Lo scorso 3 luglio, sul traguardo di Saint-Vulbas, Mark Cavendish ha vinto la 35esima tappa della sua carriera al Tour de France superando il record di Eddy Merckx (34). Cavendish ha 39 anni, l’estate scorsa si era rotto la clavicola e il suo primo successo al Tour lo aveva ottenuto il 9 luglio del 2008 davanti a Erik Zabel: nel frattempo Zabel ha avuto un figlio, Rick, che è diventato a sua volta un ciclista e si è ritirato alla fine di maggio. Ma non è questo lo spazio per celebrare la longevità di Mark Cavendish, sopravvissuto ai padri e anche ai figli. Era solo uno spunto narrativo. Dopo la volata, Cavendish si è rivolto verso la maglia gialla Tadej Pogacar — che in quel momento era a quota 12 vittorie in carriera al Tour de France — e gli ha detto: «Mi raccomando, non battere il mio record». Pogacar di anni ne ha 25. Oggi il numero di tappe che ha conquistato al Tour è già salito a 17.
Tadej Pogacar è diventato il primo ciclista a realizzare la doppietta Giro d’Italia-Tour de France 26 anni dopo Marco Pantani nel 1998. È solo l’ottavo a riuscirci nell’intera storia del ciclismo: l’elenco comprende anche Eddy Merckx (tre volte), Bernard Hinault (due volte), Fausto Coppi (due volte), Jacques Anquetil (una volta), Miguel Indurain (due volte) e Stephen Roche (una volta). Il Giro, a maggio, senza che alla partenza ci fossero rivali credibili, è stato poco più che una formalità: Pogacar ha indossato la maglia rosa alla seconda tappa, vincendo l’arrivo al Santuario di Oropa, e l’ha portata fino a Roma con un vantaggio di quasi dieci minuti (9’56” per la precisione) su Daniel Martínez. Dal secondo Dopoguerra in poi, solo tre volte il Giro d’Italia aveva visto distacchi maggiori tra il primo e il secondo classificato, l’ultima nel 1965.
Il Tour de France non si può dire che sia stato più combattuto, perché Pogacar ha vestito la maglia gialla ininterrottamente dalla quarta tappa all’arrivo a Nizza, eppure c’è stato un momento, il 10 luglio, dopo l’undicesima frazione, in cui il suo principale avversario, Jonas Vingegaard, secondo le agenzie di scommesse aveva una quota più bassa per la vittoria finale della corsa. In altre parole, era diventato lui il favorito. Ma è stata una speranza, un azzardo, una fagianata, e pochi giorni dopo Pogacar ha rimesso le cose al loro posto arrivando da solo sui Pirenei, prima a Pla d’Adet e poi a Plateau de Beille.
Vingegaard aveva vinto gli ultimi due Tour de France consecutivi proprio davanti a Pogacar. Forse come scalatore puro è anche più forte di lui, ma lo scorso 4 aprile è caduto in discesa durante una tappa del Giro dei Paesi Baschi. Frattura alla clavicola e a diverse costole, uno pneumotorace e una contusione polmonare, diceva la diagnosi, e alla vigilia della partenza del Tour da Firenze, il 28 giugno, 85 giorni dopo la caduta, aveva spiegato: «Essere qui è un miracolo, tutto quello che viene per me è un regalo». Vingegaard ha chiuso comunque al secondo posto, anche se nelle ultime tappe ha dovuto resistere agli attacchi di Remco Evenepoel, e le incognite intorno al suo stato di forma hanno contribuito a tenere acceso l’interesse su un Tour de France inedito, o quasi, nella storia del ciclismo. Da una parte chi tentava la doppietta dopo aver già trionfato al Giro d’Italia, dall’altra il campione in carica reduce da un grave infortunio: uno avrebbe potuto calare all’improvviso, l’altro accendersi nella terza settimana. Era il paradosso del gatto di Schrödinger, ma con la condizione fisica di entrambi al posto del gatto. E alla fine ha vinto Pogacar.
A questo punto, prima di continuare, mi devo affidare un attimo all’aneddotica personale, a un dato empirico: Tadej Pogacar, per il suo modo di correre, di vincere, di interpretare il ciclismo e la vita, sta portando nuove persone a seguire questo sport. Pogacar, con quel ciuffo che gli spunta da sotto il casco, emoziona per gli attacchi continui e per le fughe da lontano (all’inizio di marzo ha vinto la Strade Bianche pedalando in solitaria per 81 chilometri), tanto che talvolta sono i suoi stessi compagni di squadra, o peggio ancora il suo direttore sportivo, a ricordargli che no, non si può avere sempre tutto e subito.
Forse con una strategia diversa oggi Pogacar avrebbe in bacheca un Tour de France in più, ma lui non sembra aver intenzione di cambiare, e il suo coraggio cattura l’immaginazione dei tifosi. Il ciclismo si è trasformato negli ultimi anni, non solo grazie lui, e dopo un’era di noia e gare prevedibili una nuova generazione di campioni sta facendo riscoprire agli appassionati la dimensione ancestrale di questo sport: tra tutti, però, Pogacar è il fuoriclasse più completo, più mediatico e più vincente. Nel 2024 ha preso parte a sei corse: in cinque è arrivato primo (Strade Bianche, Volta a Catalunya, Liegi-Bastogne-Liegi, Giro d’Italia e Tour de France) e in una, la Milano-Sanremo, terzo.
Esiste un omonimo di Tadej Pogacar in Slovenia, un artista nato a Lubiana nel 1960 considerato il padre della teoria del Nuovo Parassitismo. Come un parassita in biologia assorbe più nutrimento, ossigeno ed energia che può dal corpo che lo ospita, il Tadej Pogacar artista invade i musei di tutto il mondo e con azioni sovversive, critiche e ironiche ne disturba i meccanismi dall’interno. L’obiettivo alla base della sua ricerca è decostruire i sistemi e i modelli preesistenti, mettere in discussione i principi dominanti dell’arte istituzionale. Insomma: è innovativo, dissacrante e rivoluzionario, un po’ come il Tadej Pogacar in bicicletta. Uno che qualche giorno fa, paragonato a Eddy Merckx dopo l’ennesima fuga solitaria, ha risposto: «Non sono un cannibale, mangio le caramelle».