cosa pensate di fare nel weekend, rispondeste sempre nello stesso assurdo modo: che vi alzerete la mattina, farete colazione, vi laverete i denti e affronterete la giornata una piccola sfida per volta, ricordando che comunque la vita non è semplice e che serve determinazione per raggiungere i propri obiettivi. 

Nelle trasmissioni sportive, e soprattutto calcistiche, ormai abbiamo sviluppato un’abitudine decennale a frasi fatte, luoghi comuni e risposte evasive che sembrano quasi generate da un’intelligenza artificiale. A volte c’è la surreale sensazione di rivolgersi a bot che attingono da un frasario comune per non dover improvvisare, o peggio ancora sbilanciarsi, di fronte alle domande dei giornalisti. Comode o scomode che siano, non servono trigger come previsioni, intrighi di mercato o vicende controverse. Il tutto, poi, viene confezionato in un linguaggio inflazionato e spesso forzatamente formulare, passato da un atleta all’altro in una tradizione orale che somiglia molto a un corso di addestramento per sopravvivere al cospetto dei media. 

Ho in testa l’immagine di un giovane calciatore emergente che ascolta un esperto collega parlare in una trasmissione televisiva. Vuole fare bella figura quando sarà per la prima volta davanti alle telecamere, evitando possibilmente di diventare virale come l’indimenticabile intervista a Cassano dopo il suo primo gol in Serie A. Si prepara, prende nota dei modi più brillanti e facilmente replicabili per passare inosservato durante quella comparsata, assorbe espressioni che non utilizzerà mai in altre sfere. Se facesse un drinking game come quelli che circolano sui social in occasione di partite di cartello o discorsi di personaggi pubblici, la parola-shot sarebbe importante. E sarebbe ubriaco dopo pochi minuti. 

Potreste non averci fatto caso, ma per qualche misterioso motivo importante è un aggettivo utilizzato in modo spropositato in questo mondo; in qualsiasi occasione e per qualsiasi sostantivo, che si tratti di un giocatore, di una qualità tecnica, di una partita, di un campionato, di un’operazione di mercato, di un’esperienza. Nel calcio, chissà perché poi, le cose sono diventate intrinsecamente importanti, senza bisogno che lo siano davvero per qualcuno o in relazione a un contesto. Un altro paio di esempi di espressioni ingiustificatamente inflazionate? La parola rammarico, che probabilmente non avete mai sentito usare al di fuori dell’ambito calcistico; oppure il termine blasone, ricorrente in questo gergo ma dimenticato dalla lingua italiana ormai da tempo. 

Stranezze lessicali a parte, il più delle volte le interviste ai protagonisti prima e dopo la partita suonano come una scatola vuota, priva di contenuto e dunque di interesse per lo spettatore. L’assurdo si raggiunge nel mezzo dell’evento, in quelle due domande a cui, per contratto, un calciatore a turno deve rispondere subito dopo la fine del primo tempo. Trenta secondi agghiaccianti in cui la sensazione è che chiunque tra i ventidue in campo direbbe più o meno la stessa cosa, attingendo a una combinazione – o, nei casi più virtuosi, una rielaborazione – di «dobbiamo ripartire dallo 0-0», «dobbiamo rimanere concentrati», «dobbiamo fare quello su cui abbiamo lavorato in settimana» e via dicendo.

Negli Stati Uniti c’è chi ha combattuto per un’intera carriera l’usanza delle interviste durante la partita: coach Gregg Popovich (e prima di lui Phil Jackson). Una risposta stringata e passivo-aggressiva dopo l’altra, “Pop” si è spinto fino al punto in cui i commentatori contavano le parole da lui pronunciate in queste occasioni. Più vicino a noi c’è invece l’esempio di Josè Mourinho, che dopo Sassuolo-Roma del mese scorso, in una delle ultime puntate del suo ormai decennale show mediatico, ha risposto in portoghese all’unica domanda cui si è concesso. La stragrande maggioranza degli addetti ai lavori, però, ci fa divertire decisamente meno nelle occasioni di esposizione fuori dal campo. Si prestano alla fiction con calma olimpica, recitando la propria parte. Come direbbe il codice civile, con la diligenza del buon padre di famiglia, sfoggiando una profonda conoscenza degli insegnamenti tramandati da chi si è trovato davanti a quel microfono prima di loro. Ogni weekend, i calciatori – anche quelli più giovani e magari arrivati recentemente dall’estero – dimostrano di aver studiato meticolosamente l’arte del parlare senza dire nulla. E si tratta davvero di un’arte, come proverò ora a evidenziare portando qualche esempio – che sì, vi suonerà piuttosto familiare e noioso – per ciascuna delle macroaree in cui si dirama, con le banalità sentite più frequentemente. 

Guai a non rimboccarsi le maniche

Mostrarsi umili, concentrati sull’obiettivo finale e con i piedi saldamente a terra, sempre. Senza concedersi distrazioni o alcuna forma di appagamento, neanche dopo una sofferta vittoria o un importante traguardo raggiunto. Razionare rigidamente ogni espressione positiva, come il cibo e l’acqua in tempi di guerra. E così, dopo un risultato positivo (ma non solo), il diktat numero uno sembra proprio ostentare un’impeccabile mentalità ed etica del lavoro. Del resto, mezz’ora dopo aver vinto con un gol al novantesimo in una trasferta di Champions League, è impossibile non «avere già la testa al prossimo avversario».

Su questa falsa riga, alle congratulazioni di un giornalista corrisponde sistematicamente, o quasi, qualcosa come «dobbiamo ancora crescere tanto» e «non smettere di lavorare in settimana per continuare a migliorarci». Non c’è tempo per sedersi sugli allori, si deve sempre rimanere «a testa bassa», bisogna «rimboccarsi le maniche», «dare il massimo in allenamento». E, cosa ancora più importante, «non bisogna guardare la classifica», figurarsi parlarne con chi poi ci fa i titoli di giornale. Lo avete sentito ripetere fino allo sfinimento da tutti gli allenatori che abbiamo visto sulle principali panchine italiane, da Allegri a Spalletti, da Conte a Pioli, da Inzaghi a Sarri: «La corsa la facciamo su noi stessi», «pensiamo partita per partita», «giochiamo senza fare calcoli» e sapendo che «il percorso sarà lungo e difficile».  

Il collettivo prima di tutto 

Un’altra straordinaria dote umana incredibilmente diffusa tra i calciatori, a quanto pare, è l’altruismo. Siamo sempre sul filone dell’ostentazione di umiltà ed etica del lavoro, ma in questo caso declinata su scala individuale rispetto al collettivo. Ovvero, del singolo giocatore in relazione alla squadra, con la seconda che pare rappresentare un bene superiore tanto prioritario da rendere deprecabile qualsiasi aspirazione personale, e inopportuna qualsiasi riflessione in merito. Come se una dimensione escludesse inevitabilmente l’altra. 

Hai segnato un gol fantastico, magari decisivo? Devi mostrarti disinteressato a tutto ciò e devi rimanere concentrato solo sul risultato della squadra, positivo o negativo che sia. «Sono contento per il gol, ma soprattutto per i tre punti». E quando c’è un bottino, l’imperativo è spartire: è sempre «merito dei compagni», d’altronde «a calcio si gioca in undici». La tua squadra, o anche l’avversaria, ha un’assenza pesante nel prossimo scontro diretto? Ci si affretta a ridimensionarne la centralità, male che vada si può sempre riciclare l’alibi nel post-partita. Sei appena stato eletto MVP di una gara, hai appena ricevuto il premio di miglior giocatore di un torneo o magari il Pallone D’Oro? «Senza i miei compagni, che sono fantastici, non avrei mai potuto essere qui oggi». Grazie per l’attestato di stima, insomma, ma nel caso ve ne foste dimenticati «il nostro è uno sport di squadra« e «questo premio è di tutti». La sacralità della dedizione trova espressione, infine, nella sconfinata disponibilità sbandierata da qualsiasi calciatore rispetto alle necessità della squadra. Non esiste ruolo preferito, «è il mister a decidere dove devo giocare». E non c’è spazio per le esigenze dei singoli, è sempre una questione di «aiutare i miei compagni» e «fare quello che serve alla squadra».

Sembra una vita fa, è una vita fa

Prima di passare al prossimo insieme, per un rapido recap vi suggerisco di guardare questa intervista che vedete sopra: l’ha rilasciata Bonucci nell’estate 2017, nel giorno del debutto con la maglia del Milan. In questo video è possibile apprezzare come un 6-0 ai danni dello Škendija nei preliminari di Europa League possa comunque rappresentare un’ottima occasione per un concentrato (e una masterclass) di quanto scritto finora: «Grazie alla squadra che ha fatto un grandissimo lavoro», «vittoria importante», «guardare avanti con positività», «c’è da migliorare ma siamo sulla strada giusta», «prendiamo quello che c’è di buono ma andiamo a vedere anche dove migliorare nelle cose negative che sono successe». Ben fatto, parole da capitano. Con tanto di risposta impeccabile sul discorso Scudetto, che ci proietta nel prossimo gruppo. 

Scaramanzia e maniavantismo 

Nel caso in cui la domanda del giornalista verta sul futuro della squadra, che si tratti del prossimo impegno o di un traguardo stagionale, preparatevi ad accogliere un’accurata disamina sui pregi e sugli ultimi rinforzi degli avversari, una serie di cliché sulla competizione sportiva in generale e un saggio (più o meno elegante) di scaramanzia. In quella che è un’arte nell’arte: parlare senza dire nulla, e mettendo le mani avanti. Meno discorsi sul futuro possibile, dunque, da sviare senza pensarci troppo con luoghi comuni del tipo «i conti si fanno alla fine» e «nel calcio nulla è scontato». Un modo per declinare gentilmente la domanda e, semplicemente, occupare con parole vuote di significato quei trenta secondi. Un po’ come le mezze stagioni nelle chiacchiere da ascensore, insomma. E nel dubbio, che sia settembre o aprile, «da qui in avanti sono tutte finali». 

Dover difendere in futuro una propria affermazione invecchiata male sembra il peggior incubo di tanti giocatori e quasi tutti gli allenatori. E quindi meglio tenersi alla larga da proclami ambiziosi, promesse o slanci di ottimismo, come insegna Massimiliano Allegri. Quando gli viene sottoposta quella solita domanda di sempre sullo scudetto, ogni volta è un’esibizione del suo stile unico di conservatorismo (inteso nell’accezione di Edmund Burke, ovvero «impedire alle cose di accadere finché non siano prive di pericoli»). Questa conferenza stampa ne è un ottimo esempio (nonché un secondo interessante concentrato di tante frasi fatte citate fin qui). Di riflesso, la stessa maniacale ricerca della neutralità si trasla nei discorsi sulla singola partita. Se è in trasferta, si va sempre in «un campo difficile», nelle situazioni opportune si può addirittura spolverare il classico «dodicesimo uomo». E in ogni caso, è contro avversari che avranno senz’altro innumerevoli pregi, ma anche l’inerzia dalla propria parte, in un modo o nell’altro: «arrivano da una vittoria e avranno entusiasmo», oppure «arrivano da una sconfitta e vorranno rifarsi» 

Il mantra, declinato poi in varie direzioni, è: rispettare tutti, temere nessuno. Un assunto che, portato all’estremo, rende difficile se non impossibile ottenere considerazioni vagamente sincere sulle squadre rivali, soprattutto se sono le prossime avversarie. Ogni sorteggio è difficile, per definizione. Nessun vantaggio è rassicurante, nemmeno 20 punti in classifica o quattro gol di scarto nella gara di andata. Un’esasperante litania, si può dire?  

Risposte per ogni occasione 

In questo ultimo insieme ci sono tutte quelle risposte, di varia natura ed estrazione, che puntano ad ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. Ovvero, glissare sulla domanda senza neanche dover elaborare, o come detto rielaborare, la risposta. Attingendo a quel volume del frasario comune che non necessita di alcun contributo intellettuale, quella degli evergreen. In sostanza, il modo in cui giocatori e allenatori pongono un veto, impossibile da aggirare, su alcuni temi. 

Avviene sistematicamente quando si prova ad estorcere qualche parola sul mercato, ad esempio. In un modo o nell’altro, l’intervistato non sembra mai essere la persona giusta con cui discuterne: «Questa è una domanda che andrebbe fatta ai dirigenti», oppure «al mio agente», oppure ancora «alla squadra che detiene il cartellino del giocatore», «al diretto interessato», o comunque a qualcun altro.  Se si parla di assenze o turnover, qualsiasi allenatore vi dirà di non essere preoccupato e di «considerare tutti titolari». Su qualsiasi partita può essere apposta l’etichetta di «decisa dagli episodi», come se poi nel calcio non fosse sempre così. Oppure il What If per eccellenza: «Staremmo parlando di un’altra partita ora, se solo…» e aggiungeteci voi il pezzo mancante.

Ultimo ma non ultimo: polemiche sui giornali, in tv, sui social? «Non li leggo», «non li guardo». E se per caso si va a parare su temi di attualità, politica, società o comunque extracalcistici, nella migliore delle ipotesi i giocatori si prestano a leggere slogan e freddi comunicati, niente di più. e quando va proprio male, il portavoce di una campagna di sensibilizzazione di Save The Children capita che sia Armando Izzo.