Da meme a genio: come Simone Inzaghi ha messo d’accordo tutti

Internet lo ha memificato troppo presto e troppo spesso, ma il tecnico dell'Inter si sta dimostrando un allenatore migliore di quello che quasi tutti si aspettavano.

Così come ci sono volti che sembrano disegnati appositamente per essere inquadrati da una cinepresa o scattati da una macchina fotografica, ce ne sono altri che sembrano pensati esclusivamente per essere trasformati in meme. Il volto di Simone Inzaghi appartiene a quest’ultima categoria. Mentre scrivo questo articolo consulto anche l’archivio di meme che conservo nel telefono, una galleria divisa tra gli sticker preferiti su Whatsapp e le foto salvate nella memoria del dispositivo. Mi accorgo che se volessi potrei dedicare una sezione intera di questa galleria a Inzaghi, a primi e primissimi piani del suo volto utilizzabili per esprimere i significati più vari nelle situazioni più disparate. Gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto: come tutti i grandi meme, il volto di Inzaghi si presta alle opere di decontestualizzazione, rielaborazione e risignificazione tramite le quali la realtà viene trasformata nella sua parodia.

Non è soltanto né propriamente buffo, il volto di Inzaghi. Non basta questo a fare un meme che funzioni: serve essere rappresentativi, espressivi e soprattutto versatili. Non a caso si dice “base” per i meme: il significato, il messaggio, il contesto vengono decisi di volta in volta dall’autore del meme. Certo, il volto di Inzaghi fa anche ridere. In alcuni casi fa molto ridere. Poche cose trovo divertenti come la giustapposizione del suo volto dopo la decisione favorevole del Var in un Inter-Barcellona di Champions del 2022 a quello dell’Awkward Looking Monkey Puppet, quel meme del pupazzo di una scimmia che con fare imbarazzato guarda dritto nell’obiettivo – e negli occhi dell’osservatore – per poi distogliere lo sguardo provando a far finta di niente. Ma scorrendo i vari e tanti usi ai quali il volto di Inzaghi è stato suo malgrado prestato, è come vedere i protagonisti di un remake calcistico di Inside Out. L’unica differenza è che le emozioni primarie – gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto – protagoniste del film Pixar, in questa versione italiana hanno tutte lo stesso volto. Il volto di Inzaghi.

Smetto di ridere pensando all’origine del soprannome “il demone di Piacenza”, a quella reazione allo stesso tempo impietrita e inviperita che Inzaghi ebbe di fronte a un polemico Federico Chiesa, che si era azzardato a contestare una rimessa laterale che Inzaghi aveva convintamente assegnato all’Inter. Smetto di ridere e penso quanto sia più difficile affermarsi come allenatori – come professionisti in generale – di altissimo livello in un mondo che ha attorno a sé miliardi di occhi organici e meccanici, sempre aperti e continuamente vigili, pronti a cogliere ogni occasione buona di ridicolizzazione. Penso a quanto conti la coolness nella costruzione del successo di un allenatore, a quanto tutto sia cambiato da quando Mourinho disse che l’unico attore adatto a interpretare Mourinho nel biopic di Mourinho sarebbe stato George Clooney. A quanto la carriera di Guardiola sia stata influenzata dal fit skinny dei suoi pantaloni, dai suoi gusti nell’assemblare maglioni a girocollo, pantaloni cargo, sneakers, dal suo modo di toccarsi il volto e di parlare piano e di guardare sottecchi in conferenza stampa. A come Klopp sarebbe stato un allenatore diverso se non si fosse affermato nell’epoca della trap e della drill, condividendo con i generi musicali più commerciali, cosmopoliti e giovanili il feticcio per la tuta. A come il Liverpool, dopo anni di depressione, avesse bisogno esattamente di quel suo sorriso cartoonesco. Penso al fatto che Conte non potrebbe mai permettersi di essere serio com’è – né avrebbe mai potuto aspirare a essere preso sul serio come è stato preso – se non avesse fatto di tutto per avere quei capelli. E poi mi chiedo cosa penseremmo di Ancelotti senza il ciuffo scolpito e il sopracciglio arcuato, e di Simeone senza i riccioli quasi cotonati e i completi eleganti nero su nero.

Stiamo “sottovalutando” Inzaghi perché è uncool? Perché gli manca quel tratto estetico caratteristico che hanno avuto tutti gli allenatori ascesi nell’immaginario collettivo del calcio degli anni Duemila? Perché internet lo ha memificato troppo presto e troppo spesso (“spiaze” lo ha detto davvero lui o ce lo siamo inventato noi, non riesco più nemmeno a rispondere a questa domanda), e ormai non c’è diritto all’oblio che tenga né che valga? Inzaghi sta compiendo un’impresa sportiva paragonabile a quelle del Napoli di Spalletti e della migliore Juventus di Conte. Eppure dal racconto che si fa di questa Inter in questi mesi viene l’impressione che Inzaghi sia un personaggio secondario, minore nella sua stessa storia. Mentre Spalletti e Conte venivano messi spesso – e si mettevano volentieri – al centro del palcoscenico, produttori, sceneggiatori, registi e interpreti del loro trionfo, nel racconto dell’Inter 2023/2024 Inzaghi viene spesso lasciato ai limiti, appena visibile in quella parte del teatro dove la luce del proscenio inizia a spegnersi nella penombra del retroscena. È come se venisse considerato l’amministratore di una fortuna che gli è toccata in sorte, non il fautore del suo patrimonio. Come un manager che gestisce la ricchezza prodotta da altri e non l’imprenditore che quella ricchezza se l’è inventata.

Stiamo “maltrattando” Inzaghi perché è uncool? Perché la sua faccia ha delle eccedenze adipose nei posti sbagliati e la sua voce sembra sempre sul punto di rompersi in pianto? Perché veste come vestono tanti e parla come parlano tutti, perché se non fosse allenatore sarebbe perfetto come impiegato di medio livello in una Pmi di provincia? Perché il suo volto lo abbiamo visto e usato ormai in troppi modi, in troppi contesti per accettarlo come espressione di vittoria? Di più: di trionfo, di dominio, persino di prepotenza, che è l’unico sostantivo giusto per descrivere questa sua Inter? Mentre eravamo distratti dai meme di internet e dagli sticker di Whatsapp, Inzaghi ha trovato finalmente la via italiana al calcio moderno, ha messo assieme gli insegnamenti di un’epoca intera e di un continente tutto, li ha adattati a un Paese tradizionalista, conservatore, retrogrado come pochi altri anche nel senso calcistico. Ha costruito una casa di lusso usando le macerie del dopo Conte, spesso accontentandosi, talvolta arrendendosi, sempre aspettando. Il momento buono, l’occasione giusta, l’anno perfetto: è in questa successione che sta la grandezza dell’Inter di quest’anno e il trionfo personale di Inzaghi, architetto, ingegnere e muratore di un process come raramente se ne sono visti nella storia recente del calcio italiano.

Se solo fosse nato più cool, se soltanto non fosse diventato meme. Inzaghi è in effetti il contrario dell’allenatore per come abbiamo imparato a intenderlo negli anni Duemila, da Mourinho al Porto al Bayern di Nagelsmann passando per Guardiola, Klopp, Conte, Spalletti: il contrario dell’allenatore Migliore attore protagonista, del leader non solo carismatico ma anche appariscente, del punto luce capace di attirare l’occhio inevitabilmente su di sé. In certi momenti, Inzaghi mi ricorda Keanu Reeves/Neo di Matrix quando ancora doveva convincersi di essere il personaggio principale della sua stessa storia. «I’m just another guy», diceva, ancora appesantito dall’abito di nullità che la matrice gli aveva cucito addosso. Che è quello che la matrice del mondo reale, tra sticker di Whatsapp e meme di internet, ha fatto a Inzaghi. Chissà che questo non sia l’anno in cui anche lui, come Neo, scopre che quello che tutti, compreso lui stesso, pensavano fosse «just another guy» è in realtà l’Eletto.