La soprannaturale Coppa d’Africa della Costa d’Avorio

Il percorso degli ivoriani è stato talmente accidentato e sorprendente da far sorgere il dubbio che ci sia una forza mistica a spingerli verso la vittoria finale: resta un ultimo ostacolo da superare, la Nigeria.

Gli Elefanti, come racconta il Libro della Giungla, non dimenticano nulla. Emerse Faé, l’allenatore chiamato al capezzale della Costa d’Avorio dopo le dimissioni di Jean-Louis Gasset, giunte a torneo in corso – dopo l’ultima gara della fase a gruppi, quando il destino degli arancioni non si era ancora compiuto – ne è la dimostrazione. Si è convinto che nel percorso intrapreso da quel momento in poi dalla Costa d’Avorio, presa sull’orlo del burrone e traghettata sino alla finale della Coppa d’Africa, ci sia un qualcosa di mistico, suffragando questa convinzione con un aneddoto personale. «La finale con la Nigeria sarà una vendetta. Ricordo che da giocatore, al Mondiale U17 del 2001, quando giocavo con la Francia, perdemmo con la Nigeria nella fase a gruppi, ma poi, però, vincemmo il torneo battendola in finale», ha raccontato l’attuale commissario tecnico della Costa d’Avorio.
Del resto, a prescindere dai corsi e ricorsi storici, è difficile pensare che non ci sia una forza soprannaturale a spingere la Selefanto in questa avventura. Il percorso della Costa d’Avorio in questa Coppa d’Africa è stato un inno alla sopravvivenza. Gli arancioni, padroni di casa, sono andati vicinissimi all’eliminazione nella fase a gironi, come peraltro già accaduto nell’ultima edizione casalinga, quella 1984. Dopo un esordio tutto sommato convincente, con un secco 2-0 rifilato alla Guinea Bissau, è arrivata la sconfitta di misura (0-1) con la Nigeria, il primo vero big match della manifestazione. Niente di preoccupante, però: alla fine, d’altronde, sarebbe bastato un pari con la Guinea Equatoriale per passare il turno. È successo l’impensabile: 0-4, figuraccia storica e Nazionale costretta ad uscire dallo Stadio Olimpico Alassane Ouattara di Ebimpé protetta dalla scorta. In quel momento la Costa d’Avorio, fischiata dal suo stesso pubblico, era in ginocchio, mentre fuori dallo stadio divampava la protesta, con auto e bus presi di mira dalle sassaiole dei tifosi inferociti.Eppure, considerando la possibilità di approdare agli ottavi come una delle quattro migliori terze, il destino rimaneva ancora appeso ad un filo: serviva, insomma, che due squadre facessero peggio della Selefanto. Nessuno, però, era pronto a scommetterci. Tantomeno Jean-Louis Gasset, storico vice di Laurent Blanc, forse troppo frettoloso nel rassegnare le dimissioni, prontamente accettate dalla federazione. «Eravamo in uno spogliatoio devastato, con scontri all’esterno dello stadio», ha spiegato pochi giorni fa l’ex commissario tecnico, rompendo finalmente il lungo silenzio. «Eravamo sull’orlo della catastrofe, francamente. Alleno da trentacinque anni e queste sono le mie prime dimissioni, ma visto quello che stava succedendo non potevo fare altrimenti».Nei giorni, successivi, però, il vento ha cominciato a soffiare nella direzione giusta. Secondo alcuni, per merito degli stregoni di Akradjo, un villaggio alle porte di Abidjan, inizialmente additati come principali responsabili della catastrofe sportiva. Ogni qualvolta la Costa d’Avorio gioca in Coppa d’Africa, nel bene o nel male, gli stregoni di Akradjo c’entrano sempre qualcosa. La vicenda è piuttosto nota e risale alla Coppa d’Africa del 1992, la prima conquistata dagli Elefanti dopo un’interminabile serie di rigori nella finale con il Ghana.I ghanesi, quella sera, avevano paura, erano quasi paralizzati, convinti di perdere. Dietro il loro nefasto presagio c’era un motivo preciso. Prima della partita avevano visto il portiere ivoriano Alain Gouaméné sistemare una strana borsa all’interno della porta e subito si erano affannati nel farlo presente all’arbitro, temendo che si potesse trattare di un talismano, un oggetto mistico legato alla stregoneria. Per sincerarsi del contenuto della borsa, avevano mandato persino un ambasciatore, Anthony Baffoe, ma alla fine si era rivelato un falso allarme: «Sono andato a controllare cosa c’era nella famosa borsa che faceva paura. Ma non mi ha incuriosito. Vengo dall’Europa. Sono stato il primo ghanese nato all’estero ad indossare la maglia delle Black Stars», ha ricordato tra il serio e il faceto lo stesso Baffoe, oggi affermato dirigente della Caf, in un’intervista a L’Equipe.Le preoccupazioni delle Black Stars, però, non erano del tutto infondate. Insieme alla Nazionale ivoriana, infatti, aveva viaggiato una comitiva di sciamani provenienti proprio da Akradjo. Il grande architetto di questa iniziativa era stato Réne Diby, il ministro dello Sport dell’epoca nato proprio ad Akradjo, ma il tecnico Yeo Martial sopportava malvolentieri la presenza degli stregoni, anche se non era riuscito ad impedirgli di alloggiare nello stesso hotel degli Elefanti: «Li abbiamo visti per la prima volta il giorno prima della prima partita. Ci hanno detto che avevano già festeggiato la vittoria prima di venire a Dakar», ha confessato il portiere Gouaméné.
Magia nera o meno, la Costa d’Avorio trionfa, così come nel 2015 quando, secondo i bene informati, qualcuno aveva convinto gli stregoni di Akdradjo a ritirare l’anatema lanciato trent’anni prima per ripicca dopo non essere stati pagati per i servizi resi alla patria. Normale, quindi, trovarseli come protagonisti anche nel 2024. In effetti, considerato quello che sarebbe successo nei giorni successivi, è piuttosto facile credere all’influsso di una non meglio identificata forza oscura.Il Mozambico acciuffa il Ghana in zona Cesarini, la RD Congo stoppa la Tanzania, e a quel punto il destino della Costa d’Avorio finisce tutto nelle mani del Marocco. Didier Drogba, che non ha mai svestito i panni del capo-popolo, chiama a raccolta gli ivoriani, invitandoli ad invadere il Laurent Pokou Stadium di San Pédro, sede della decisiva sfida tra Marocco e Zambia. In uno stadio che sembra essere a Rabat o Casablanca, e davanti ad una folla che urla “Viva Marocco” per tutta la partita, i Leoni dell’Atlante superano di misura i Chipolopolo, portando la Costa d’Avorio alla fase ad eliminazione diretta.Nel frattempo, preso atto delle dimissioni di Gasset, la federazione ivoriana si guarda intorno e cerca di ingaggiare in extremis Hervé Renard, il carismatico condottiero del 2015. C’è solo un problema: allena già la Nazionale femminile francese. Allora, non vedendo altre soluzioni all’orizzonte, la FIF presieduta da Idris Diallo opta per la soluzione casalinga, lasciando sulla panchina Emerse Faé, il vice di Gasset. Sembra una scelta azzardata, e forse lo è, considerando che nel curriculum da allenatore di Faé c’è ben poco di rilevante, a parte una parentesi nell’equivalente dell’Eccellenza francese, ma in questa strana Coppa d’Africa a prevalere è l’irrazionale e la decisione si rivelerà azzeccata. Anche se, a più di qualcuno, il dubbio viene già agli ottavi di finale.
Di fronte al Senegal, campione in carica e squadra più accreditata per la vittoria finale, la Costa d’Avorio va sotto dopo appena tre minuti, bucata da Habib Diallo. In molti pensano che sia il teaser trailer di una goleada, ma si sbagliano. Nella ripresa entra Haller, anche se ancora condizionato dai postumi dell’infortunio, e la Selefanto aumenta i giri del motore. Nel finale, Mendy esce a valanga e travolge Pepé: calcio di rigore. Dagli undici metri Kessie, fino a quel momento eclissato dal compagno di reparto Seko Fofana, non sbaglia e si va prima ai supplementari e poi ai rigori. Gli Elefanti sono impeccabili, fanno en plein e, contro ogni pronostico, avanzano ai quarti mandando a casa i detentori del titolo.
 Il vero manuale della sopravvivenza, però, la Costa d’Avorio lo scrive nei quarti con il Mali. Sotto di un uomo dopo l’espulsione di Kossonou al crepuscolo, e di un gol, quello splendido di Dorgeles, che non esulta per rispetto alle proprie origini ivoriane, la Selefanto resuscita ancora una volta. Sull’ultimo pallone del match Adingra, tornato a pieno regime dopo aver saltato per infortunio la prima parte del torneo, vince un rimpallo e supera Diarra, rinviando il verdetto ai tempi supplementari. Il Mali conserva sempre la superiorità numerica, ma ormai tutti sanno come andrà a finire. Oltre ad Adingra, per dare nuove energie a una squadra stremata, Faé aveva inserito anche Oumar Diakitè. È proprio il classe 2003 del Lipsia, al 122′, con una deviazione in mischia, a diventare l’eroe della serata, portando la Costa d’Avorio in semifinale e facendo esplodere di gioia il popolo ivoriano. Eric Chelle, l’allenatore del Mali, anche lui di origini ivoriane, ha un mancamento, si tiene la fronte con la mano, mentre un componente lo rinfresca versandogli una bottiglietta d’acqua sul capo glabro. Non riesce a crederci: è appena finito vittima dell’infinito istinto di conservazione della Costa d’Avorio. Deve arrendersi anche lui. In maniera rocambolesca, e sempre più mistica, nonostante gli ostacoli sempre più alti posti dal destino, la Selefanto è sopravvissuta un’altra volta. «Negli ultimi minuti eravamo in difficoltà sul gioco aereo. La Costa d’Avorio è stata aiutata dalla fortuna. È un colpo difficile da digerire», ha dichiarato, quasi sconvolto, in conferenza stampa.
Un monito per la Repubblica Democratica del Congo, che approccia la partita in maniera timida, quasi spaventata dall’aura di misticità soprannaturale che avvolge la Costa d’Avorio. Eppure, anche i Leopardi, devono lasciare il passo agli Elefanti, trafitti da un gol al 65′ di Haller, che schiaccia al volo in maniera sporca, ma quanto basta per scavalcare Mpasi Nzau, eroe della lotteria dei rigori nell’ottavo con l’Egitto. Una traiettoria strana che, a pensarci bene, potrebbe essere stata teleguidata da una forza ultraterrena. Al fischio finale Drogba è incontenibile, canta e balla con il pubblico, festeggia mimando “il salto del canguro” insieme a Djibril Cissé, opinionista come lui per NCI, la tv ivoriana. «Voglio sottolineare il grande lavoro di Emerse Faé. Gasset ha fatto quello che poteva fare con questa squadra», ha dichiarato l’ex totem del Chelsea. «Ma Emerse conosce bene questa realtà dall’interno, essendo stato anche un calciatore. Conosce il pubblico, sa quello che vuole e soprattutto come reagisce ai risultati».