Esiste al mondo un modo per fermare Lautaro?

La sua straordinaria crescita psicologica e tattica, in parallelo con quella dell'Inter, l'ha portato a diventare uno dei migliori attaccanti del mondo.

La rete che ha consentito a Lautaro Martínez di eguagliare il numero di gol in maglia Inter di Christian Vieri, e che ha permesso a Simone Inzaghi di vincere la sua quinta Supercoppa Italiana, deve aver avuto un sapore di déjà-vu per il Napoli. Era già successo diversi anni fa, il giorno di Santo Stefano, che Lautaro segnasse il gol della vittoria contro i partenopei nei minuti di recupero. E che lo facesse tirando di prima, dall’interno dell’area, dopo il velo di un compagno. Era il 2018 e quel Lautaro distava ancora un centinaio di gol dall’attaccante formidabile che è diventato. Ora fa strano pensare che, nelle prime due stagioni in Italia, sembrasse destinato al ruolo di spalla, l’eterno scudiero della prima punta di turno. Invece si è evoluto, è diventato un giocatore poliedrico e letale – marcatore prolifico, rifinitore, uomo squadra – e si è elevato a giocatore simbolo di un’epoca interista, quella iniziata con Spalletti, passata per Conte e proseguita da Inzaghi, costellata di successi nazionali, dominio nei derby cittadini e consacrazioni europee sfuggite solo all’ultimo momento. Risultati importanti di cui lui è una costante. E l’aggancio a Vieri rappresenta il sigillo di ceralacca, se può essercene uno, su quella che sarà la sua eredità nell’immaginario dei tifosi interisti. Ma quali sono i fattori che gli hanno consentito di arrivare dov’è adesso? 

Edoardo Albinati, nel suo romanzo La scuola cattolica, parla del fenomeno delle prove di virilità con le quali i ragazzi adolescenti sono obbligati a confrontarsi quotidianamente, per affermare sé stessi. Ma sono affermazioni fugaci, è questa la fregatura: non conta averle superate una volta, bisogna ri-affrontarle ogni giorno, altrimenti si passerà per deboli. Lautaro, fino a qualche stagione fa, sembrava vivere le partite con la stessa ossessività. Il suo bisogno di segnare era qualcosa che sfiorava il patologico, come se il gol fosse una conferma della propria esistenza, oltre che un dovere a cui adempiere. Ciò era evidente quando non ci riusciva. La sua frustrazione poteva sfociare in proteste, falli gratuiti e sceneggiate. Era una scimmia sulla spalla in grado di scombinargli il ritmo ed evidenziare tutte le sue lacune, in un circolo vizioso dove l’astinenza alimentava gli errori in conclusione e l’estraniamento dal gioco della squadra.

Ha fallito diversi rigori e importanti occasioni da gol, Lautaro, prima di migliorare in freddezza ed efficacia. Poi, complici l’evoluzione del contesto tattico, una maggior responsabilizzazione e un miglior sfruttamento delle sue caratteristiche tecniche, il giocatore è diventato più di un terminale offensivo scostante. E ben più di un cucitore di gioco. È difficile individuarlo, ma dal momento in cui ha smesso di preoccuparsi – e ad amare la bomba, per citare Kubrick, ossia la corazzata Inter delle ultime stagioni – Lautaro ha toccato e tradotto in numeri la calma zen degli automi da gol. Immergendosi completamente nel nero e nell’azzurro, è riuscito ad affogare la propria ossessione entro quella della squadra. A evolvere il suo gioco e la propria identità assieme a lei. Per questo è così amato dai tifosi. Il suo istrionismo nell’ergersi a condottiero lo ha reso un idolo con cui è facile identificarsi. Dietro l’espressione arcigna e il taglio di capelli tamarro, un ciuffo che sembra rispecchiare l’odierna impermeabilità del suo animo, Lautaro incarna lo spirito dell’Inter attuale, perché il percorso vissuto dall’Inter è stato anche il suo percorso. I difetti congeniti sono divenuti scudi. La follia genetica – quella storica – della Pazza Inter, codificatasi sia in rimonte rocambolesche sia in drammi sportivi, è diventata una pelle da indossare, prima di crescere e trovarne un’altra più personale.

Passando per lunghi e interlocutori digiuni, Lautaro da punta di supporto è mutato in primo cannoniere. Finendo col riempire la casella tecnica ed emotiva lasciata da Lukaku e Dzeko. Diventando quello che Lukaku avrebbe potuto essere, se fosse stato coerente con le proprie dichiarazioni d’amore. Quando, per descrivere la loro sintonia in campo, si parlava di affinità elettive, in pochi credevano che l’argentino sarebbe sbocciato nella solitudine. Invece, ha approfittato della situazione per crescere e liberare l’istintualità ferina che ora ne anima le scelte e i colpi in campo. E che col tempo è diventata espressione di un talento multiforme, di un modo sanguigno di vivere l’impegno nerazzurro. 

Il gol che più incarna la sua indole battagliera, a mio giudizio, è quello segnato di pura rapina contro il Monza, nella scorsa stagione, dopo aver rubato palla a Pablo Marí. Non una rete bella, ma cercata. Lautaro Martínez non ha mai aspettato che le occasioni andassero da lui, anche se la maniera in cui si muove senza palla per sganciarsi dalla marcatura delle difese sembra battere i sentieri oscuri che solo i rapaci d’area di razza come Filippo Inzaghi conoscevano. Insomma, nel calderone di fattori che, presi singolarmente, possono descriverne e circoscriverne il talento, non sembra mancare una buona dose di metafisica. Quel qualcosa che per certi attaccanti sfocia nell’esoterismo e il cui mistero rimane di difficile penetrazione.

Il mistero Lautaro Martínez ha il muro di una struttura fisica compatta ma modesta. Ha l’irrequietezza di un giocatore che anelava alla completezza e che, per arrivarvi, ha offerto in sacrificio l’eccellenza in quei uno o due campi che i giocatori ergono a cavallo di battaglia. Una diversificazione del proprio talento che alimenta la necessità di inquadrarlo, capire qual è la cosa che sa fare meglio. Col risultato di rimanere indecisi. È più bravo a inserirsi in area o a concludere di testa, vista la bassa statura? Funziona meglio in un gioco verticale o come tessitore della manovra? E in che misura improvvisazione e costruzione s’intrecciano negli affondi con cui spezza gli equilibri delle partite? Che sia un pallone da condurre in transizione e poi da calciare seccamente, o una palla da spingere in porta, Lautaro è lì. Lì dove non ti aspetti. Non cade se sente di poter arrivare in porta, anche se l’avversario è più grosso di lui. Non vuole più sbagliare quando c’è da apporre un punto fermo, quando deve ripetersi per sfuggire la casualità.

Mettetevi comodi, ci sono un bel po’ di gol da vedere

I digiuni, quei digiuni che lo rendevano isterico, e tra tutti il lungo digiuno che all’Inter costò il campionato, nell’inverno 2021, devono averlo segnato. Perché una vena realizzativa ispirata era ciò che lo separava dal diventare un direttore d’orchestra, il top player di cui questa squadra aveva bisogno. E ora che ne dispone, ora che l’ha trovata, si sentirà in grado di adempiere con forza – per spegnere l’ossessione, cancellare l’incertezza – alla locuzione cartesiana in salsa pallonara del “io segno, io dunque sono”. Dove “l’io”, l’ego latino che nella traduzione italiana è stupidamente tralasciato per motivi di ritmo, è il centro della relazione logica. Perché tutto parte dall’ego. Specialmente per un attaccante chiamato a essere freddo, brutale e seriale. E lo scoprirsi autonomo e capace di reggere da solo il fardello di un reparto deve essere stato il punto di svolta. Perché sentirsi un io è il primo passo per sentirsi un tutt’uno con il collettivo. Agire come braccio di quel collettivo.

E nessun calciatore, più di Lautaro Martínez, è un tutt’uno con questa versione dell’Inter, dove se Inzaghi è il dottor Frankenstein, lui è il mostro nato dalle sue mani. Un freak che, se si dà retta alle proiezioni, quest’anno potrebbe terminare la stagione con oltre trenta gol stagionali. Ma se la creatura di Mary Shelley soffriva di un problema di identità, Lautaro ha il merito di averne forgiata una all’insegna dell’appartenenza, strappandola a forza dal corso degli eventi, senza lasciarvisi risucchiare. Dopo le grandi delusioni dello scudetto mancato e della finale di Champions League persa, o l’abbandono dei compagni di reparto, sarebbe stato facile spezzare il legame per rinascere altrove, in un contesto senza memoria, lontano dagli errori sotto porta che hanno sempre – e non a torto – inficiato il giudizio complessivo su di lui. Scegliendo di rimanere dov’era, Lautaro ha dirottato tutte le energie sul proprio processo di maturazione. E se da tutto questo  venuta fuori una versione più insolita di Lautaro, che comunque continua ad avvalersi dell’abituale intensità in ogni frangente e che alle solite pause contrappone violente esplosioni di talento, la nettezza dei suoi numeri ci consegna un vero e proprio fuoriclasse, un giocatore simmetrico allo status dell’Inter. 

E ciò è stato possibile anche perché il sistema che gli ha costruito attorno Simone Inzaghi gli ha consentito di alzare il tiro, implementando al suo arsenale di soluzioni un rapporto mai così diretto con la porta. Dal canto suo, Lautaro sta dimostrando di saper reggere il peso di un ruolo più centrale sotto ogni aspetto. Anzi, sembrava non attendesse altro, da dopo i vittoriosi mondiali in Qatar e la nomina a capitano del club. Un sodalizio che rinnova il rapporto storicamente felice dell’Inter con i giocatori argentini, nonché il legame che unisce Lautaro al mondo nerazzurro. Sempre meno scudiero, sempre più primo cavaliere. Il drago della vittoria europea, la cui testa consentirebbe a Lautaro di entrare in una cerchia molto ristretta e pregiata di giocatori, non solo interisti, resta al varco. Ma il viaggio dell’eroe prevede numerose prove intermedie. E vincere il campionato che consegnerebbe all’Inter la seconda stella è la sfida perfetta. Qualcosa che darebbe al suo arco narrativo, e agli annali che lo riguardano, una completezza verosimilmente cinematografica. Di quelle che contemplano dubbi, cadute, rinascite e infine la definitiva consacrazione. Certo, c’è ancora un intero girone di ritorno da giocare, ma in questo momento della sua carriera nulla sembra poter fermare Lautaro.