L’importanza sottovalutata di ritirarsi all’apice

Da Zidane a Kroos, diversi fuoriclasse hanno smesso nel loro prime. Ecco perché dovremmo apprezzarli.

In una delle scene finali di Space Jam, quando Michael Jordan gli chiede – più o meno seriamente – se vuole davvero giocare a basket da professionista, Bill Murray dice: «No, no, anzi: colgo l’occasione per ritirarmi. Voglio lasciare di me un’immagine vincente, non quella dell’atleta in declino». Nell’istante in cui pronuncia queste parole, in effetti, Murray ha appena contribuito – per pochi istanti, ok, ma in modo decisivo – alla vittoria della TuneSquad contro i Monstars, uno dei rovesci più impronosticabili nella storia dello sport. Insomma, la sua è un’immagine davvero vincente, Murray in quel momento è al punto più alto della sua carriera sportiva. E allora la sua decisione ci sta, è anche condivisibile. Solo che qualche giorno dopo, quando sarà Michael Jordan a decidere a dominare la NBA, il nostro Bill si pentirà di essere stato così affrettato.

Ecco, al di là delle citazioni cinematografiche – per quanto alte, come quella di Bill Murray in Space Jam – quello dei ritiri all’apice della carriera è un tema reale. Soprattutto nel calcio, soprattutto ora che stiamo vivendo l’addio di un giocatore leggendario come Toni Kroos, che ha deciso di smettere a soli 34 anni. Kroos non è certo il primo a ribaltare il teorema di Cristiano Ronaldo e anche di Luka Modric, quello per cui un giocatore deve continuare e continuare e continuare ancora ad andare in campo fino a quando riesce, o comunque fin a quando gliene danno l’opportunità. Prima del centrocampista tedesco, infatti, diversi fuoriclasse hanno smesso di giocare poco dopo i trent’anni. Tre nomi su tutti: Zinédine Zidane, che ha detto basta a 34 anni; Éric Cantona, che ha smesso pochi giorni dopo aver compiuto 31 anni; Michel Platini, che è arrivato a stento a quota 32.

Cos’hanno in comune tutti questi calciatori, a parte il fatto di essere nati in Francia? Semplice: appartengono ad altre epoche, epoche in cui la carriera degli sportivi professionisti era decisamente più breve rispetto a quanto avviene oggi. Nel frattempo sono successe un po’ di cose: sono cambiate le metodologie di allenamento, sono aumentati gli specialisti e i professionisti che lavorano a stretto contatto con gli staff tecnici dei club e delle Nazionali, i giocatori fanno delle vite decisamente più regolari, le tecnologie – mediche e non solo – offrono dei supporti sempre più vasti e sempre più mirati per farli rendere. In virtù di tutto questo, si può dire che Toni Kroos abbia fatto una scelta a dir poco controculturale, se guardiamo alla realtà con gli occhi del nostro tempo.

E allora è inevitabile porsi alcune domande: e se poi Kroos dovesse pentirsene? E se agli Europei, la sua ultima passerella, il nostro Toni dovesse rendersi conto che sta facendo la fine di Murray in Space Jam, che pensa di lasciare un’immagine vincente e invece sta solo facendo una cazzata? La verità è che questa paura non appartiene davvero a Kroos, anche perché eventualmente non ci sarebbero ostacoli e/o problemi a rientrare, figuriamoci: questa paura appartiene a noi, noi che non eravamo e non siamo pronti a certi addii, noi che non possiamo essere sicuri dell’apparizione di un altro Toni Kroos e allora non vogliamo separarci da lui.

La verità reale, quella ancora più profonda, è che noi comuni mortali non accettiamo la natura umana degli atleti d’élite. E quindi non consideriamo neppure l’eventualità che i calciatori professionisti, e ancora di più i fuoriclasse, possano avere altri interessi, altri obiettivi tangibili al di fuori del loro sport. Tutto questo per dire che semplicemente, anche se per molti di noi sembra incredibile, ci sono dei calciatori che sono tali soltanto perché il calcio è il loro lavoro. Che a un certo punto si stufano, che non hanno il bisogno fisico di andare in campo ad allenarsi, a competere, come ci raccontano la vita e i libri e le interviste di Cristiano Ronaldo. A Zidane, per dire, dopo il ritiro mancava «soltanto l’adrenalina delle grandi partite, non tutto il resto». Cantona, come al solito, ha spiegato e approfondito questo aspetto in modo molto personale, e con metafore di impatto: «Lo sport agonistico è una droga, nel senso che i professionisti sono dei tossicodipendenti di adrenalina. Quando ho smesso, per evitare di cadere in tentazione, non ho guardato il calcio per anni. Se il tuo spacciatore vive accanto a te, d’altronde, farla finita è molto più difficile. Il punto, però, è che io non ero come molti calciatori che sentono di non esistere più, quando smettono. Io avevo un farmaco per combattere l’astinenza. Quale? Un’altra passione da coltivare».

Ecco, probabilmente questa è una possibile chiave di lettura: per comprendere il ritiro alla Kroos, potrebbe essere interessante approfondire l’enorme quantità di progetti che il centrocampista tedesco ha sviluppato e segue fuori dal campo, a cominciare da un profilo Instagramtoni.kr8s, che è praticamente un brand. E poi ci sono la sua fondazione benefica, la Toni Kroos Stiftung, che si occupa del sostegno economico e morale alle famiglie con bambini malati terminali, le sue Academy e la sua ultima trovata, la Icon League, un campionato di calcio indoor organizzato insieme allo streamer Elias Nerlich. Non a caso, infatti, diversi anni fa Kroos rilasciò un’intervista in cui disse chiaramente di sentirsi un prodotto mediatico, una condizione inevitabile quando sei così famoso, così esposto: «Sono cosciente di essere un calciatore, e quindi di appartenere in un certo senso anche ai mezzi di comunicazione».

Il caso di Kroos ci mostra che esiste un’alternativa al teorema di Ronaldo e Modric, alle carriere iperdilatate della nostra epoca. È chiaro che dobbiamo restringere l’analisi ai fuoriclasse riconosciuti, agli atleti che fanno parte di un’élite, a degli uomini che hanno potuto mettere da parte tantissimi soldi e allora non continuano a giocare per un reale bisogno economico – a differenza della stragrande maggioranza dei professionisti, che non guadagnano così tanto da poter smettere di lavorare, e allora vanno in campo per necessità. In questo senso, una lettura interessante è quella offerta dal blog della Sports Financial Literacy Academy, ente che propone dei programmi didattici agli sportivi in modo che investano bene il denaro accumulato nella loro carriera: «Gli atleti professionisti dovrebbero iniziare a programmare presto cosa faranno una volta smesso di giocare. Sarebbe bene che avviassero delle attività fuori dal campo quasi in concomitanza con il loro debutto professionistico, in modo da avere un’identità che vada al di là di ciò che succede in campo».

Oggi, insomma, ritirarsi alla Kroos – o alla Zidane, alla Cantona, alla Bill Murray – è una scelta che rappresenta e che esprime dei valori. Perché dimostra che anche i calciatori – ma è un discorso che vale per tutti i lavoratori del mondo – possono definirsi anche fuori dal loro contesto, che non è una cattiva idea, una volta raggiunta la stabilità economica, riappropriarsi del proprio tempo. E poi c’è anche una ragione molto più furba, a pensarci bene: Kroos ha deciso di smettere senza concedersi appendici dorate ma anche discutibili in campionati poco più che mediocri, o magari in nazioni che hanno una cultura e dei costumi, come dire, non sono compatibili coi nostri. E con la modernità. Non a caso, viene da dire, da mesi va avanti una sanguinosa faida a distanza tra Toni e l’universo calcistico dell’Arabia Saudita.

Allo stesso modo, un fuoriclasse che si ritira con un po’ d’anticipo non dovrà combattere per un posto da titolare che un tempo era suo di diritto, non sarà costretto a cambiare – anche solo un po’ – il suo modo di giocare così da non farsi bruciare negli scontri con avversari più giovani di dieci o 15 anni, verrà ricordato all’apice della sua carriera e niente potrà macchiare o anche solo offuscare quel ricordo. Certo, è chiaro che questo scenario non è universale, che ogni persona/giocatore è una storia unica e irripetibile. A pensarci bene, però, a non sarebbe male se i calciatori valutassero un po’ di più il ritiro anticipato, se il teorema di Ronaldo e Modric venisse adoperato solo da Ronaldo, Modric e da pochi altri eletti: ci risparmieremmo i racconti di tante ultime stagioni malinconiche e un po’ patetiche, troppo lontane dai fasti del passato per essere davvero interessanti, davvero significative.