Nel calcio, il concetto di fenomeno è un falso storico. Siamo abituati a considerarlo un fondamentale nato assieme al gioco o comunque poco dopo, ma in realtà i fenomeni nascono nel momento in cui gli occhi meccanici delle telecamere aggiungono il loro punto di vista all’esperienza calcistica. Capace finalmente di cogliere i dettagli a grandezze adatte e a velocità comode, il tifoso/spettatore prende piena consapevolezza di quello che fino a quel momento aveva soltanto potuto intravedere, supporre, intuire, riempiendo con l’immaginazione i punti ciechi lasciati dalla vista: la grandezza dei calciatori sta negli atti impercettibili, nei tocchi accennati, negli spazi stretti e non soltanto nelle quantità misurabili (i gol, gli assist, le vittorie, i trofei). I sovietici lo avevano capito prima di tutti: durante la Coppa del Mondo del 1930 in Uruguay inviarono una proto-troupe televisiva incaricata di seguire i movimenti in campo di José Leandro Andrade, la maravilla negra del Grande Uruguay, retroattivamente considerato il primo fenomeno della storia del calcio.
I sovietici avevano capito cento anni fa quello che noi avremmo riscoperto un secolo dopo con opere tra il calcistico e l’artistico come Zidane: A 21st Century Portrait. Cento anni affinché la tecnologia salisse al livello dei fenomeni: non è un caso se le prime associazioni tra questa parola e un giocatore siano arrivate nel momento in cui il calcio cominciava a essere anche un prodotto mediatico e quindi un’immagine rallentabile, ingrandibile, studiabile. Il fenomeno nella scienza calcistica è come il suo omonimo nelle scienze naturali: una manifestazione di forza la cui grandezza l’umanità è riuscita a comprendere solo con l’ausilio dell’adeguata strumentazione.
Il primo giocatore al quale la parola fenomeno sia stata associata è stato Pelé. Che non a caso è stato anche il primo calciatore asceso alla condizione di superstar: è stato Mbappé nonostante mondo frammentato da limiti fisici, politici, culturali, tecnologici, storici. E c’entra la cinepresa prima e la telecamera poi, usata come un microscopio per osservare le parti che compongono il fenomeno inteso in senso calcistico. Prima di Pelé c’è stata una lunghissima serie di giocatori che oggi definiremmo fenomeni ma che non abbiamo potuto chiamare così perché di loro ci sono rimasti solo “bits and pieces of information”: appartengono a un’epoca mitopoietica del calcio, e come i miti e le leggende del mondo possono soltanto essere immaginati e tramandati. I fenomeni invece si manifestano e si ripetono, attorno a loro non ci sono cantori ma testimoni. Pelé è stato il primo fenomeno. Diego Armando Maradona avrebbe da ridire, ovviamente. Se il brasiliano ha istituzionalizzato il termine, l’argentino ha aggiunto tutte quelle sfumature di significato che le parole non riescono mai pienamente a esprimere. Se alla parola fenomeno associamo i significati che ci associamo oggi è anche e soprattutto merito di Maradona. Proprio come Maradona, il fenomeno per essere tale deve manifestarsi all’improvviso come gli eventi climatici estremi. Come Pelé ma ancora più di Pelé – Maradona si “manifestava” in zone del campo più varie e lontane dalla porta, era incoerente con il suo stesso ruolo come un acquazzone estivo – il diez ha contribuito a definire un’idea che fino a quel momento era rimasta sfuggente.
Le traiettorie di Pelé e Maradona hanno incrociato e si sono sovrapposte con quelle del calcio italiano, pur in maniera diversa, ed è per questo che nell’immaginario collettivo nazionale la traccia del loro passaggio è ancora freschissima. Assai, e assai ingiustamente, più di quella di altri proto-fenomeni immediatamente successivi o precedenti. Su tutti, un nome e un numero: Johan Cruijff, il 14, che ha aggiunto al concetto di fenomeno l’elemento fantasioso-fantastico. Nel calcio, Cruijff è stato quello che Neo è stato per Matrix: una somma di anomalie del sistema, capace di agire al suo interno esercitando il potere semi-divino di modificarne, ignorarne e violarne le leggi a piacimento. Cruijff è riuscito nell’impresa all’epoca inconcepibile di ridisegnare il calcio intero a sua immagine e somiglianza, un’impresa che nemmeno Pelé e Maradona sono riusciti a compiere, uno perché troppo integrato e l’altro perché troppo apocalittico. Di tutto il contributo che questo giocatore ha dato alla definizione del concetto di fenomeno, forse il più importante è uno che non è calcistico ma politico: il fenomeno deve essere un rivoluzionario, deve essere la frattura che spezza il continuum spazio-temporale del calcio. Soprattutto, il fenomeno guarda al passato e decide che non gli piace il suo aspetto, immagina il futuro e lo vede con le sue stesse fattezze.
Cos’è un fenomeno, ci si chiedeva prima di questi giocatori. Qualsiasi cosa si avvicini a loro, ci si è risposto dopo la loro venuta. O che addirittura li superi, fatto impossibile anche solo da immaginare fino a quando un ragazzino brasiliano non si è trasferito da Belo Horizonte a Eindhoven. Ronaldo Nazario da Lima ha fatto più che contribuire ad aumentare e affinare il significato calcistico della parola fenomeno. Ronaldo ha trasformato questa parola da nome comune a nome proprio, è andato oltre la rappresentazione e ne è stato incarnazione. Ronaldo-il-Fenomeno, la dicitura che ancora oggi si usa per identificarlo e distinguerlo da quello che per una generazione intera resterà sempre l’altro Ronaldo. Ronaldo ci ha fatto capire che il fenomeno non è tale se non è anche oggetto del desiderio, sostanza di cui sono fatti i sogni. Ed è per questo che il concetto di fenomeno si completa e istituzionalizza quando nel calcio vengono abbattuti i confini nazionali e il calciomercato diventa libero mercato.
Ronaldo è stato fenomeno anche perché nell’immaginario collettivo è stato il primo bene di ultralusso scambiato nel mercato calcistico: irraggiungibile quasi per tutti ma desiderato, sognato da tutti. Bobby Robson rischiò tutto pur di averlo a Barcellona. Massimo Moratti fece follie per portarlo all’Inter, sicurissimo già all’epoca che quello sarebbe stato il fenomeno e che le altre sorelle della Serie A si sarebbero dovute accontentare al massimo di un fenomeno (e quanti ce ne erano, all’epoca, che potevano contendersi quell’articolo determinativo: Weah, Zidane, Baggio, Totti, Batistuta). Florentino Pérez ne fece il gioiello sulla corona dei Galácticos. Ronaldo è stato un giocatore immaginabile e realizzabile solo nel decennio della globalizzazione dell’economia e della digitalizzazione dell’esistenza, è un prodotto degli anni Novanta tanto quanto Kurt Cobain, Bart Simpson, Quentin Tarantino, Maurizio Cattelan e Alexander McQueen. Ronaldo poteva apparire solo nel decennio in cui l’umanità aveva cominciato a fare tutto a una velocità inimmaginabile. Che è esattamente ciò che faceva di Ronaldo il fenomeno: la capacità di ridurre le distanze e manipolare il tempo, tra un tocco e l’altro, una finta e un’altra, un dribbling e il successivo.
Grazie a Ronaldo la parola fenomeno è diventata traduzione calcistica di zeitgeist: un fenomeno vero porta quello che sta succedendo nel mondo intero dentro una partita, è un prodotto culturale, un evento generazionale. Ronaldo ha lasciato il suo segno anche nella lingua del calcio e del mondo. In italiano, la parola fenomeno è diventata significante del concetto di straordinarietà grazie anche e soprattutto a lui. Ma le conseguenze linguistiche dell’esistenza di Ronaldo non finiscono qui: dopo di lui, nessun calciatore ha più avuto il coraggio di usare quel nome come nome proprio (Cristiano Ronaldo è un’altra storia), riconoscendone il primo portatore come un gold standard che non ha nemmeno senso provare a raggiungere. Persino un altro fenomeno si è dovuto accontentare dell’appellativo di “Ronaldo minore”: Ronaldinho, l’ultimo fenomeno prima che il calciatore diventasse un iperprofessionista, l’ultimo che si è potuto permettere stranezze che oggi renderebbero impossibile anche solo aspirare all’aggettivo. Il primo fenomeno che è stato tale anche su internet, contenuto virale, base per i meme, bufala da smentire.
Ronaldinho in purezza
Di tutte le cose straordinarie che ha fatto, quella che più è rimasta impressa nella mia memoria è una che ha “fatto” in allenamento. La vedete sopra: sfidato a colpire quattro volte consecutivamente la traversa dal limite dell’area senza mai far toccare terra al pallone, si fece riprendere da un misterioso videomaker mentre compiva l’impresa impossibile. Non ci volevano grandi capacità d’osservazione per capire che si trattava di uno spot, che il misterioso videomaker era un dipendente Nike, che il tutto serviva a promuovere le nuove Tiempo e che figuriamoci se quello che si vedeva in quel video era la verità. Ma il punto era che Ronaldinho era il tipo di giocatore che in campo faceva cose che rendevano possibile, persino probabile, il fatto che in allenamento gli riuscissero tali assurdità. È questo che fa un fenomeno: assottiglia il confine tra realtà e finzione. E facendolo diventa anche il protagonista del primo video caricato su YouTube a superare il milione di visualizzazioni. Ronaldinho forse è stato l’ultimo giocatore al quale l’aggettivo possa essere riferito: per quello che Messi e Cristiano Ronaldo hanno rappresentato nella storia recente del calcio, sarebbe giusto trovare una parola nuova che renda loro giustizia. Se è vero, come è vero, che nel concetto di fenomeno è compresa una parte abbondante di irripetibilità non solo esterna ma anche interna – nessun fenomeno calcistico lo è in ogni partita per tutta la partita, proprio come nessun fenomeno naturale si manifesta uguale a se stesso in ogni occasione, per tutta la sua durata – che senso ha usare la parola per gli unici calciatori nella storia capaci di stare una carriera intera su vette che altri, anche i migliori degli altri, hanno raggiunto soltanto nella loro giornata perfetta?
Forse il calcio è davvero giunto alla fine della storia e davvero Messi e Ronaldo sono stati il picco dopo il quale la vicenda calcistica prosegue lungo un infinito plateau (per colpa di quei due, persino Mbappé ci sembra una cosa da dare per scontata), e tutto sommato sarebbe anche giusto se questa storia, quella del calcio, arrivasse alla fine accompagnata dai giocatori che hanno superato il concetto stesso di straordinarietà. O forse il calcio prosegue, e noi stiamo come sono sempre stati gli spettatori di questo spettacolo nell’intermezzo tra un atto e l’altro: in attesa che sul palco salga il prossimo fenomeno a raccontarci come continua la storia.