Lo sapevo che sarebbe andata a finire così, tra Psg e Borussia Dortmund. Lo sapevo perché certe partite non sono soltanto delle partite il cui fine ultimo è sancire chi vince e chi perde, chi può continuare a giocare e chi deve tornarsene a casa. Certe partite servono uno scopo superiore: mandare un messaggio, ribadire un concetto, confermare l’ethos del gioco stesso. Nonostante i tantissimi discorsi che facciamo ormai da tantissimi anni sul futuro inevitabile di questo gioco (e lo sappiamo che il Psg è parte di questo futuro inevitabile, assieme a tutti gli altri Psg che verranno), il calcio resiste alla trasformazione che esso stesso ha deciso per sé. È come un corpo che rigetta un organo trapiantato pur sapendo che in quell’organo stanno tutte le sue speranze di sopravvivenza, e che nel futuro inevitabile ci sono soltanto un altro trapianto oppure la morte.
Il Chelsea ci ha messo dieci anni per vincere la sua prima Champions League, e lo ha fatto in circostanze e condizioni talmente improbabili da far pensare che si sia trattato di un incidente storico, di un gravissimo glitch nell’altrimenti inarrestabile matrice del calcio. Al City ci sono voluti addirittura quattordici anni e Pep Guardiola ed Erling Haaland. La Qatar Investement Authority ha messo il Psg nel suo portafoglio d’investimenti nel 2011, nel frattempo sono passati gli anni, sono stati spesi i miliardi, Messi è andato a palleggiare negli Stati Uniti, Neymar a ingrassare in Arabia Saudita, Mbappé ha deciso di fare l’esperienza all’estero ma la Champions League il Psg ancora non l’ha vinta. E non solo non l’ha vinta: ha davvero avuto la possibilità di vincerla soltanto una volta, nella finale dell’edizione 2019/2020, persa contro il Bayern Monaco. Nello stesso periodo, il Dortmund ha avuto più possibilità di farcela del Psg: nel 2013 perse contro il Bayern, e quest’anno vedremo che succederà.
Qual è il messaggio, il concetto, l’ethos che il calcio vuole ribadire attraverso partite come quella di ieri sera tra il Psg e il Dortmund? Che i quattro quarti di nobiltà contano ancora e tanto. Che la società del pallone è una società divisa in classi e che l’accesso all’aristocrazia non può essere comprato nemmeno dai nuovi ricchi, neanche dai più ricchi: può soltanto essere concesso. Negli anni in cui il Chelsea, il City e il Psg hanno faticato (il Psg fatica ancora) a vincere l’unico trofeo che ormai conta davvero nel calcio, abbiamo assistito a un qualcosa di simile a un fenomeno naturale, a una di quelle manifestazioni di forze che non riusciamo a percepire con i sensi né a spiegare con la razionalità. Forze che però esistono, infuse nel mondo tutto intorno a noi, intessute nella realtà a livello subatomico. Spesso abbiamo la sensazione di vivere noi nel mondo loro, su concessione, per grazia ricevuta.
Ci pensavo guardando la semifinale, ieri sera. Il Psg non avrà giocato la migliore partita della sua stagione – Luis Enrique potrà anche allenare la sua squadra a subire torti arbitrali, ma la maniera per gestire quella “prescia” che prende quando si avverte il tempo che finisce non l’ha ancora trovata nessuno – ma ha giocato comunque un’ottima partita. D’accordo, i numeri sono astrazioni che non raccontano mai tutta la verità; però ci sono dei numeri che hanno una certa materialità. La materialità del legno, per essere precisi: due pali e due traverse ha colpito il Psg, in quasi venticinque anni di vita da tifoso/spettatore e in centinaia, migliaia di partite non mi ricordo quante altre volte l’ho visto succedere. Come sempre fanno gli esseri umani di fronte ai fenomeni che non si riescono a spiegare e che pure sembrano la realizzazione di un disegno preciso, si finisce a ridurre tutto alle forze onnipotenti: la sorte o una volontà divina. Il Psg è stato sfortunato? Sicuramente, sfortunatissimo. C’è un’entità, nel centro lontano e inaccessibile dell’universo del calcio, che ancora non accetta di lasciare questo universo alle nuove superpotenze che stanno soppiantando i vecchi imperi? Se siete come me, questa è una spiegazione dell’accaduto più accettabile della sorte avversa.
Un’altra cosa mi è successa mentre guardavo la semifinale, ieri sera. Una cosa che quell’entità che esiste nel centro lontano e inaccessibile dell’universo del calcio sono certo non aveva e non avrebbe mai previsto, la conferma che un’autoconservazione ostinata è solo un’altra maniera di tendere verso l’autodistruzione inevitabile alla quale tende ogni sistema, tutti gli organismi. Mentre vedevo la sorte avversa o la volontà divina accanirsi sul Psg, ho cominciato a fare il tifo per i parigini. Prima silenziosamente, vergognandomi di ogni volta che i miei denti sfregavano gli uni sugli altri per il nervosismo, di tutte le volte che i miei muscoli si irrigidivano per la tensione. Poi, pian piano, ho cominciato a tifare spudoratamente per il Psg, abbandonandomi a imprecazioni e bestemmie e platealità e trivialità di ogni tipo, accanendomi contro una squadra, il Dortmund, che so essere rappresentante della parte giusta in questa fase storica del calcio. Soprattutto, so che il Dortmund rappresenta la parte in cui io credo, in cui io mi identifico, che io spero alla fine prevalga nonostante tutto mi dica sarà sconfitta (peggio: superata, condannata all’obsolescenza dal semplice passare del tempo, dalla banale osservazione dei dati di fatto).
Come si finisce a fare il tifo per il Psg, consapevoli che farlo è come sperare che Elon Musk diventi Presidente degli Stati Uniti, è come augurarsi la distruzione del calcio per come l’ho conosciuto fin qui? La verità è che una risposta io non ce l’ho. Non sono cattolico né il cattolicesimo ha avuto alcuna influenza nella mia formazione culturale: non sono quindi uno di quelli convinti che il posto in Paradiso ce lo si guadagni con la sofferenza, con il dolore sulla Terra. Negli anni passati le disgrazie del Psg mi hanno sempre rallegrato, la giustapposizione delle immagini dei mesti festeggiamenti per la vittoria della Ligue 1 con quelle della disperazione per l’ennesima Champions League mancata mi hanno aiutato a rinsaldare le mie convinzioni: non tutto si può comprare, non basta prendere Messi per diventare il Barcellona, non basta mettere assieme un’accozzaglia di galacticos per trasformarsi nel Real Madrid. Ma stavolta, quest’anno, è successo qualcosa. Forse c’entra Mbappé, il dispiacere di vederlo fallire nella missione impossibile, messianica che lui stesso si era assegnato con il piglio allo stesso tempo altruistico ed egomaniaco dei supereroi.
È triste pensare a una squadra che passerà alla storia come quella in cui Mbappé non è riuscito a fare quello che voleva fare, nonostante abbia così fortemente voluto farlo (mai come quest’anno ho visto Mbappé bruciare il suo cosmo con tale intensità, finalmente libero da quegli ingombri che erano diventati Messi e Neymar), che alla città sia stata negata pure la possibilità di farsi sfondo al compiersi di una leggenda del calcio. È triste pensare a una squadra che adesso deve trovare la maniera di riempire questo vuoto, perché Mbappé andrà via e Luis Enrique ha già detto che chi rimane deve trovare il modo di «farsene una ragione». È triste pensare che il Psg sta diventando la squadra in cui i giocatori vanno a fallire nel migliore dei casi, a perdersi nel peggiore (quanti nomi si potrebbero fare, di giocatori che in questi anni a Parigi si sono persi), addirittura a svernare. È triste pensare che è vero, i soldi possono comprare (quasi) tutto, ma che con ogni transazione cresce nel prossimo un’indifferenza sempre più grande, sempre più profonda nei confronti della sorte avversa al compratore: nessuno si accorge del Psg che vince, tutti si sentono rincuorati quando il Psg perde. È triste pensare che nella sua ipercapitalistica ricerca dell’eccellenza, il Psg abbia perso per strada una parte di tifosi, quelli che erano contenti di andare allo stadio a vedere giocare Pauleta e quindi figuriamoci quanto avrebbero voluto veder giocare Mbappé. Ma non a queste condizioni, non con lo sportwashing, con gli intrallazzi finanziari, con i secondi fini geopolitici. È triste, il Psg. Forse è per questo che tra ieri e oggi mi sono scoperto suo tifoso: perché non mi ha mai fatto così tristezza, il Psg.