È l’inizio del dominio di Jannik Sinner sul tennis mondiale?

Con la finale di Melbourne, il tennis come lo abbiamo conosciuto negli ultimi anni ha cessato di esistere, e quello a venire, al momento, lo gioca solo Sinner. È una situazione senza troppi precedenti.

Pur avendo deciso di diventare una Nazione mentre quasi tutte le altre stanno cercando di smettere, l’Italia mantiene il rapporto sgangherato di sempre coi suoi rari trionfi, e nella circostanza del primo Slam vinto da decenni non ha dato il meglio di sé. I media hanno ecceduto in supposte metafore omeriche, i social hanno ecceduto e basta – gente convinta fino a ieri che il chop fosse un modo di giocare il tennis degli scoiattoli si sofferma da ventiquattr’ore sui progressi del servizio di Sinner, e altra gente fin qui interessata soprattutto alla percentuale di possesso palla del Feralpisalò sostiene di avere sempre detto che Jannik era un predestinato. I rimanenti, tanto per cambiare, se la prendono coi gufi, senza peraltro specificare a chi si riferiscano. Mettere un po’ d’ordine in questa caciara è un’impresa ardua più o meno quanto quella di Sinner, ma forse tre punti si possono fissare.

Primo, la finale di Melbourne Park ’24 non è stata una partita memorabile, o particolarmente spettacolare, però a chi volesse capire com’è fatto il tennis non resterebbe che riguardarsela. Cos’abbiamo visto? Per farla breve, una (quasi) vecchia volpe con qualche Slam alle spalle che, essendo uscito malconcio dagli ultimi incontri con l’emergente del circuito, e conoscendo il tennis quasi più di chiunque altro, ha fatto una scelta proibitiva per qualsiasi altro tennista in attività, e cioè ha cambiato completamente gioco. Invece di cominciare gli scambi da non si sa quanti metri fuori dal campo, e palleggiare contando sul fatto che prima o poi un colpo più scaleno degli altri andasse a segno, Daniil Medvedev è sceso in campo mettendosi a rispondere a due metri dalla linea del servizio, giocando diagonali molto stretti e molto bassi, e appena possibile scendendo a rete per chiudere con un colpo, la volée, che fino a quel momento non risultava fosse in grado di eseguire. Risultato, per quasi due set il riccio Sinner, diciamolo, non ha visto palla.

Ma com’è noto, se la volpe sa molte cose, il riccio ne sa una grande, semplicissima, e che a tennis però spesso basta: nessun giocatore è in grado di mantenere uno stato di grazia per più di un’ora, un’ora e mezza. Prima o poi nel suo gioco si apre una crepa, magari invisibile a occhio nudo: ma se tu la vedi, e ci entri, quella crepa diventa, molto più rapidamente del previsto, una voragine. Facile a dirsi, no? Solo che a farlo riescono in pochissimi. Ci riusciva Nadal, e in modo ancora più letale Djokovic. E ci riesce Sinner. Su un punteggio confortante, 6-3, 5-1 e servizio, senza alcun sintomo premonitore, Medvedev il servizio, di colpo, lo ha ceduto. Poi ha ottenuto comunque il set, ma in quel momento ha perso la partita. Oppure l’ha vinta Sinner, ognuno adotti la versione che preferisce.

Con quel risultato, il tennis come lo abbiamo conosciuto negli ultimi anni ha cessato più o meno di esistere – e quello a venire, al momento, lo gioca solo Sinner. È una situazione senza troppi precedenti. A meno di non risalire agli anni d’oro di Tilden, non si ricorda un periodo in cui il più forte non avesse rivali in grado, se non di batterlo, quantomeno di preoccuparlo. Potrà naturalmente succedere che Sinner perda qualche match, nei prossimi mesi, anche se è difficile capire con chi, e perché. Per i primi quattro turni degli Australian Open gli avversari sembravano sparring, non rispettabili membri del circuito, nei quarti il 5 al mondo – quella furia di Rublev – ha raccolto pochi game più di loro, e in semi Djokovic ha perso, come lui stesso è stato il primo ad ammettere, una partita francamente umiliante.

Anche qui, nel tennis il bilancino fra meriti di uno e demeriti dell’altro dipende più che in altri sport dall’occhio di chi lo usa, ma qualcosa in quella partita è comunque successo. D’ora in poi, tanto per dire, Nole non sarà più quello che era convinto di rimanere ancora per due o tre stagioni – un Lear magari decrepito, e però imbattibile. Dopo domenica non vincerà il Grande Slam, non partirà più favorito in qualsiasi torneo, e soprattutto ha lasciato sulla Rod Laver Arena una parte di quell’aura che, in molti frangenti difficili, è stata la sua Arma di Fine di Mondo. Forse continuerà a giocare, ma non è così detto.

Certo, ci sarebbe ancora Alcaraz, in attività, e dopotutto a luglio ‘23, finito Wimbledon, in tanti pensavamo di lui quello che oggi pensiamo di Sinner. Peccato che, in pochi mesi, fra i due fenomeni si sia spalancato un baratro. Carlitos rimane molto più divertente, forse più dotato, e sulla carta anche più forte di Jannik, ma al momento sembra non sapere più quello che l’altro sa a questo punto meglio di tutti, cioè in cosa consista una partita di tennis. Non nel giocare ogni colpo per strappare un sorrisone a se stesso e un applauso alle tribune, ad esempio. Puoi anche farlo, naturalmente, ma se le cose non girano nel verso giusto e continui a sorridere, l’effetto su chi ti guarda – e anche sul tuo gioco – non è quello sperato. Com’è ovvio Carlitos ha vent’anni, e un talento inaudito. Anche se al momento sembra essersi cacciato in un buco, è quasi certo che prima o poi ne esca – ma nessuno è in grado di dire quando, o come. Quanto agli altri, al momento sembrano praticare, rispetto a Sinner, uno sport minore: il padel, o il pickleball.

Inevitabilmente, nell’ombra qualcuno mugugna. Jannik non è un circense, il suo tennis non sempre fa strabuzzare gli occhi, e quella sua normalità per niente normale può a volte far scattare il riflesso condizionato di qualunque spettatore di tennis, in qualunque momento nella storia dello sport: il rimpianto per un’epoca precedente, ormai perduta. Come chiunque in possesso di passaporto italiano, ieri sono stato chiamato a dire la mia su Sinner – nel dettaglio, a Radio3, dove un ascoltatore ci ha immediatamente fatto sapere via WhatsApp che i bei tempi di Nastase non torneranno, e che Jannik non è, né potrà mai diventare, un personaggio letterario. In parte è vero, in parte no.

I tempi di Nasty non torneranno, so far so good, e per sua (ma anche nostra) fortuna Sinner ha in mente quasi tutto tranne la letteratura. E tuttavia, proprio per questo, raccontare il suo tennis potrebbe essere una sfida anche più interessante. Fin qui non si è mai visto, che io ricordi, un giocatore in grado di imparare dai propri errori della partita precedente, e di non ripeterli: mai. Per quasi tutti i tennisti conosciuti, il deep learning è un processo lentissimo, fatto di correzioni minime, che richiedono anni di lavoro maniacale, e non sempre ottengono i risultati sperati: per Jannik è, si direbbe, istantaneo. Vederlo stravincere contro avversari contro cui la settimana prima aveva straperso (vero, Benny Shelton?), e vederglielo fare dopo essersi impossessato del loro gioco senza che loro neanche se ne accorgessero, è uno spettacolo in sé, che va molto oltre la geometria o la potenza dei colpi. Certo è uno spettacolo di tipo nuovo, quindi per certi versi bisognerà imparare a guardarlo, e a capirlo. Ma la sensazione è che avremo tutto il tempo per farlo. Anche se a volte, anche questo va detto, Jannik va un po’ troppo veloce. Almeno per noi umani.