Il ristorante lo ha aperto mia nonna nel 1965. Con nonno, dopo un anno passato a lavorare nella vetreria, pensarono di creare un punto di ritrovo per gli operai italiani di tutto il quartiere. Al tempo qui non trovavi pomodori o melanzane, non sapevano neanche cos’erano. Non c’era nemmeno modo di prendersi un caffè al bar». Ha la voce emozionata mentre parla, Antonio, terza generazione di proprietari del ristorante Mama Lisi a Düsseldorf. Anzi, a Gerresheim. Perché questo sobborgo a est di una delle capitali economiche della Germania ha in realtà un’identità ben precisa. Qui aprì nel 1864 la Gerresheimer Glashütte, la vetreria di Gerresheim, che divenne nel giro di qualche decennio uno dei principali produttori di bottiglie e barattoli al mondo. Milioni di litri di Coca-Cola sono stati rinchiusi nelle bottiglie realizzate qui, almeno finché la tecnologia proveniente da oltreoceano non ha sconvolto il settore, dando inizio al lento declino fino alla chiusura dell’impianto nel 2005.
E su Heyestrasse, la via principale di questa enclave italiana nata nel dopoguerra grazie a migliaia di persone venute per lavorare il vetro, Mama Lisi rappresenta una sorta di avamposto prima dell’enorme perimetro dello stabilimento industriale. Un terreno che oggi giace abbandonato, con la sua torre che svetta e mostra in lontananza il logo della G coronata, in attesa della più classica delle operazioni di riconversione in zona residenziale. Antonio, che ora gestisce il ristorante con la moglie Jasmin e il figlio Luigi, ricorda il ruolo sociale di questo posto. «Nonno Domenico e nonna Giuseppa vennero qui da Maglie, vicino Lecce, per lavorare in fabbrica, ma si accorsero presto che l’assenza di punti di ritrovo per i tantissimi operai italiani poteva essere un’occasione. E infatti il locale non era solo una trattoria, ma anche un bar, un dopolavoro, un alimentari. Si giocava a carte. Un punto di ritrovo che permetteva agli immigrati di dare vita a una vera e propria comunità».
Qualcosa che oggi si è cementato, da Mama Lisi come tutt’intorno, e si è esteso tra le strade di Gerresheim: uno spirito nazionale, rimasto intatto e tramandato di generazione in generazione, con un simbolo forte a fare da collante – la maglia azzurra, quella della Nazionale italiana. Tra i clienti abituali di Mama Lisi c’è anche Kenny Legg. Nato in Inghilterra, si è trasferito a Düsseldorf al culmine di una lunga passione per il calcio tedesco nata negli anni ’80 grazie alle videocassette spedite da uno zio emigrato. Da infiltrato, ha guardato Euro 2020 in strada in mezzo agli italiani. Ricorda la folla durante la semifinale tra Italia e Spagna: «Era il caos. L’autista del tram provava a rimandare la gente sui marciapiedi con un bastone. E dopo i rigori ogni ragazzo aveva in mano un fumogeno, in aria c’erano fuochi d’artificio e la gente danzava estatica attorno al tricolore». Uno scenario poco abituale: «La sonnecchiante Heyestrasse, che spesso mi ricorda uno di quei paesi italiani dove i giovani se ne sono andati e il tempo è rimasto immobile, era tornata a esplodere di vita».
Gerresheim è una sorella minore delle più famose Little Italy nordamericane. Ancora oggi, percorrendo Heyestrasse, sono decine le insegne tricolori di bar e ristoranti più o meno tradizionali. Accanto a chi fa le orecchiette con le cime di rapa è normale trovare chi mette il pollo sulla pizza: conseguenze inevitabili di una contaminazione che va avanti dagli anni Sessanta. «Io parlo italiano perché da piccolo avevo solo quasi solo amici italiani nel quartiere», continua Antonio Lisi. «Oggi è diverso, la fabbrica ha chiuso quasi vent’anni fa, ma hai visto le foto di quando abbiamo vinto l’Europeo?». Questa Little Italy molto poco mainstream, al contrario di quella di Manhattan, conserva ancora la sua originale identità, nonostante i cambiamenti sociali ormai irreversibili. E dal suo underground balza alle cronache, anche internazionali, soprattutto quando vince l’Italia. «È successo nel 2006 e poi nel 2021. Quando gioca la Nazionale è sempre un casino qua». Maxischermi? «No, la partita si guarda nei bar lungo Heyestrasse. Ci sono il Gattopardo, la gelateria Venezia, il Bistro Italy e tanti altri. Vengono gli italiani da tutta la regione. Quando abbiamo vinto l’Europeo la polizia si è preoccupata, ma stavamo solo festeggiando». Dopo la notte di Wembley, un portavoce delle forze dell’ordine ha infatti dichiarato alla stampa che «centinaia di persone stavano celebrando in strada, facendo caroselli con le auto e spettacoli pirotecnici». Qualcosa a cui forse, a Düsseldorf, non erano troppo abituati.
Al margine sud del quartiere il comune ha aggiunto il cartello “Via della Vetreria” sotto quello che indica l’inizio di Glashüttenstrasse. Non è solo un omaggio alla storia locale, ma una vera e propria citazione: la fabbrica, che negli anni d’oro impiegava oltre 8.000 operai, aveva installato al suo interno la segnaletica bilingue e organizzava spettacoli di cabaret e musica in italiano per i lavoratori e le loro famiglie. Su una delle vie che collega Gerresheim al resto di Düsseldorf si può incontrare Sapori del Sud, un alimentari oggi diventato anche ristorante e gestito da Angelo Vaccaro. I suoi genitori vennero qui negli anni ’60 e lui passò presto dai campetti di quartiere alle giovanili del Fortuna Düsseldorf, prima che un infortunio lo fermasse proprio sul più bello. «Quando avevo 27 anni mi richiamarono per la seconda squadra, ma avevo un lavoro e non potevo allenarmi tutti i giorni, perciò dissi no». Da tifoso dell’Inter ha celebrato il recente scudetto, ma i festeggiamenti in strada non sono stati comparabili con quelli degli scorsi Europei: «Qui siamo quasi tutti siciliani, calabresi e pugliesi. E si tifa principalmente Juve, Milan o Inter. Molti fanno la parmigiana col gouda, io uso ancora la mozzarella. Sai il tempo passa, ci si adatta… La Nazionale è l’unica cosa che ci unisce ancora tutti».
Di cucina ne sa qualcosa Enrico De Angelis, cavaliere in Italia e medaglia al merito in Germania. Il suo Saltimbocca è aperto da 25 anni ed è il ristorante più elegante della zona. Lui, incurante dei suoi 84 anni, tiene banco ogni sera con la sua energia vulcanica: «Sono nato a Tolentino, nelle Marche, ma già da giovanissimo ho iniziato a girare il mondo. Decisi di venire in Germania a imparare il tedesco, conobbi mia moglie e non me ne sono più andato. Dal 1971 ho aperto e venduto cinque ristoranti, ma questo me lo tengo». Qui ha sempre avuto un ruolo importante nella comunità: «Oggi faccio molta beneficenza, mi conoscono tutti i bambini delle scuole. Un tempo invece compravo ogni mese decine di copie del Corriere d’Italia a Francoforte e le portavo ai bar e alle famiglie di Gerresheim. Serviva a tenerci uniti». Non è certo un tifoso da sciarpa e fumogeno, Enrico, ma quella notte di luglio nel 2021 scese anche lui per strada e, come lui stesso ammette, fece «grande baldoria».
Quando l’America si tinge d’azzurro
Gerresheim sta cambiando. Senza la fabbrica, e forse con i 1.600 nuovi appartamenti che costruiranno al suo posto, la sua identità italiana continuerà a diluirsi, fino a quando diventerà uno dei tanti quartieri della città. Oppure qualcuno fiuterà l’affare e sarà in grado di trasformarlo in un’attrazione turistica, cosa che al momento non è. A dicembre scorso, il Financial Times apriva così un articolo sulla Little Italy di Manhattan: «Ci sono tante parole per descriverla, italiana è sempre meno una di queste». Ma c’è chi, tra le nuove generazioni di italo-americani nati a New York, non vuole arrendersi a vedere il quartiere dei propri nonni diventare una Disneyland dell’italianità. Sabino Curcio è nato a New York da genitori salernitani ed è cresciuto lavorando dentro alla panineria del padre. Il suo podcast “Growing up Italian” ha assunto un ruolo che forse non si aspettava: venuta meno la dimensione di quartiere, i giovani di origine italiana si ritrovano come pubblico del suo programma, ascoltando e imparando proverbi, ricette, modi di fare da un punto di vista giovanile e contemporaneo. Sul profilo Instagram del podcast, accanto a un post su “What makes a good bruschetta?” ci sono interviste a Lazza, Clementino e Sfera Ebbasta. Il suo scopo è anche quello di creare momenti di incontro per gli eredi di quella comunità italiana, da quelli più tradizionali come un torneo di briscola, a quelli più inaspettati come un concerto di Guè a New York: «C’erano 750 persone, sold out totale, qualcosa di unico», racconta.
Ma il sogno rimane quello di aprire grazie al podcast una sorta di studio, bar e social club a Little Italy e cominciare a remare in direzione inversa rispetto alla gentrificazione che sta svuotando il quartiere della sua identità. Nel podcast si parla – ovviamente – anche di calcio e dopo i rapper italiani più famosi, Sabino vorrebbe «arrivare a intervistare i calciatori della Nazionale». Perché il pallone, anche nel suo caso, ha contribuito a rinsaldare il suo sentirsi italiano: «Posso dire che la prima volta che mi sono sentito italiano è stato durante i Mondiali del 1998». Tifare una squadra di Serie A e l’Italia può aiutare a cementare un senso di identità che di generazione in generazione rischierebbe di perdersi. Anthony Fiume vive a Manhattan, anche se è stato «così fortunato da poter passare metà di quest’anno a Volturara Irpina», la città da dove vengono genitori. «I loro racconti da emigrati fanno sembrare la mia vita semplice in maniera imbarazzante. Loro e i miei nonni mi hanno insegnato che non importa dove viviamo, l’Italia sarà per sempre la nostra casa».
I suoi ricordi più belli sono legati alle estati in Italia e alle partite viste in famiglia: «Se sono a New York, per la Nazionale ci riuniamo in qualche locale. Ma se sono in Italia, la guardo al bar del paese, in un punto ben preciso della sala, perché il mio amico Andrea ha deciso che siccome ho guardato lì la prima partita di Euro 2020, non posso più scegliere dove posizionarmi». Per Anthony, italo-americano è la parola che descrive meglio il suo retroterra: «Per tutta la vita, sia gli italiani sia gli americani mi hanno ricordato che non ero del tutto né l’una né l’altra cosa. Ma la notte dell’11 luglio 2021 è quando più nella mia vita mi sono sentito italiano. Dopo una notte passata a fare caroselli con macchine (e asinelli) nel paese, nonna mi ha lasciato chiuso fuori casa perché pensava fossi già rientrato, e ho dormito in giardino. Ho provato a spiegare agli americani cosa significano notti come questa o quella di Berlino nel 2006: l’unico paragone che funziona con loro è l’atterraggio sulla Luna, un evento che tutta la nazione ha festeggiato in diretta e all’unisono».
Se le notti magiche degli Azzurri passate in Italia hanno aiutato a scolpire il modo di essere di Anthony, per Eden Ghebresellassie il momento in cui Cannavaro alzò la Coppa del Mondo è stato in qualche modo la sintesi perfetta e armonica della sua triplice identità: «Mi trovavo a Minneapolis per l’annuale Festival Eritreo, quindi ho potuto festeggiare la vittoria del mio Paese (l’Italia), con attorno persone del mio Paese (l’Eritrea), nel mio Paese (gli Stati Uniti), triplicando la gioia». Ascoltare la sua storia aiuta a ribaltare le prospettive: «Sono nata a Milano da genitori eritrei. I miei, dalla nascita fino a quando sono emigrati, non hanno mai visto l’Eritrea in pace, e sono andati a cercare fortuna in Italia». Eden vive ad Harlem, lavora nello sport e in passato, quando lavorava per ESPN, ha conosciuto Kobe Bryant: «Per me è stato importante perché all’università in Virginia i miei amici per scherzare mi chiamavano “Italy”. Un giorno mi dissero: Lo sai che c’è un altro Italy nei Lakers?’. Quando ho scoperto della sua infanzia in Italia, sono rimasta ossessionata da lui e dal basket».
Assieme all’umorismo, al modo di gesticolare e al bagaglio culturale di musica e tv italiana, anche il calcio fa parte del suo background: «Mio padre è milanista sfegatato, ma è stato il sentirmi rappresentata a farmi appassionare. Sono rimasta hooked, come si dice qui in America”. Con l’Europeo alle porte e un viaggio in Italia programmato, Rocco Polito, i cui nonni calabresi si stabilirono in Canada negli anni ’50, spera di poter vedere la partita all’aperto sui maxischermi. Se questa estate fosse rimasto in Canada, probabilmente la modalità sarebbe stata la stessa: «Per la finale di Euro 2020 sono andato con la mia ragazza e un gruppo di amici alla Little Italy di Montreal. All’improvviso ha iniziato a piovere in maniera insistente, ma nessuno si è scomposto. Quando Jorginho ha trasformato l’ultimo rigore, le lacrime di gioia si sono mescolate alle gocce di pioggia».
Vivere nel melting pot di Montreal gli ha insegnato ad apprezzare differenze e somiglianze della cultura italiana con quella di altri Paesi: «I miei nonni videro il Canada come terra di promesse e opportunità e hanno contribuito a rendere questa nazione ciò che è oggi. Mi sento sempre più desideroso di celebrare le mie origini. Non c’è nulla di più bello che presentarsi a una partita di calcio con un bel pezzo del caciocavallo sottovuoto aperto da mio padre». Calabro-canadese è anche Alessandro Coluccio, anche se vive a Toronto. Anche lui, come altri, vorrebbe essere «più italiano» ma per quanto possa lavorare sulla lingua e sulle proprie abitudini, sarà per sempre «un discendente di italiani più che una persona cresciuta in Italia». Anche nel suo percorso, il calcio ha avuto un ruolo formativo: «Ricordo che da piccolo a casa i miei parlavano principalmente italiano o dialetto calabrese, anche se nati qui. Guardavamo il Tg1 e non le news canadesi. Allo stesso modo, guardavamo la Serie A e non l’hockey o il basket. Frequentavamo i club di cultura italiana e ogni agosto festeggiavamo San Rocco in strada».
Da tifoso azzurro, uno dei suoi ricordi più belli è dolceamaro: il 9 luglio 2006 si trovava su un treno dalla Calabria a Torino. Durante quelle dodici ore di viaggio riuscì a seguire la finale da una tv satellitare presente sul treno, ma a causa delle gallerie dell’Appennino, la connessione saltò poco prima dei rigori e riprese solo quando l’Italia stava già festeggiando. E mentre dal finestrino guardava città e paesi festeggiare, disse alla madre una sola frase: «Mi devi un Mondiale». Wayne Girard, insegnante di storia e giornalista sportivo, era in New Jersey nel 2006: «Dopo la vittoria, abbiamo guidato un pulmino dipinto di azzurro per le strade di Elizabeth. Anche qui c’è una grande presenza italiana, che è stata evidente quando gli Azzurri hanno giocato a marzo un’amichevole contro l’Ecuador ad Harrison». Matt Falcona, di origini siciliane e molisane, è nato in Texas, è cresciuto a Pittsburg e ha vissuto a Boston: «Lì guardavo le partite dell’Italia nel North End, il quartiere storicamente italiano. Mio nonno aveva sempre una bandiera in bella vista a casa».
Tutto il mondo è una Little Italy
Se quasi ogni grande città del Nordamerica ha un quartiere italiano, in Sudamerica c’è una nazione intera dove le Little Italy non sono mai servite, perché i discendenti di italiani rappresentano il gruppo etnico più numeroso del Paese. I nonni di Roberto Parrottino arrivarono a Buenos Aires da Catanzaro tra il 1949 e il 1950, partendo in nave dall’Italia. E lui, giornalista sportivo, conserva ancora oggi una cassetta registrata dal padre con la radiocronaca della finale dei Mondiali 1982 di Víctor Hugo Morales, colui che quattro anni dopo, di fronte al più bel gol di sempre, regalò forse la più bella cronaca di sempre. In una nazione in cui avere il cognome italiano è la normalità, Roberto spiega come «la Nazionale ha contribuito a mantenere viva l’identità italiana. Da piccolo, per distinguermi dai miei cugini, quando giocavamo al SEGA sceglievo sempre gli Azzurri perché dicevo che io, in realtà, ero italiano».
I suoi ricordi di Germania 2006 sono legati a un bar dove guardò la finale con una maglia regalatagli dai genitori, mentre nel 2021 non ha potuto godersi la vittoria insieme ad altri tifosi: «Ho visto l’Europeo chiuso in casa per via delle regole di confinamento durante la pandemia. Prima di Italia-Inghilterra, ho scritto un articolo su Chiellini. Il cronista della finale per l’Argentina, Arturo Bulian, lo ha citato nel pieno della trasmissione. Un orgoglio». La cultura italiana ha contribuito a costruire l’identità argentina, tanto che, soprattutto nelle aree metropolitane, il suo impatto è stato trasversale e ha investito ogni aspetto della società, a partire dalla lingua: se a Buenos Aires è comune dire birra invece di cerveza è un’eredità del cosiddetto lunfardo, una vecchia parlata costruita principalmente sull’eredità lessicale dell’italiano e dei suoi dialetti. Anche la cucina ne ha risentito: per mangiare pasta o pizza non c’è bisogno di cercare un ristorante italiano perché sono piatti comuni in ogni locale, per non citare esempi più regionali come la fugaza, tipica focaccia genovese, o la fainà, la farinata di ceci ligure.
Questo vastissimo patrimonio di retaggi italiani viene coltivato e rinnovato da innumerevoli circoli sparsi su tutto il territorio argentino, ma anche da squadre di calcio come lo Sportivo Italiano, fondato da emigrati negli anni ’50 e oggi in quarta serie. Ma anche in questo caso, possiamo dire che le radici italiane hanno dato origine un po’ a tutto: nella fondazione dello stesso Boca Juniors, così come per altre squadre di primo livello, ebbe un ruolo fondamentale un gruppo emigrati genovesi. La sintesi è che in Argentina, per cercare l’Italia, basta guardarsi intorno.
Di origini genovesi e tifoso di una squadra fondata da italiani è anche Ricardo Parodi, anche se è brasiliano e appassionato della Sampdoria e del Palmeiras. I biancoverdi di San Paolo nacquero nel 1914 grazie alla lettera scritta da Vincenzo Ragognetti al quotidiano della comunità italiana “Fanfulla”, in cui si lanciava un appello per fondare un club “composto solamente di ’sportmen’ italiani”. Iniziò così la storia del Palestra Itália, poi rinominato Palmeiras durante la Seconda Guerra Mondiale. Per Ricardo tifare Samp significa ricordare suo padre, che nel 1991 riuscì ad attraversare l’Oceano per vederla vincere lo Scudetto, per poi morire pochi mesi dopo. «La cosa più bella dello scorso Europeo per me è stata vedere in televisione Mancini vincere quel trofeo a Wembley». Chi invece ha assistito con i suoi occhi alla finale di Wembley, quella sera, è Domenico Basilea. Da St Albans, paese a nord di Londra, alla cattedrale del calcio inglese il tragitto è breve. I suoi genitori, entrambi siciliani, migrarono in Inghilterra nel 1965. E anche Londra, un po’ come Gerresheim, quella sera si ritrovò tinta d’azzurro, nonostante lo sfavore di una finale fuori casa: «Anche se sono nato e cresciuto qui, mi sono sempre sentito italiano. Batterli in casa loro è stata una soddisfazione enorme. Ci siamo riversati in strada con le bandiere. A St Albans è pieno di italiani».
Anche Edoardo Barberi, nato a Londra da genitori italiani, era a Londra l’11 luglio 2021: «Ho iniziato a guardare Euro 2020 con degli amici inglesi in un bar a London Bridge. Siccome portava bene, ho continuato a farlo e l’ho fatto anche per la finale. Non puoi capire gli insulti che ho preso quando hanno visto la maglia azzurra…». In Oceania, questo senso di identità va alimentato ogni giorno. Lo spiega Francis Miccio, italo-neozelandese, presidente del Club Italia di Nelson: «Io so parlare napoletano, anche se con accento kiwi, nonostante sia stato in Italia solo quattro volte. Mio nonno Cataldo Romano venne qui nel 1916 e fu uno dei fondatori del Club Italia».
Come e più che in Argentina, in tutta l’Oceania questi circoli mantengono viva e attiva la comunità italiana: «Dal 1995 organizziamo una partita annuale contro il Club Garibaldi di Wellington. Giochiamo un anno da noi e uno da loro e questo evento contribuisce a rinsaldare le relazioni tra i due circoli di italiani». Nel 2021 si sono fatti riconoscere: «Eravamo in centoventi e la tv nazionale ci ha intervistato prima della partita, all’intervallo e al fischio finale. Poi il tg ha mostrato i nostri festeggiamenti a tutta la Nuova Zelanda». E anche per questo Europeo si faranno trovare pronti: «Mostreremo in diretta sul maxischermo tutte le partite dell’Italia. Ci aspettiamo più gente a ogni partita. Dall’altra parte del mondo rispetto all’Italia, ci saranno persone di tutte le età a tifare per la Nazionale, cantando e mangiando cibo italiano». Perché non c’è cosa, più della Nazionale, che unisce e fa sentire a casa anche chi se n’è andato.