Il giorno in cui nacque il gol alla Del Piero

Un estratto del libro Alessandro Del Piero, Il primo della classe, di Patrizio Ruviglioni, edito da 66thand2nd.

È la stagione 1995/96 a stabilire gran parte dei simboli e delle espressioni associate a Del Piero. È in quell’estate, per esempio, che Gianni Agnelli lo soprannomina «Pinturicchio», in risposta al Baggio «Raffaello». Succede durante l’appuntamento rituale di Villar Perosa, in cui l’Avvocato in jeans e stivali da cowboy risponde lapidario ai cronisti, che come sempre lo interpellano come fosse un oracolo, consapevoli della sua capacità di fornire titoli a effetto. E tra un parere sulla Ferrari, pronostici sulla Serie A e una battuta su Sacchi, eccone un’altra: «Del Piero è come Pinturicchio». C’è del personalismo, ovviamente, dietro questi soprannomi, un atteggiamento da padre-padrone che con l’umorismo dà giudizi sui suoi campioni. Con Sívori era stato bonario («è più di un fuoriclasse, per chi ama il calcio è un vizio»), ma già quando aveva definito Boniek «bello di notte» voleva elogiarlo per le sue prestazioni nelle coppe, certo, ma anche sottolineare implicitamente una sua mancanza nel campionato. Allo stesso modo, Baggio in altra occasione è stato un «coniglio bagnato». Lo stesso Pinturicchio, con tutto il rispetto, non è granché. È il soprannome con cui è conosciuto il pittore quattrocentesco Bernardino di Betto Betti, e sta per «piccolo pintor», piccolo pittore, perché l’artista aveva una corporatura minuta. È un maestro conclamato della scuola umbra, e anche Alessandro è un artista dalla corporatura minuta, ma non è mica da questi particolari che si giudica un pittore o tantomeno un giocatore, e non serve un libro di storia dell’arte per capire che il parallelo con Baggio-Raffaello non regge. Cos’è Pinturicchio: un complimento uscito male o una battuta che nasconde nostalgia per il Codino? Non si capisce. Nemmeno Del Piero lo sa: «Forse vuol dire che posso ancora migliorare».

Per il momento ci si deve accontentare del soprannome in sé, perché – su questo non ci sono dubbi – il fatto stesso che Gianni Agnelli si sia scomodato a darne uno a Del Piero è indice della centralità di Alessandro nel progetto juventino. Per ripulirlo dalla maliziosità che si porta dietro nell’estate del 1995 e per l’amore dell’Avvocato che ancora non c’è, e che sa come farsi desiderare, servirà ancora un po’ di tempo. Anche i tifosi, intanto, sono scettici all’idea di aver ceduto Baggio, che nonostante tutto ha solo buone parole per l’erede designato: «Se lo lasciano tranquillo può diventare un grandissimo». Solo la triade è pronta a scommettere sulla successione, tanto che alla fine dell’estate blinda Del Piero offrendogli un miliardo e mezzo a stagione fino al 2000. È un ottimo compromesso, raggiunto anche grazie all’intermediazione del nuovo procuratore Claudio Pasqualin, già protagonista nello storico (per volume d’affari e annesse polemiche) trasferimento di Lentini al Milan. L’effetto del nuovo accordo è duplice: da un lato superare la soglia psicologica del miliardo mostra come i dirigenti bianconeri siano anche disposti a spendere, quando vogliono; dall’altro, per la prima volta associa Del Piero al concetto di «nuovo millennio», rendendolo un’icona di un mito – di cambiamento, pace, globalizzazione in senso positivo – che ha già preso piede in tutti i campi. Avete presente il videoclip di “Scatman’s world”, il brano eurodance del 1995, con un mondo iperconnesso di bianchi e neri, grattacieli, aeroplani e tribù, e Scatman che canta la fine del razzismo e delle diversità? Ecco, quell’immaginario lì.

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Con altre cessioni – sono partiti Kohler e Jarni, oltre a Baggio – la società si è pagata i lavori d’ingrandimento della rosa, ora molto ampia. Dal Torino c’è Pessotto, affidabile terzino sinistro e presto colonna della difesa, mentre davanti la punta di scorta è Padovano, non un bomber di razza ma uno che sa calciare i rigori, e che tornerà utile spesso. Gli investimenti maggiori sono verso la Sampdoria, da dove arrivano l’esperienza dello «Zar» Vierchowod e di Lombardo – che ritrovano Vialli dopo lo scudetto del 1991 – e le capacità da tuttofare di Jugović. Per Gianni Brera «scambiare Baggio con tre manovali venuti a noia persino alla Sampdoria vuol dire non aver capito in cosa consiste il fascino di una squadra», ma l’impressione è che non abbia colto la direzione del calcio dell’epoca, più fisico e meno legato alla figura dei fantasisti. Non che Baggio sia inadatto: è che basta e avanza Del Piero, a cui tra l’altro in questa prima stagione a numeri fissi sulle maglie è stata assegnata una dieci che sa d’investitura per il futuro. E se Lombardo viene messo presto fuori da un infortunio, bruciando l’ipotesi di un centrocampo a quattro con lui e Del Piero ai lati, Vierchowod di fianco a Ferrara è fondamentale anche a trentasei anni, al netto di qualche acciacco. E Jugović, beh, è Jugović: un angelo custode che due stagioni dopo, alla Lazio, verrà soprannominato «Mezzasquadra», capace di completare in maniera versatile una mediana che per il resto poggia sul cervello di Sousa e il filtro d’autore di Deschamps.

Confermati, infine, Peruzzi in porta, Torricelli terzino destro, l’onnipresente Di Livio e i vari Carrera, Marocchi, Tacchinardi e Conte in panchina, con il nuovo capitano Vialli e Ravanelli a spartirsi le quote davanti. Del Piero parte largo nel tridente o, quando Lippi sceglie un 4-4-2 più abbottonato, si alterna con i due attaccanti. Nonostante le premesse, però, in autunno un’emorragia imprevista di infortuni e ribaltoni tiene la Juventus appena in zona Uefa, lontana dall’immancabile Milan capolista, rinforzato da Weah e dallo stesso Baggio, comunque relegato a comprimario di Savićević e Simone. La formula dell’anno prima – giocare per vincere sempre, anche a costo di perdere – non vale un altro giro sulla giostra, e per Natale i bianconeri sono usciti sconfitti in cinque delle ultime dieci partite, tra cui un 4-0 all’Olimpico con la Lazio di Zeman. Del Piero è emozionante per la purezza con cui gioca, fa il possibile per tenere in piedi una squadra che si muove a scatti, segna di testa (una novità) alla Fiorentina un gol da tre punti all’apice della crisi, ma non sempre basta.

Al contrario della tradizione, insomma, è la Champions League a riservare le uniche soddisfazioni. Per la Juventus è un debutto: l’ultima partecipazione risale al 1986, quando il torneo si chiamava Coppa dei Campioni ed era tutto a eliminazione diretta. Ora la formula è cambiata, ci partecipano ancora solo i vincitori dei campionati 52 nazionali ma somiglia già a quella di oggi: si parte dai gironi, con le prime due che si qualificano ai quarti di finale. A Torino non è ancora un’ossessione, ma i precedenti dicono già che è una coppa maledetta. L’unica vittoria è quella contro il Liverpool nel 1985, segnata dalla tragedia dell’Heysel, mentre le finali perse sono due, ed è opinione diffusa che con Trapattoni, in generale, si sarebbe potuto fare di meglio. Non bastasse, il sorteggio ha portato in dono i tedeschi del Borussia Dortmund, i romeni della Steaua Bucarest e gli scozzesi dei Glasgow Rangers; tre trasferte toste, con vista sul girone di Real Madrid e Ajax campione d’Europa e del mondo. C’è anche una discreta pressione dall’Italia, visto che dal 1992 in poi una nostra squadra è arrivata sempre in finale – prima la Sampdoria a Wembley, perdendo, e poi per tre volte il Milan. Auguri. L’esordio del 13 settembre in casa del Borussia è oltretutto la tappa più difficile del viaggio. Il Westfalenstadion sarà anche favorevole a Vialli e compagni, ma il «muro giallo» dei tifosi di casa fa sempre impressione e il Dortmund è un’ottima squadra, padrona di un campionato non al livello della Serie A ma competitivo. E poi è piena di ex (Kohler, Júlio César, Reuter, Möller), il che non è mai un buon segno. La Juventus ha fuori Vialli e Ravanelli, deve affidarsi a Padovano e Del Piero e a meno di un minuto dall’inizio prende gol proprio da Möller.

Poi però si accende Alessandro, che trasforma gli accenni di una possibile disfatta in elementi di ulteriore pathos in una delle partite fondamentali della storia dei bianconeri. Al dodicesimo, mette in mezzo un pallone su cui Padovano trova la frustata giusta, ed è subito pareggio. Poi, al trentasettesimo, ha l’epifania internazionale: recupera in profondità un’apertura intelligente di Jugović, entra in area sulla sinistra, fa ballare Kohler – icona di un passato che è passato, davanti a lui – al limite e lascia partire un tiro a giro che scavalca il portiere, leggermente fuori dai pali. Eccolo, il primo «gol alla Del Piero». Ovvero, da dizionario, una rete fatta colpendo il pallone di interno collo, con un tiro a giro sul secondo palo dal vertice dell’area di rigore e che, appunto, segue una traiettoria a mo’ di pallonetto.

Aveva già segnato reti simili, come appunto quella al Cagliari, i tiri a giro a Napoli e Lazio o la palombella da distanza siderale sempre contro il Dortmund in un’amichevole balneare di un mese prima. Ma era come se a ciascuno di questi mancasse una parte: stavolta i pezzi del puzzle ci sono tutti, e presto Del Piero ne realizzerà altri identici, a cadenza regolare. Come sotto un incantesimo, come fosse in grado di segnare solo così, a ogni tentativo. E infatti già a fine anno il «gol alla Del Piero» sarà un’espressione di dominio pubblico, nonostante nel frattempo Enrico Chiesa della Sampdoria, per dire, abbia cominciato anche lui a segnare ripetutamente a giro – e continuerà a farlo molto più a lungo di Del Piero. Ma Alessandro è il nuovo, è il Duemila, è la Juventus che torna in Champions League, e in un tempo ridottissimo si prende l’attenzione dei media e la nostra. Se cerchiamo nei ricordi un’immagine di lui maturo, infatti, ci viene in mente la punizione a effetto contro l’Inter e l’esultanza con la linguaccia. Ma se lo pensiamo da giovane, vediamo questo Del Piero: con i capelli corti e la maglia blu con le stellone gialle sulle spalle, mentre volteggia tra gli avversari e segna gol «alla Del Piero». E come sennò?

Torniamo al Westfalenstadion. La parabola che sorvola il portiere del Borussia non solo ribalta il risultato, ma rivista oggi ha anche una portata simbolica. È simbolico, per esempio, che arrivi dopo una serie di passi e passetti che disorientano Kohler, come se Del Piero fosse talmente etereo da sfuggire alla ruvidezza dei difensori più esperti. Ed è anche simbolico che l’estremo difensore tedesco – pur disposto male – faccia tutto per arrampicarsi senza riuscirci, come a marcare una differenza, ancora, tra il calcio che in quel momento scorre nei piedi e nella testa di Del Piero e quello pensato dagli altri. Perché questo è un break, un’azione personale che spezza la partita e a cui gli altri non stanno dietro. Ed è simbolico, infine, che Del Piero prenda la mira, di nuovo, con la precisione e l’accuratezza di un cestista che centra un tiro da lontano, che tutto ciò avvenga alla sua prima partita in Champions League.

Un estratto del libro Alessandro Del Piero, Il primo della classe, di Patrizio Ruviglioni, edito da 66thand2nd.